Humberto Mauro è un regista, scrittore, montatore, musicista, scenografo, è nato il 30 aprile 1897 a Volta Grande (Brasile) ed è morto il 15 novembre 1983 all'età di 86 anni a Volta Grande (Brasile).
Oggi il Brasile è conosciuto, si fa per dire, attraverso le telenovelas che occupano il piccolo schermo domestico, preferibilmente di pomeriggio. Vent'anni fa lo era assai più nel profondo con il suo cinema novo che, non del Brasile soltanto, ma dell'intero sub-continente latino-americano esprimeva l'«estetica della fame», per usare il termine caro a Glauber Rocha cha nel celebre manifesto programmatico lanciato a Genova alla metà degli anni Sessanta.
Fu un movimento glorioso, che si ritagliò un capitolo di grande rilievo nella storia del cinema moderno. Solo l'avvento di una dittatura militare poteva spezzarlo, costringendo i maggiori alfieri, tra i quali appunto Glauber Rocha, all'esilio, al silenzio o alla metafora.
Ma quali furono le radici lontane, a lungo misconosciute anche in Brasile, che rappresentarono il legame col passato per i combattivi registi del cinema novo? La domanda è resa attuale da un evento che i giornali italiani, nella quasi totalità, non hanno nemmeno registrato: la morte a Belo Horizonte, pochi mesi fa, a ottantasei anni compiuti, del patriarca e pioniere del cinema brasiliano Humberto Mauro.
Era un patriarca per l'età raggiunta e per il trentennio di attività documentaristica e pedagogica all'Instituto Nacional do Cinema Educativo: trecento documentari alcuni dei quali bellissimi e difficilmente confinabili sotto la sigla di «professionalismo burocratico», che perfino un allievo devoto come Rocha gli riservò. Ma Rocha intendeva dire che soltanto le strutture inesistenti dell'industria cinematografica e la delittuosa distrazione degli uomini di cultura avevano ridotto Mauro al ruolo di educatore, quando la sua funzione sarebbe stata quella del poeta.
D'accordo con lui era del resto lo stesso Mauro, allorché evocava i tempi andati: «il film nazionale, sotto tutti i pretesti, trovava una resistenza compatta e invincibile da parte dei distributori legati mani e piedi al monopolio straniero che imperava con i suoi prodotti nel mercato brasiliano, da un punto all'altro del paese». Scrivendo nel 1954, aggiungeva: «A mio parere, continua a essere questo il problema pratico e umiliante, ancora senza soluzione, del cinema brasiliano. Senza la garanzia reale e piena del mercato interno, del noleggio e della distribuzione, il capitalista brasiliano rifugge dall'impegnare il suo danaro nell'industria del film, che ha basi care e frutti incerti e remoti».
Eppure, negli anni Venti e Trenta, Humberto Mauro era stato un pioniere del nuovo cinema, anche se isolato dapprima in una lontana provincia e poi stroncato dalla situazione economica. Un cinema melodrammatico e magari d'appendice stando alle trame, ma assolutamente personale e creativo stando all'«occhio» della cinepresa e al ritmo sincopato del montaggio. Vogliamo dunque vedere più da vicino chi fosse quest'uomo che, esattamente trent'anni dopo il suo capolavoro Ganga bruta (1933), era assunto da Glauber Rocha, nel saggio Revisione critica del cinema brasiliano pubblicato a Rio de Janeiro nel 1963, quale maestro indiscusso della nuova generazione di cineasti.
Humberto Duarte Mauro (Duarte era il cognome della madre) nacque a Volta Grande, nello Stato di Minas Gerais, il 30 aprile 1897. Il padre, emigrato in Brasile dalla provincia di Salerno, era un tecnico. La madre era nativa di Minas, una mineira, come si diceva con un aggettivo poi impiegato da Mauro nel titolo di un suo film (Sangue mineiro) che concluse nel 1929 il «ciclo di Cataguases», uno di quei cicli regionali (altri furono quelli di Recife e di Campinas) nei quali si articolò il cinema brasiliano all'epoca del muto.
