Gregory Peck (Eldred Gregory Peck) è un attore statunitense, è nato il 5 aprile 1916 a La Jolla, California (USA) ed è morto il 12 giugno 2003 all'età di 87 anni a Los Angeles, California (USA).
Lei ha vissuto nell'epoca d'oro del cinema americano. Cosa pensa sia cambiato rispetto alla Hollywood di allora?
Posso spiegarlo con due piccoli aneddoti. Stavo girando un film con Ava Gardner e un giorno, ci eravamo appartati per mangiare qualcosa. All'improvviso la gente si accorse di Ava e si fermarono tutti, non si sentiva volare una mosca. Quella sì che era una diva. E poi all'epoca ci si divertiva, il lavoro era veramente divertimento. Liz Taylor andava in giro sul set con una piccola scimmia sulla spalla, ed era molto buffo. Una mattina incontrai Groucho Marx, che fischiettava prima di entrare in studio. Lo facevo anch'io abitualmente, perché per me era un piacere fare questo mestiere. Oggi si producono film molto belli, che guardo volentieri, ma forse non c'è più lo stesso gusto, la stessa voglia di lavorare ridendo. Io mi sono sempre alzato prestissimo e ricordo che un giorno Cary Grant mi disse che voleva smettere di recitare per non essere più in piedi alle 5 del mattino; per me invece non è mai stato un problema.
Cosa pensa del fatto che oggi un attore può guadagnare anche trenta milioni di dollari?
Che è nato con la camicia!
Nel documentario di Barbara Kopple, a lei dedicato, è molto naturale, si mostra nel suo ruolo di padre e di nonno più che in quello di attore.
È tutto merito della regista. Ci abbiamo messo più di un anno e mezzo a realizzare questo film e poco a poco sono riuscito a dimenticare la cinepresa, a perdere la coscienza dell'interpretazione
Che effetto le ha fatto vedere il film?
Mi è piaciuto molto, ho scoperto di essermi rivelato più in questo documentario che durante tutto il corso della mia vita; mi sono molto rilassato e sono riuscito ad essere veramente me stesso
Nel corso del documentario parla di "vocazione" e dice spesso "che dio ti benedica". Che rapporto ha con la fede?
Dai dieci ai quattordici anni ho frequentato una scuola militare e cattolica, in poche parole marciavamo pregando! I miei genitori pensavano che tutto ciò fosse importante per formare il carattere e ovviamente qualcosa mi è rimasto.
Lei ha cominciato con il teatro
Ero molto giovane e il teatro mi ha fatto fare le mie prime esperienze lavorative. Quando ho girato il primo film, Tamara figlia della steppa, nel 1944, Jacques Tourneur mi disse di non urlare, di parlare in modo più naturale; ma non era colpa mia, era perché in teatro dovevo farmi sentire fino al loggione! Poi col passare del tempo ho cominciato a "sentire" la parte e tutto è stato più facile.
Ricorda un momento di particolare difficoltà?
Come no; durante le riprese di Moby Dick la balena bianca ero arrampicato su una balena di trenta metri in caucciù, scivolavo in continuazione e dovevo arpionarla. All'improvviso mi sono ritrovato in mezzo alla nebbia, a un passo dall'acqua gelata, non sapevo più dov'ero e dove dovevo andare. Ho avuto paura e ho iniziato a gridare: aiuto, c'è qualcuno? Spero proprio di sì! Sono passati venti minuti prima che la barca mi recuperasse!
Cosa ricorda di Vacanze romane?
Ho passato a Roma sei mesi di assoluta felicità, molto romantici. Audrey Hepburn era fantastica, era nata per quel ruolo di principessa, anche se era il suo primo film, e io non potevo fare altro che darle la mano come un ballerino che accompagna una danza. Ho dei ricordi meravigliosi.
Un rimpianto?
Non aver fatto Mezzogiorno di fuoco.
