Emmanuelle Béart è un'attrice francese, è nata il 14 agosto 1963 a Saint-Tropez (Francia). Emmanuelle Béart ha oggi 61 anni ed è del segno zodiacale Leone.
Adesso Emmanuelle Béart affronta il più brillante e farsesco degli autori teatrali francesi, Georges Feydeau, diretta da Michel Deville, ma nei nostri cinema resiste dopo mesi il suo film più misterioso, difficile e suggestivo, Storia di Marie et Julien gran regista francese Jacques Rivette, in cui lei è viva e morta, erotica e fuggitiva, straordinaria Rivette l’aveva già diretta più di dieci anni fa ne La bella scontrosa, l’opera più appassionante sulla creazione artistica e sul dipingere, analisi del rapporto ambiguo tra un pittore e la sua modella: per oltre metà del tempo la Béart era nuda, e bellissima.
L’attrice più famosa e intelligente del cinema francese ha 39 anni. È nata in Provenza, non lontano da Saint Tropez, dal poeta e cantante Guy Béart e da Geneviève Galea, indossatrice d’origini italiane e greche. Vive a Parigi. È madre d’una figlia nata nel 1992 dalla decennale relazione con Daniel Auteil, di un’altra figlia nata nel 1996 dalla relazione col produttore musicale David Moreau, d’un bambino adottato a distanza in Nicaragua («La maternità significa, credo, elaborare il lutto della propria infanzia»). Le piacciono Romy Schneider, la musica, i libri, il giardinaggio, bere,fumare. È sempre vestita da ragazza, non sa cosa significhi l’espressione «essere soddisfatti di sé». La mancanza di trucco, gli occhi azzurri, i lineamenti disegnati con squisita finezza, le lentiggini leggere, i capelli castani disordinati le danno un’aria da bambina.
Il film che l’ha resa popolare è del 1985, Manon delle sorgenti di Claude Berri con Yves Montand; più tardi vengono Un cuore in invero di Claude Sautet, L’inferno di Chabrol, Mission lmpossible di Brian De Palma,II tempo ritrovato di Raoul Ruiz (nel film che condensa la Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust era l’amata Gilberte).
È bravissima, bella e militante: come dimenticare l’immagine 1996 che la ritraeva nella folla dei sanspapiers, dei clandestini, nei giorni di lotta contro l’espulsione dalla Francia degli immigrati senza documenti? E il suo arresto del 1997 nel medesimo contesto? Da quattro anni viaggia (Sierra Leone, India, Honduras, Mali) come ambasciatrice della Francia per l’Unicef. Si è impegnata nella campagna per la cancellazione dei debiti dei Paesi poveri, si preoccupa d’una possibile rinascita o nascita del razzismo,si interessa alle «emergenze silenziose» che richiamano poco l’attenzione dei media Comunque siano strutturate le sue giornate tra famiglia, lavoro, impegni, non trascura mai la lettura dei giornali: alle notizie viste-e-ascoltate alla tv crede poco, troppo volatili, sintetiche, schiacciate le une sulle altre. È stata accusata di volersi fare pubblicità personale a spese degli sventurati: da chi, evidentemente, non la conosceva e non la conosce.
Da Lo Specchio, 9 Ottobre 2004
Hai di fronte la Camille violinista di Un cuore in inverno, l'imbronciata e vaga modella di La bella scontrosa, la Nelly de L'Enfer e la Marlene del suo ultimo film uscito da pochi giorni in Italia, Nathalie, per la regia di Anne Fontaine, con Fanny Ardant e Gérard Depardieu. In questa girandola di cose, Emmanuelle Béart non deve decidersi a essere una o l'altra, perché è tutto assieme. «No, non chiedermi di parlare di politica, io penso che un attore non debba farlo, semplicemente perché direbbe delle banalità, delle cose che dicono tutti, è meglio tacere». Il tono della sua voce è pacato, consapevole, il tono di una che non soltanto è abituata a recitare per mestiere, ma soprattutto è abituata a parlare, a leggere dei libri, a farsi domande. Non sempre è così con chi divide la propria vita con il mestiere del cinema, e con chi attraverso il mestiere del cinema è diventata una diva mondiale. Ma con Emanuelle Béart non c'è da stupirsi. Vai a scavare nella sua vita, di pochissimo, e scopri molte cose. Intanto che la quasi quarantenne Béart (è nata nel 1965) è per un quarto italiano, per un quarto greca, e per metà francese. La metà francese, in patria, è assolutamente celebre. Suo padre è Guy Béart, assieme a Brassens, una delle due grandi B della canzone d'autore francese. Sua madre è Geneviève Galéa, italo-greca, modella, e anche attrice in un celebre film di Godard, Les Carabiniers.