Cataguases era una cittadina dell'interno, sempre nel medesimo Stato, nella quale Mauro si era trasferito impiantandovi un'officina elettromeccanica. «Nel 1925 - ricordava egli stesso - era collegata alla costa soltanto da una linea ferroviaria, produceva caffè e latticini, aveva piccole industrie) specialmente di tessuti, un florido commercio, banche, istituti di insegnamento secondario, stampa, e una popolazione che rispecchiava questa variata attività col suo desiderio permanente di iniziative, a volte ingenuo e indeterminato».
Senonché, tra le attività culturali, il cinema non aveva ancora in quella remota provincia dell'interno, in quel paesaggio fondamentalmente rurale, lo statuto di «arte» che del resto era una pia illusione anche nei grandi centri del paese. E tuttavia Cataguases non era sprovveduta del tutto, anzi vantava una rivista letteraria, O Verde, che riallacciandosi al movimento «modernista» in poesia e nelle arti (partito da San Paolo nel 1922) andava proiettando il nome della cittadina fuori dei confini della regione. Ma il cinema, ripetiamo, non era un'arte, e quindi le iniziative del ribollente Mauro, erede del talento paterno, si indirizzarono verso le attività tecniche. Fu elettricista, radioamatore, costruttore di apparecchi riceventi; ma anche scacchista, musicista, filodrammatico e fotografo.
Alcune di queste doti le riversò poi nel cinema, che scoprì soltanto a metà del decennio e all'età di ventinove anni, attraverso le pellicole nordamericane d'avventure esibite nell'unico cinematografò locale, ricavato da un vecchio teatro. Da allora vi si dedicò con una passione che avrebbe assorbito tutte le altre e che sarebbe durata tutta una lunghissima vita. L'ispirazione la trasse dai film che vedeva e che voleva imitare; dalla curiosità innata per ogni invenzione e soluzione tecnica, ma- soprattutto dal paesaggio, di natura e di uomini, che aveva davanti agli occhi quotidianamente e che permeò la sua poetica. «Stavo prendendo sul serio - come scrisse - un'attività che scandalizzava le persone per bene e sensate».
Così venne fuori il «ciclo di Cataguases» tra l'incredulità generale e in un isolamento quasi assoluto, un cinema senza teatri di posa e con mezzi tecnici inventati alla giornata, recitato praticamente in famiglia (anche la moglie era attrice sotto lo pseudonimo di Lola Lys) ma dotato di sincerità, di conoscenza dei luoghi e dei caratteri umani, e di una vena lirica ormai inequivocabile.
Questa vena, già presente in Na primavera da vida (1926) e in Tesouro perdido (1927), si dispiegò pienamente in Brasa dormida del 1928, quando al fianco di Mauro esordì l'operatore Edgar Brasil, che nel 1930 avrebbe fotografato anche il film-leggenda di Mario Peixoto Limite, e che (puntualizza Rocha) «nella storia della fotografia cinematografica, quando sarà scritta, avrà l'importanza che un Tissé ebbe per Ejsenstejn, un Kauffan per Dziga Vertov e per Vigo, un Gregg Toland per Orson Welles e per William Wyler, un Figueroa per il cinema messicano, un Otello Martelli per il neorealismo o un Raoul Coutard per la nouvelle vague».
