Greta Garbo (Greta Lovisa Gustafson) è un'attrice svedese, è nata il 18 settembre 1905 a Stoccolma (Svezia) ed è morta il 15 aprile 1990 all'età di 84 anni a New York City, New York (USA).
Nasce a Stoccolma, si naturalizzerà americana nel 1951. Dopo aver lavorato come commessa in un grande magazzino viene promossa a modella. Eccola in un filmetto pubblicitario ed ecco il cinema. Il suo profeta è Mauritz Stiller, regista svedese che diventa letteralmente il suo pigmalione. Il primo titolo importante è La leggenda di Gosta Berling (1924), un "muto" naturalmente. I segnali per un grande destino ci sono tutti. E il destino si compie quando Mayer (della Metro-Goldwyn...) durante un viaggio in Svezia assume Stiller, che porta con sè Greta. Dopo qualche perte poco visibile ecco Garbo protagonista de La donna misteriosa, La carne e il diavolo, Il bacio. E' ormai una diva. Nel 1930 in Anna Christie supera un esame fondamentale, quello della parola, rivelando una voce bassa e sensuale sostenuta da una pronuncia imperfetta che diventa un valora aggiunto. Seguono, fra gli altri, Mata Hari, La regina Cristina, La carne e il diavolo, Anna Karenina.Garbo non è più una diva, è leggenda. E'la donna più famosa del mondo, il massimo esempio di mitologia vivente mai nutrito dallo star system. Il suo volto possiede un mistero e una nobiltà che sono, e saranno sempre, solo della Garbo, anche se un'altra attrice, Marilyn Monroe, in chiave diversa, ha forse superato il suo mito. Nel 1939 Ernst Lubitsch la dirige in Ninotchka, un film con un preciso intento anticomunista: vale più l'istantanea della casa di Ninotchka a Mosca (un appartamento per quattro famiglie, con un solo bagno e tende al posto delle pareti) che mille saggi o articoli o comizi. In quel ruolo Garbo ride e fa ridere. E' più completa, ma ha anche dato un colpo alla sua magia austera, lontana e intoccabile. Essere brava e completa, paradossalmente le si è rivolto contro. In Non tradirmi con me è addirittura una sana e intraprendente americana. Un altro salto verso il basso che finisce per comprometterla definitivamente. Più della prima ruga apparsa, pretesto per uscire, definitivamente, dal cinema. A 34 anni.
La diva più famosa del cinema prima della seconda guerra mondiale. Commessa, poi ballerina, apparve per la prima volta sullo schermo in una farsa svedese, Pietro il vagabondo. Mauritz Stil1cr, il regista svedese che l'avrebbe portata negli Stati Uniti, la chiamò a interpretare una parte importante in La saga di Gòsta Beniing, 1923. Un anno dopo, in Germania, recitò per Georg W. Pabst in La via senza gioia. Subito dopo partì per l'America dove fu scritturata dalla Metro Goldwyn Mayer. Il primo film da lei girato a Hollywood, Il torrente, 1926, fu diretto da Monta Beh. Prima deli'avvento del sonoro interpretò nove film, uno dei quali, La carne e il diavolo di Clarence Brown, che sarebbe divenuto il suo regista favorito, la lanciò come"varnp glaciale>' (Pasinetti). Il suo primo film sonoro fu diretto dallo stesso Brown: Anna Christie, 1930. Seguirono Cortigiana, di Robert Z. Leonard, 1931; Romanzo, La modella, 1931, entrambi di Brown; Ma ta Hani, Come tu mi vuoi, entrambi del 1932, diretti da George Fitzmaurice; Grand Hotel, 1932, di Edmund Goulding, La regina Cristina, 1933, di Rouben Mamoulian; Il velo dipinto, 1934, di Richard Boleslavski; Anna Karenina, 1935, di Brown; Margherita Gaulhier, 1936, di George Cukor; Maria Walewska, 1937, di Brown; Ninotchka, 1939, di Ernst Lubitsch; Non tradirmi con me, 1941, di George Cukor. L'operatore abituale della Garbo fu William Daniels. I suoi partners più graditi furono John Gilbert e Melwyn Douglas, che comparvero al suo fianco rispettivamente quattro e tre volte; mentre una volta apparvero Charles Bickford, Fredric March, Herbert Marshall e Robert Taylor. Dopo il 1941 l'attrice non volle più comparire sugli schermi. Il mito di Greta Garbo sembra resistere al tempo più di qualsiasi altro fenomeno divistico, compreso quello di Rodolfo Valentino, innegabilmente appassito. Mentre non si può negare che una parte di verità si trovi nella spiegazione più comune e banale di questa perdurante memoria - cioè, nel fatto che la Garbo fu bella e affascinante come poche donne, e dotata di non comuni doti drammatiche - un altro motivo non inconsistente del mito fu, come è probabile, la sua sostanza culturale tardo-romantica, tipica e rappresentativa di una nostalgia comune ai popoli dell'Occidente per diversi motivi (crisi economica negli Stati Uniti~ e sue ripercussioni; nazismo e fascismo in Europa, e loro ripercussioni), e tale da giustificare e spiegare una polarizzazione affettiva e sentimentale così intensa.
