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13 assassini: radiografia di un remake

Un coraggioso Takashi Miike rimette la katana al centro del discorso filmico.
di Emanuele Sacchi

Una foto di scena del film 13 assassini di Takashi Miike.

lunedì 20 giugno 2011 - Approfondimenti

Si è scritto in abbondanza sulla natura insolita della svolta di Takashi Miike, l'iconoclasta per definizione, il ribelle del cinema giapponese - nonché allievo (poco rispettoso) di Imamura Shoei - alle prese con un jidai geki tradizionale, un remake del classico di Kudo Eichii sull'impresa disperata dei tredici samurai assassini. Comprendere la portata del rischio affrontato da Miike non è semplice se non si conosce a fondo cosa significhi oggi rimettere la katana al centro del discorso filmico; un'operazione per certi versi analoga a ciò che avviene – non a caso sempre più raramente – con chi a Hollywood prova a cimentarsi con il western. Una tradizione talmente prestigiosa da risultare ingombrante, rischi elevatissimi e forse non commisurati con il ritorno commerciale. Ma Miike adora le sfide, proprio come i suoi personaggi, capaci di gettarsi a rotta di collo in imprese suicide. E la sfida con il jidai geki è stata vinta al punto tale da generare immediatamente un (ideale) seguito, quel Death of a Samurai in concorso all'ultimo Festival di Cannes che si misura con il capolavoro Harakiri di Kobayashi. Il rituale dello harakiri è centrale anche in 13 assassini, nella sua accezione più politica, ovvero come sommo gesto di protesta e indignazione di fronte a un'ingiustizia intollerabile. Unica possibilità di manifestare il proprio dissenso in un contesto come quello del Giappone Tokugawa, in cui l'abuso del potere non conosceva limiti, fino a portare a eccessi come le nefandezze del perverso Naritsugu, incarnazione della volgarità e della codardia dell'autorità quando questa abbandona la propria autorevolezza in favore della liceità sfrenata.
Non è dato sapere se abbia preso le mosse dalla figura di Naritsugu l'idea di Takashi Miike di rielaborare 13 assassini, ma è indubbio che nell'esasperazione dei tratti più sadici e inumani del villain si riconosca la cifra stilistica dell'autore di Audition. Almeno in superficie, perché è forse altrove che Miike appone più nascostamente la sua firma: in primis nel tredicesimo assassino, ossia il vagabondo che ripudia il codice del samurai e se ne fa beffe, ma non si tira indietro quando si tratta di roteare le sue pietre contro i crani dei nemici. Matto e innamorato, semplice ma libero dalle catene dell'onore, un po' rebel without a cause e un po' idiot savant, Koyata sembra incarnare alla perfezione lo spirito del regista e uscire come il vero vincitore dalla mattanza di samurai vittime del loro assurdo codice.

La (nuova) via del samurai: hagakure reloaded
La riflessione moderna sulla figura del samurai è l'altro scarto fondamentale apportato da Miike al testo di Kudo Eiichi, l'elemento che forma l'ossatura di 13 assassini sotto la superficie di straordinarie sequenze action (secondo certa critica la prima parte del film è un lungo pretesto per lo sfoggio di maestria action della seconda, in cui Takashi supera oggettivamente se stesso); il vero samurai di 13 assassini è Hanbei, braccio destro di Naritsugu, in quanto, contrariamente al protagonista Shinzaemon, difende il proprio signore a costo della propria vita perché è il suo dovere, a prescindere da ogni giudizio etico o politico sullo stesso. L'onore prima della giustizia, il dovere in luogo del libero arbitrio. La via del guerriero è ineluttabile, come dimostra l'impossibilità di Shinroukuro di sfuggire al proprio destino (straordinaria nell'originale la sequenza in cui Shinzaemon lo convince a suon di musica, ripresa da John Woo ne La battaglia dei tre regni), ma non è qualcosa che si sceglie, è qualcosa che semplicemente si accetta: “se suonare sai, suonare si tocca”, antico adagio declinato a fil di katana con le conseguenze autolesioniste del caso. Dove Kudo Eichii metteva in luce soprattutto un mondo declinante, in cui il samurai, ridotto a burattino del Potere, non sapeva più uccidere con la spada, dando vita a duelli confusi e talvolta goffi, i guerrieri di Miike sono macchine da guerra inarrestabili votati al “massacro totale” sventolato come una bandiera da Shinzaemon. In cuor suo Shinzaemon è consapevole di essere sfuggito al suo dovere di samurai, ma è il sistema stesso a collassare una volta esposte le sue fondamenta di argilla; non esiste più alcun senso nella difesa del Potere quando questo porta a Naritsugu, approfittando delle storture di una società assurdamente gerarchica. L'accento politico si fa ancor più evidente nel remake con l'aggiunta della sequenza, forse storicamente inverosimile ma di grande impatto, in cui è una semplice contadina, orrendamente mutilata da Naritsugu, a impietosire Shinzaemon e a convincerlo definitivamente a intraprendere una missione con ogni probabilità suicida. Ortodosso nella forma e rivoluzionario nei contenuti, il 13 assassini di Takashi Miike è la tardiva consacrazione di un non-autore venerato da blogger e fanzinari di tutto il mondo per gli eccessi pop di pellicole come Fudoh the New Generation o Ichi the Killer - per non sceglierne che due delle oltre settanta girate - ma accettato a malincuore e malcelato disgusto nei salotti bene del cinema festivaliero. Una vendetta non meno appagante dell'impresa dei tredici assassini per il regista da Yao, Osaka.

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