Come guardava lontano lui, lo sguardo fisso verso un punto fermo dell'orizzonte, non c'era nessuno. Se c'è m'espressione che può riassumere l'essenza di Gregory Peck è questa fissità volitiva, questo calmo ma inflessibile guardare in avanti, capace di comunicare un senso di fiducia, di convinta compartecipazione allo spettatore. L'attore americano aveva questo dono dello sguardo, che si portava dietro in ogni interpretazione, Vedi ad esempio per il personaggio dell'avvocato progressista Atticus Finch, con il quale vinse il suo unico Oscar, nel 1962: un uomo che, in una cittadina del profondo Sud razzista, si prende coraggiosamente carico della difesa di un nero accusato dello stupro di una bianca. Un eroe borghese un tranquillo cittadino, come potrebbe essere ciascuno di noi, che al momento opportuno sa qual è il suo dovere e non si tira indietro. Questa fissità poteva essere il suo maggiore handicap. E infatti uno che se ne intendeva davvero (ma che questa volta si sbagliò, e di grosso), il mitico produttore David O. Selznick, nel 1941 aveva pensato bene di non assumerlo, rischiando di troncare sul nascere cotanta carriera. “Il ragazzo somiglia troppo ad Abramo Lincoln”, disse più o meno, e in quanto a personalità beh, meglio lasciar perdere. Si sbagliava appunto, e quel giovanotto era destinato a fare farne tanta, di strada.
Buono, coraggioso, tutto d'un pezzo, subito amato dal pubblico. Appena dieci anni dopo, ancora Selznick (che probabilmente era un grande anche perché sapeva fare, autocritica) pontificò “Sappiamo che Peck è ormai di moda. Già all'anteprima di Io ti salverò il pubblico ha iniziato ad agitarsi appena il suo nome è comparso nei titoli di film e abbiamo impiegato un po' di tempo per riuscire a far stare zitti tutti”. Da Hitchcock a Huston, da Vidor a Kazan, da King a Taurneur a Wyler ( Vacanze romane) oh che delizia!) dimenticandone molti molti altri. Peck ha lavorato con i più grandi, volando sempre altissimo. E con la capacità di sfidare il cliché che quello guardo e quella postura gli volevano cucire addosso arrivando addirittura ad accettare ruoli terribili (bastino due esempi il capitano Achab di Moby Dick e il diabolico dottor Mengele dei Ragazzi venuti dal Brasile). Ma noi preferiamo ricordano come eroe buono e gentile. Gregory, con l'accento sulla “o”, come lo italianizzava mia zia: semplicemente, un amico di famiglia.
DaIl Sole-24 ore, 15 giugno 2003
These days we seem to prefer an informal, buddy-buddy relationship with our movie stars. But there was a time when a more decorous, paternal authority was in fashion, the sort of authority that Gregory Peck projected over the course of his long career.
Peck's gift for combining emotional distance and moral compassion is best represented by his most famous role, the transcendently decent small-town lawyer Atticus Finch in “To Kill a Mockingbird,” Robert Mulligan's 1962 adaptation of Harper Lee's novel. Peck's Oscar-winning performance is naturally the centerpiece of “The Gregory Peck Film Collection,” a handsomely produced boxed set from Universal Studios Home Entertainment.
The set also contains Peck's more vigorously protective paterfamilias in J. Lee Thompson's 1962 “Cape Fear,” as well as four films new to DVD: Raoul Walsh's “World in His Arms” (1952), David Miller's “Captain Newman, M.D.” (1963), Edward Dmytryk's “Mirage” (1965) and Stanley Donen's “Arabesque” (1966).
Like John Wayne, his ideological opposite, Peck became a star during World War II, thanks partly to the shortage of leading men, many of the more established actors having been called into service. As a father of four, Wayne had a family exemption; Peck was passed over because of a bad back, injured during studio dancing lessons led by Martha Graham.
And yet, and in very different ways, Wayne and Peck came to embody the figure of the American fighting man, Wayne as an active combatant and Peck — in a series of films that included “Twelve O'Clock High” (1949) and “The Man in the Gray Flannel Suit” (1956) — as the sadly matured returning vet. Even in films that weren't related to war, the crisis of Peck's character was often that of the former man of action now hemmed in by family responsibilities and social restraints.