Nome d'arte di Greta Louisa Gustaffson. Nata a Stoccolma nel 1905, era figlia di un netturbino e di una donna di servizio, e rimase orfana di padre appena quattordicenne. Dopo il decesso del padre, la giovane attrice si ritrova in ristrettezze economiche non indifferenti. Pur di tirare a campare fa un po' di tutto, accettando quello che capita; lavora anche in un negozio di barbiere, mansione tipicamente maschile, ma resiste poco.
Abbandonato il negozio, trova un impiego come commessa ai grandi magazzini "PUB" di Stoccolma dove, nell'estate del '22, il regista E. Petschler entra nel reparto di modisteria per acquistare cappelli per il suo prossimo film. E' la stessa Greta a servirlo, e grazie ai modi gentili e disponibili della Garbo, i due entrano subito in sintonia diventando amici.
La Garbo chiede allora di poter partecipare in qualunque modo ad uno dei film del regista, ricevendone un assenso inaspettato. Domanda così alla direzione dei "PUB" un anticipo di ferie che le viene però negato; decide allora di licenziarsi, pur di seguire il suo sogno. Dopo una serie di fotografie pubblicitarie, la sua prima apparizione cinematografica la vede in una modesta parte di 'bellezza al bagno' nel film Peter il vagabondo, passando praticamente inosservata. Così l'attrice decide di studiare recitazione e si iscrive alla Scuola del Teatro reale di Stoccolma. A diciotto anni ottiene il suo primo ruolo da protagonista in I cavalieri di Ekebù (o La leggenda di Gösta Berling - Gösta Berlings Saga o The atonement of Gösta Berling, 1923) di Mauritz Stiller, che le dà insieme allo sceneggiatore Arthur Norde il nome d'arte di Greta Garbo. Il successo del film la porta nel 1925 in Germania per interpretare La via senza gioia (Die freudlose gasse) di Georg Wilbelm Pabst.
Notata dal produttore americano Louis B. Mayer che le offre un contratto di cinque anni con la MGM, si trasferisce ad Hollywood dove rimarrà per sedici anni facendo la fortuna della casa di produzione. Una volta sbarcata in America, però, si metterà in moto un meccanismo perverso, alimentato soprattutto dai primi film, che tenderà ad etichettarla come "femme fatale" e ad inquadrare la sua personalità in schemi troppo rigidi. Da parte sua, l'attrice chiedeva a gran voce ai produttori di essere svincolata da quell'immagine riduttiva, chiedendo ad esempio ruoli da eroina positiva, incontrando rigide e sarcastiche opposizioni da parte dei produttori hollywoodiani, convinti che l'immagine da "brava ragazza" non si addicesse alla Garbo, ma soprattutto non si addicesse al botteghino (un'eroina positiva, stando alle loro opinioni, non avrebbe attirato il pubblico).
Dal 1927 al 1937, dunque, la Garbo interpreta una ventina di film in cui rappresenta spesso una seduttrice destinata a una fine tragica: spia russa, doppiogiochista e assassina in La donna misteriosa, aristocratica, viziata ammaliatrice che finisce per uccidersi in Destino, donna irresistible e moglie infedele in Orchidea selvaggia, o Il Bacio, finisce suicida in Anna Karenina, fucilata come pericolosa spia e traditrice in Mata Hari. Nel 1930 con il suo primo film parlato, Anna Christie di Clarence Brown, si merita l'appellativo di 'Divina', tanto che lo slogan "Garbo Talks" ("la Garbo parla") fa il giro del mondo. Ma la diva abbandona presto le scene dopo il suo ultimo film Non tradirmi con me (Two faced woman) di George Cukor. Lascia Hollywood e si trasferisce a New York.