Emanuelle nasce a Saint-Tropez, uno dei pochi luoghi dove i miracoli si ripetono. Un posto dove per il cinema francese Dio è abituato a creare la femme, naturalmente fatale. Prima Brigitte Bardot, poi la Béart, che nel paesino della Costa Azzurra ci nasce davvero. E cresce a Gassin, un paesino provenzale arroccato su una collina che non si trova neppure nelle carte geografiche. Un'infanzia divisa tra intellettuali celebri amici del padre, a chiacchierare con Luis Aragon e Simone Veil, e vita agreste, scelta dalla madre. Una giovinezza in Canada, a studiare recitazione. Poi l'incontro con Robert Altman, che la convince a scegliere il mestiere di attrice, e la scrittura in un film che poi non verrà mai realizzato.
Lei ritorna in Francia. Senza fare grandi dichiarazioni sul cinema europeo che è meglio di quello americano, o viceversa. E quando ha l'occasione di rimanere a Hollywood, dopo aver girato Mission Impossibile accanto a Tom Cruise, decide di tornarsene ugualmente nella sua Parigi. In Nathalie, Emanuelle interpreta una prostituta che viene pagata da Fanny Ardant, moglie di Depardieu nel film, perché vada a letto con lui e poi gli racconti tutto. La Ardant, non più giovane, cerca in questo modo di entrare nei desideri segreti di un marito che la tradisce e non la desidera più. Una storia molto recitata, molto scritta, assolutamente letteraria. Difficile? «Sì, difficile parlare di sesso, difficile dire le cose che dico, in quel film. Ma ero affascinata dai piani, dalla complessità di quella sceneggiatura. Dalle sfumature continue».
Le sfumature continue ci sono, anche quando parla normalmente. È qualcosa nella voce, e nel modo di dire le frasi. Senza pause, senza giochi d'attore, come se riuscisse a far affiorare una sorta di morbidezza strana. Persino nel modo in cui spegne la sigaretta nel posacenere: distratto. «Per me questo film è proprio un treno che deraglia. Parte tranquillo, lineare, nei suoi binari. E poi man mano ti fa entrare in altre zone, in altre aree, che sono quelle di una tua verità. Marlene, la prostituta di questo film, apre una finestra sul mondo, mette in gioco le possibilità dell'esistenza, e si sacrifica. Un sacrificio a beneficio del mondo borghese rappresentato dai personaggi di Depardieu e della Ardant. Marlene è l'unica che piange alla fine del film, l'unica che dona il suo sangue per loro due. Ma soprattutto l'unica che riesce a trasformare la sua immaginazione in un romanzo possibile. E in questo modo li salva. Ma, ci sto pensando adesso, un attore non ha tutte le chiavi di un film, va avanti in modo istintivo e animalesco».
Difficile capire dove si nasconde l'istinto di Emanuelle Béart, abituata nei suoi ruoli a stupire sempre. Fredda come in Nelly and Monsieur Arnaud, e sfrontata come ne L'enferdi Claude Chabrol. Eppure in questa sorta di doppio messaggio che è tutto nel suo modo di comunicare, sia nel fisico che nelle parole che dice, ci sono tutte e due le sue anime. «Non avevo la possibilità di discutere i dialoghi della scenaggiatura. Il contratto me lo impediva. Ma io ho una immaginazione fervidissima, e quindi avrei potuto lavorare a lungo, e intervenire sui dialoghi. Tutto il gioco sta nella capacità di raccontare storie e dire parole che abbiano una ripercussione sul corpo femminile».
Per un'attrice che da anni ha giocato in ruoli sottili di seduzione verso il mondo maschile, questo film è certamente una novità. «Il ruolo maschile, interpretato da Depardieu, mi ha colpito molto. La cosa che più impressiona nel film è la differenza di percezione del tradimento tra l'uomo e la donna. Per gli uomini il tradimento ha pochissima importanza. E nel film, Depardieu è un personaggio di una sincerità assoluta, anche dolorosa. È una delle cose che mi ha colpita di più».
Sincerità e menzogna. In un film dove quasi tutti mentono si gioca il filo sottile della storia di Nathalie: tutto in una trama complessa di sfumature e di passioni tenute costantemente sotto controllo. Le stesse di Emanuelle Béart: «Ho sempre cercato di fare le cose che mi interessano sia nella vita che nel cinema. E c'è una domanda a cui non so mai rispondere. Quando mi chiedono qual è il film che amo di più. I miei film preferiti sono quelli che vendono tre biglietti al botteghino».
L'anno scorso a Cannes Emanuelle Béart è stata la sostenitrice più convinta e appassionata affinché venisse premiato il film di Michael Moore Fahrenheit 9/11. Una di quelle cose che la rendono stranamente diversa da tutte le altre attrici. Lei, così intimista nei suoi film francesi, che poi sceglie un documentario politico, per farlo premiare con la Palma d'oro. «Io penso che la gente debba andare a vederlo il film di Moore. E non capisco lo snobismo dei francesi, a Cannes, che trovavano Moore assai poco glamour. Persino troppo americano. Ma è questa la sua grandezza».