By the 1960s, when Peck was working consistently at Universal, he had acquired a sort of elder-statesman status. He often played a middle-aged hero whose greatest accomplishments might be behind him, but who is still capable of rising to the occasion. The most famous example is the Southern district attorney in “Cape Fear” who goes to extreme measures to protect his family from a roving psychopath (Robert Mitchum) he once sent to prison.
“Captain Newman, M.D.” is a more or less explicit attempt to extend the franchise of “To Kill a Mockingbird,” with Peck as an Army psychiatrist in World War II, tending with warmth and humor to the broken minds of soldiers sent back from the front. It is an ideal role for him, but the film is flatly directed and episodic. The supporting characters are presented as simple psychological riddles — a guilt-ridden flier (Bobby Darin), a schizophrenic colonel (Eddie Albert) and so on — that Captain Newman solves with a single, penetrating insight.
Far more interesting is “Mirage,” a cleverly plotted black-and-white thriller written by Peter Stone, whose screenplay for “Charade” had just proved a big hit for Cary Grant, Audrey Hepburn and the director Stanley Donen. The more somber “Mirage” blends Peck's gray flannel persona with elements of his amnesia victim in Alfred Hitchcock's “Spellbound” (1945).
Here he is a corporate functionary who finds, after an electrical blackout in his Manhattan office tower, that he has no real idea of who he is or how he has spent the last two years. As in “Charade,” none of the characters are quite who they seem to be, and the solution to the mystery, revealed in small increments, calls on cold war paranoia in ways that evoke “The Manchurian Candidate.”
Stone, under the pseudonym Pierre Marton, also contributed to the screenplay of “Arabesque,” a sardonic thriller directed in high style by Mr. Donen as a direct follow-up to “Charade.” But this time Peck is miscast in a role — an academic specialist in hieroglyphics drawn into Middle Eastern intrigue — that seems tailor-made for Grant's playfulness and self-mockery, two qualities not found among Peck's professional attributes.
In the most memorable sequence a fully clothed Peck finds himself in a shower stall with the villain's treacherous mistress (Sophia Loren) and must keep his eyes and mind off Loren's spectacular nudity or risk revealing his presence. Where erotic agony is required, Peck can summon only a sense of embarrassment.
The revelation of the Universal set is an eye-popping Technicolor restoration of “The World in His Arms,” one of two films (the other is Warner Brothers' “Captain Horatio Hornblower”) in which Peck collaborated with the great action director Raoul Walsh. Walsh, who someday will be granted the place he deserves alongside John Ford and Howard Hawks, often told stories of adventurer heroes with wild ambitions and unfettered appetites, figures who found their most satisfying incarnation in Errol Flynn.
At first Peck hardly seems to fit the mold — for one thing, he can't throw a convincing stage punch, a basic requirement for the Walshian hero — but he seems to expand in stature as “The World in His Arms” progresses. Walsh brings out the natural athlete in the 6-foot-3 Peck, who had been on the rowing team at the University of California, Berkeley, good preparation, perhaps, for this seagoing swashbuckler about a seal-hunting captain in 1850 who romances a Russian princess (Ann Blyth) while dreaming of a way to buy Alaska from the czar.
“We go!” is the rallying cry of Peck's big-boned Aleutian sidekick (Bill Radovich), and it might as well be Walsh's motto as well: “The World in His Arms,” like most of his films, overflows with movement and vitality. With his use of background action and off-screen space, Walsh constantly suggests that the drama in the foreground is only a fraction of a much wider world in continuous tumult, a world that extends beyond the boundaries of the story, of which it may not even be aware. For a moment Gregory Peck was part of this world; inevitably, his sober, responsible temperament drew him elsewhere. (The Gregory Peck Film Collection, Universal Studios Home Entertainment, $59.98, unrated).
Da The New York Times, 4 Novembre 2008