Nel 1954 le viene assegnato un Oscar speciale per "le sue indimenticabili performances sullo schermo" ma l'attrice non si presenta alla cerimonia del ritiro.
Muore il 15 aprile 1990 a New York, all'età di 85 anni, ed è sepolta nel cimitero Skogskyrkogarden di Stoccolma.
LA LEGGENDA GARBO
La creazione della sua leggenda si è giovata di alcuni atteggiamenti tenuti dall'attrice stessa ed assecondati, se non alimentati, dal mèntore Stiller. Il set dei suoi film, ad esempio, era estremamente protetto, inaccessibile per chiunque (con la scusa di difendersi da vouyerismi e pettegolezzi), tranne che per l'operatore e gli attori che dovevano partecipare alla scena. Stiller arrivò al punto di recintare il set con una tenda scura... Queste misure di protezione saranno poi sempre mantenute e pretese dalla Garbo.
I registi, poi, preferivano lavorare davanti alla macchina da presa e non dietro, ma la Garbo esigeva che stessero ben nascosti dietro la cinepresa.
Nei luoghi di ripresa non erano ammessi neppure grandi nomi dell'epoca o i capi della produzione. Inoltre, appena si accorgeva che qualche estraneo la guardava, smetteva di recitare e si rifugiava nel camerino. Di certo la Garbo detestava la pubblicità, odiava le interviste e non sopportava la vita mondana, riuscendo a proteggere con caparbietà la sua vita privata fino alla fine.
Fu proprio la sua proverbiale riservatezza ad alimentare la leggenda Garbo.
LE CURIOSITA'
-Il 6 ottobre 1927 al Winter Garden Theatre a New York il cinema, che fino a quel momento era stato muto, introduce il sonoro. Il film che si proietta quella sera è Il cantante di jazz. I soliti profeti di sventura profetizzano che il sonoro non durerà, e tantomeno la Garbo. In effetti, dopo l'avvento del sonoro la Garbo interpreterà ancora sette film muti, perché il direttore della Metro era ostile all'introduzione delle nuove tecnologie, e quindi ostile anche al sonoro. La Divina, però, si ostinò lo stesso a studiare l'inglese e a migliorare il suo accento, nonchè ad arricchire il suo vocabolario: la Garbo infine interpreterà nel 1929 Anna Christie (da un dramma di O'Neill), il suo primo film sonoro, che ne rivelò una voce bassa e sensuale sostenuta da una pronuncia imperfetta che diventò un valore aggiunto.
-Memorabile il lungo bacio con John Gilbert in La carne e il diavolo, una scena fino ad allora mai filmata nel cinema. La MGM cercò in tutte le maniere, ma inutilmente, di organizzare tra i due un matrimonio di facciata, per smentire le voci che insistentemente circolavano sulle tendenze lesbiche della Garbo (che non si è mai sposata) e di una presunta relazione tra l'attrice e la miliardaria Mercedes Da Costa.
-Molto alta nella struttura fisica rispetto agli attori maschili con cui recitava, per la Garbo era normale girare le scene in pantofole e in alcuni casi anche a piedi nudi, pur di apparire più bassa del normale.
-Accusata d'immoralità dalla National Legion of Decency per la seducente interpretazione a doppio ruolo in Non tradirmi con me, la Garbo si ritira dalle scene a soli 36 anni, disgustata dall'ambiente, per vivere il resto della sua esistenza nel più totale isolamento.
-La Garbo rifiutò l'Oscar alla carriera che l'Academy gli aveva riservato nel 1954.
-Dopo aver vissuto più di 50 anni nel più assoluto riserbo e nella più totale distanza dal mondo, Greta Garbo morì a New York, il 15 aprile del 1990, all'età di 85 anni.
-Da segnalare il memorabile saggio che il semiologo Roland Barthes ha dedicato al volto di Greta Garbo, contenuto nella sua silloge di scritti Miti d'oggi, una delle prime e più acute ricognizioni di quello che si cela dietro simboli, i miti e feticci costruiti dai media.