All'avvento del sonoro Humberto Mauro si spostò a Rio, ma Ganga bruta rimase un film sostanzialmente muto, sonorizzato con dischi e fortunatamente un film «provinciale», come lo fu in Europa, contemporaneamente, Zéro de conduite di Jean Vigo. Secondo Glauber Rocha, il quale ne scriveva l'anno prima che il panorama brasiliano fosse arricchito dal suo Deus e o diabo na terra do sol (titolo italiano Il dio nero e il diavolo biondo) e da Vidas sêcas di Nelson Pereira dos Santos (iniziatore del nuovo corso alla metà degli anni Cinquanta), Ganga bruta fu nel 1933 «uno dei venti maggiori film di tutti i tempi». Non sembri un'iperbole: il giudizio è formulato nell'ambito di una cultura di violenza
e di farne, ma l'analisi dell'opera lo avvalora in modo persuasivo. Apparentemente si tratta di un melodramma «primitivo» basato sul tipico macho brasiliano che ammazza la moglie la notte delle nozze e, assolto per delitto d'onore, si dà a un'escalation marciale nella metropoli, diventa direttore d'una fabbrica e qui si esercita, oltre che nel combattere gli operai e i tecnici, anche nel sedurre un'ingenua ragazza. Avventure sentimentali che c'erano già nei suoi film precedenti, ma che Mauro risolveva stavolta da cineasta venuto in contatto anche coi classici russi ed europei. Utilizzò perfino gli elementi industriali come metafore erotiche, ma non era un freudiano come non era un marxista. «La discussa sequenza freudiana della fabbrica - osserva Rocha - è l'unico momento storicamente superato del film». Per fortuna Mauro restava un autodidatta guidato dalla sensibilità e dall'intuizione, e la grandezza di Ganga bruta deriva dalla sua capacità di strutturare il racconto in modo antologico ma non frammentario) dissonante ma non disarticolato. Ciò che lega le sue varie visioni in una visione unitaria è il lirismo emanante dall'esperienza vitale, dalla realtà immediata anche se frastagliata. La sua è una sorta di non-tranquillità razionale. Così l'emozione non trabocca nel sentimentalismo, la politica è spoglia di demagogia, il taglio narrativo è sincopato e libero. «Non ci sono tempi statici, in Ganga bruta», scrive Rocha: «è tutto un tempo che vive, mosso da un ritmo interno; esplode, arretra, discorre, riflette, comunica un mondo in mutamenti imprevisti, sempre più suggestivi». Un linguaggio molto moderno, come si vede, anzi contemporaneo. Se il cinema novo fotografò negli anni Sessanta quanto la letteratura brasiliana aveva scritto negli anni Trenta, forse lo stile di Ganga bruta precorreva, negli anni Trenta, i migliori risultati della nouvelle vague degli anni Sessanta.
Ganga bruta fu prodotto dall'amico Aghemar Gonzaga, il primo a credere nel talento cinematografico di Mauro. Il primo vero sonoro, anzi quasi un musical, gli venne invece finanziato nel 1935 da un'altra coraggiosa amica, Carmen Santos, che lo interpretò. In Favela dos meus amores l'autore anticipava, come Renoir in Toni, il neo-realismo. E quando si dice autore si deve intendere proprio tutto: perché Mauro, in questo film che prediligeva, non fece solo lo sceneggiatore e il regista, ma si convertì in direttore della fotografia, in ingegnere del suono, perfino in elettricista e macchinista come ai tempi del suo artigianato, dieci anni prima.
L'ultimo film non documentario di Mauro, O canto da saudade, uscì nel 1952 prodotto da lui stesso nella città natale di Volta Grande in un teatro di posa battezzato Rancho Alegre; e quale congedo, il regista vi interpretava anche il saporito ruolo di un colonnello a cavallo. Ma sarebbe tornato ancora una volta come attore in un film del 1969; Memória de Helena, del suo allievo e cinebiografo David Neves.
Per concludere con le parole di Glauber Rocha, Humberto Mauro fu il precursore di un «cinema nuovo» universale, perché fece anche lui, ai tempi suoi, un cinema anti-industriale. Ossia «il film che nasce con un altro linguaggio perché nasce da una crisi economica, ribellandosi al capitalismo cinematografico, una delle forme più violente dello sterminio delle idee».
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006