La Béart, neanche a dirlo, detesta Bush, e si augura che le prossime elezioni ce lo tolgano di torno. E parla con molta naturalezza delle sue missioni per l'Unicef. «Faccio un viaggio all'anno. Mi sono occupata della prostituzione minorile, quello che purtroppo chiamano "turismo sessuale”, nel sud est asiatico, e ora dei bambini soldato in Sierra Leone e in Angola. Ma tutta la mia vita quotidiana è fatta di un continuo rapporto con il mondo e con la realtà delle cose». Non è ambasciatrice dell'Unicef come fosse una parentesi nel mestiere di attrice. Del tipo: dieci giorni dentro gli orrori del mondo, e poi per il resto si ritorna a fare quello che si è sempre fatto. «È qualcosa che fa parte della mia vita. E che esiste sempre. Io vivo di emozioni, e vivo attraverso la capacità di pensare la vita in modo realmente intenso. Secondo me nella vita nessun grande incontro è inutile, anche se dura soltanto qualche secondo. Che cosa è la vita se non cercare di completare gli istanti, di dare senso ai frammenti?».
Da L’Unità, 30 ottobre 2004
Eros vive di penombre. di contrasti. il buio di una sala dalle luci ojjasi spente, il nero di una guèpièrie, il chiarore della pelle di Emmanuelle Béart. Così entra in scena in Nathalie, film di Anne Fontaine che uscirà in Italia a primavera, e l'effetto è lacerante. Come un raggio di luna che taglia in due la notte. L'eros vive di penombre, le stesse che rendono misteriosa una persona, definendone il fascino. L'attrice francese, figlia di un Mediterraneo poco solare (è nata a Saint Tropez, ma il suo cuore sembra sempre in inverno), ha negli ultimi tempi vissuto momenti difficili. La separazione dal compagno Daniel Auteuil dopo una relazione di dieci anni, la depressione e la fuga dall'Europa, verso l'Australia e gli Stati Uniti, scelte di carriera a volte disordinate e incoerenti - prima Hollywood con Mission: Impossible poi il ritorno in patria per progetti sfortunati e dimenticati – persino, il venir meno di quella sua immagine di diva francese per eccellenza, appannata dalla carnalità - questa sì “meridionale” - di Laetitia Casta.
Si ricorda, qualcuno, di Emmanuelle che ride? Succede, tra le pieghe dei racconti che i registi e gli sceneggiatori le cuciono addosso come stilisti, ma è raro. In quegli occhi, la stessa melanconia di Romy Schneider, non a caso modello dell'attrice, che folgorata dalla sua “luce” decise di recitare dopo averla vista in Mado (1976) di Claude Sautet. Il destino in una visione: proprio Sautet, uno dei più grandi cineasti francesi, le regalerà due indimenticabili moli: la violinista dalla passione implosa di Un cuore in inverno (1992) e la dattilografa di Nelly e Monsieur Arnaud (1995), altra prigioniera della solitudine. Hanno sete d'amore i personaggi che Emmanuelle porta sullo schermo, ma non è quasi mai protagonista di “storie d'amore” in senso stretto. Il ruolo che la rivela al grande pubblico, la pastorella Manon del dittico, Jean de Florette e Manon delle sorgenti (1986) è quello di una determinata vendicatrice che l'attrazione per un uomo in qualche modo redime, senza che si compia una sua realizzazione nel sentimento. Di straordinaria intensità anche in La bella scontrosa, capolavoro di Jacques Rivette del 1991. È Marianne, che una volta terminato il quadro per il quale ha posato nuda si scopre a sua volta denudata della pro-pila passione. E ancora la Nelly dell'lnferno di Claude Chabrol (1993), oggetto non del desiderio ma del senso di possesso di un uomo che impazzisce di gelosia. Il film è la chiusura di un cerchio, dato che il molo di Emmanuelle era in origine stato scritto per Romy Schneider dal regista Henri-Ceorges Clouzot, che non aveva però mai portato a termine il progetto.
Se non l'amore, però, il sesso. Curioso che dopo lo sodio creativo e personale la seconda giovinezza dell'attrice (che adesso ha trentasette anni) coincida con due prove “carnali”, ancorché d'autore. La prima, complessa, in Les égarés di André Téchiné, visto a Cannes l'anno scorso ma senza distribuzione italiana. La Béart è Odile, un'istitutrice che fugge con i due figli da Parigi durante l'invasione nazista e si rifugia in una casa sperduta insieme a un adolescente, con il quale avrà un rapporto travolgente. E appunto Nathalie, ultima fatica in ordine di tempo. Emmanuelle è la donna del titolo, entraineuse di un night club ingaggiata da Fanny Ardara per sedurre il marito fedifrago Gerard Dépardieu. Detta così, sembra la trama di altri duecentocinquanta film uguali. Invece Anne Fontaine scompagina le carte: Nathaile è una creatura di finzione che la prostituta Marlene (Béart) accetta di interpretare per Catherine (Ardant). Nathalie diventa la maschera di entrambe: la prima vive le esperienze sessuali sul proprio corpo e la seconda, che si fa raccontare tutto fin nei minimi dettagli, le rivive con l'immaginazione e il desiderio, a fil di pelle. Ancora una volta non sembra esserci amore intorno a Emmanuelle, ma una forza vitale diversa. Un tormento interiore che le impedisce di smettere di essere una persona anche quando diventa personaggio.
Da Film Tv, n. 9, 2004