IL MISTERO GARBO
Terza e ultima figlia di un garzone di macellaio che faceva lo spazzino e amava l'alcol, e di una sguattera, per aiutare la famiglia è insaponatrice di un barbiere a quattordici anni, verduraia, commessa in un negozio di cappelli fino a quando gira qualche spot pubblicitario nel quale si rende conto di essere molto fotogenica, interpreta un paio di film, compreso Die freudlose Gasse in Germania che la vedrà al centro delle attenzioni del leader del partito nazista, e passa ad Hollywood. Dai primi spot all'arrivo nella mecca del cinema passano tre anni, durante i quali la cicciottella ragazza di Stoccolma perde venti chili, e gli incisivi superiori, da coniglietto, vengono opportunamente limati e incapsulati.
Per il resto, a detta di chi la conosceva bene, era 1.70 di statura e 42 di piedi, aveva fianchi larghi, niente seno e gambe grosse sempre nascoste dalle lunghe gonne o dai pantaloni, ma sullo schermo risultava bellissima, al punto di far esclamare: "Debbono passare cento anni prima che ci sia un volto altrettanto bello da vedere al cinema". Con la sigaretta eternamente tra le labbra, amava mangiare torta di mele e bere grappa, sembrava indifferente a tutto e a tutti, avara fino alla meschinità, capricciosa, insolente, maleducata, chiamava "clienti" i suoi fan (e si racconta non abbia mai aperto una delle loro lettere) e "fecciume" il resto del mondo che non fosse compreso tra lei e i pochi amici.
Greta Garbo, morta il i6 aprile 1990, era già scomparsa per il cinema da quasi cinquant’anni, sommando il pathos romantico dei divi morti giovani agli altri elementi di fascino che l’avevano resa mitica: bellezza, esotismo, severità, sublime estetismo, mistero, luce. Dall’appartamento di New York in cui viveva, Manhattan, 52ª Strada, arrivavano nell’ultimo tempo poche notizie: è entrata in ospedale, ne è stata dimessa; sono andati a trovarla il re e la regina di Svezia; non ha potuto ricevere, stava male, il ministro delle Finanze Kjell Olof Feldt, incaricato di portarle un dono del governo svedese; non si è più rimessa dalla caduta in casa nel 1987, non vede nessuno, non esce più. Così Ted Leyson, il fotografo asiatico-americano che da anni la assediava, pedinava e coglieva di sorpresa, s’era deciso a pubblicare una decina delle sue immagini rubate: la mostravano quasi sparuta, vestita con l’indifferenza di sempre, e come sempre in atto di camminare.
Ipocondriaca, avara e ricchissima, era abbastanza sola, come tante persone della sua età: erano morti alcuni di quei potenti (Onassis, Eric de Rothschild, i Bernadotte, Sam Spiegel), frequentati soprattutto perché con i loro yacht, aerei privati, ville-fortilizio, guardie del corpo e miliardi potevano garantirle la privacy che soltanto il danaro procura ai famosi. Erano morti gli amici devoti, provvidi e pazienti, per lo più omosessuali, che la aiutavano a nascondere e a sopportare la propria esistenza: Gaylord Hauser il guru salutista, George Schlee il finanziere; soprattutto il massimo esteta e fotografo, Cecil Beaton, che voleva persino sposarla e che nei suoi diari descrisse con affetto spiritoso il suo sodalizio con una Garbo dromòmane, fanatica delle lunghe camminate per New York anche sotto la pioggia o la neve, anoressica, usa a nutrirsi di pochissimo e a considerare insalata e uova sode un vero banchetto da consumare nei ristoranti degli alberghi più lussuosi della città, o compagna inimitabile.
D’un suo ritorno al cinema (l’assenza durava da decenni, la presenza era durata meno di vent’anni, dal 1924 de La leggenda di Gosta Berling di Mauritz Stiller al 1941 di Non tradirmi con me di George Cukor) s’era smesso da un pezzo di parlare: gli ultimi erano stati Ingmar Bergman, che nel1963 la voleva ne Il silenzio, e Luchino Visconti, che neI1975 le aveva chiesto di recitare la parte della Regina di Napoli nell’eternamente progettato film tratto dalla Recherche di Proust. Ma sui teleschermi di tutto il mondo il mito Garbo si rinnova ogni giorno, e alle generazioni nuove si ripropone l’enigma, l’incanto, la malinconia, la grande bellezza d’una donna che rifiutò sempre d’accettare la mediocrità.
Diva assoluta, creatrice insieme con Chaplin, Tom Mix e Topolino della magia popolare del cinema, Garbo raggiunse soprattutto nei Trenta una celebrità universale da icona: quella faccia pura, quei capelli lisci diventarono il simbolo d’una femminilità segreta e irraggiungibile. Era più di una star: una creatura leggendaria. Tutto nella sua vita avrebbe dovuto contribuire a renderla impopolare, era malvestita, scostante per timidezza, aveva grandi piedi sempre calzati di scarpe da uomo (d’inverno con calzettoni, d’estate con calzini di filo di Scozia). Aveva una casa modesta arredata male e un feroce senso contadino dell’economia, fumava molto, aveva battezzato i suoi gatti Litrozzo e Mezzolitro, disprezzava la stampa e la teneva lontana, non frequentava locali pubblici, non sorrideva mai nell’America dell’ottimismo coatto, pareva del tutto indifferente al resto del mondo:
“ Non l’ho mai vista interessata a qualcuno o a qualcosa”, diceva l’attrice Marie Dressler.
Ma era “La Garbo”: cose simili, che avrebbero stroncato ogni star hollywoodiana dell’epoca, giovarono invece alla sua fama di “sfinge nordica”; non riuscirono a nuocerle neppure i contrasti con la Metro Goldwyn Mayer, che esprimevano la volontà di difendere il proprio io di un’attrice europea costretta a imparare la differenza tra un’artista e un bene patrimoniale. Alexander Walker, il critico inglese, pubblicò qualche anno fa in Greta Garbo, fascino e solitudine d’una diva, edito in Italia da Fabbri, i documenti di quel conflitto: una storia di produttore e prodotto, di rapporti di forza tra l’autoritario sfruttamento industriale e l’accorta volontà divistica; vicende di soldi, testi di contratti minuziosi e infrangibili; assenteismo polemico della Garbo e conseguenti sospensioni dalla paga, addirittura per cinque mesi; severi richiami al rispetto dell’orario di lavoro, andirivieni di avvocati, telegrammi minacciosi; aumenti e privilegi fermamente richiesti, duramente negati, alla fine accordati; conti-spese gonfiati con sfrontatezza e controllati con supergrettezza.
Ma era “ La Garbo”, al cui mistero avevano contribuito almeno quattro uomini: Mauritz Stiller, dandy narcisista destinato a morire presto d’elefantiasi, il registra russo-svedese che la scopri e le inventò quel cognome dal piacevole suono italiano divenuto legalmente il suo nel 1923 con l’autorizzazione del ministero della Giustizia svedese; Louis B. Mayer, il produttore che la volle a Hollywood, le impose denti finti e dieta rigida, litigò a morte
con lei e le offrì l’occasione di film indimenticati, di personaggi romantici in situazioni drammatiche, di film minori che dettero un suggello nominalistico alla sua immagine, “La donna divina”, “ La donna misteriosa”; William Daniels, il direttore della fotografia che lavorò con lei durante quattordici anni e diciannove film, usando al meglio sulla sua faccia meravigliosa e sui suoi straordinari zigomi la luce mitizzante del cinema anni Trenta; Gilbert Adrian, il costumista squisito che smise di lavorare quando lei lasciò il cinema.
Era “ La Garbo”, sfuggente e segreta come le dive del cinema muto, che nel mistero di cui circondava la vita privata trovava un modo d’affermare la propria esistenza attraverso la negazione, e anche un modo di proteggersi dal pettegolezzo. Aveva amicizie femminili molto affettuose e durature, ma ad amare gli uomini era poco portata: quando fuggi con John Gilbert, arrivati a Long Beach dove dovevano segretamente sposarsi venne presa dal panico e tornò indietro; quando fuggi a Ravello col direttore d’orchestra Leopold Stokowski, nel rifugio amoroso di Villa Cimbrone la coppia si dedicava soprattutto alla ginnastica ritmica e a quella pratica “yoga e yogurth ” che tanti anni dopo sarebbe diventata una filosofia.
Riservatezza e segreto continuarono a circondarla negli ultimi quasi cinquant’anni senza cinema: due commedie, Ninotchka di Ernst Lubitsch nel1939 e Non tradirmi con me nel 1941, si rivelarono scelte sbagliate, troppo contrastanti con l’immagine ormai inseparabile da lei, non ebbero successo. Il mondo in guerra cambiava irrimediabilmente. Garbo se ne andò, e non tornò più. Una scelta di vita, come tutte le altre sue, forte e profondamente elegante: non per caso le sue frasi-slogan, ripetute in molti film, imitate da milioni di donne nel mondo, oltre al classico “Dammi una sigaretta”, suonavano “Penso che me ne andrò a casa”, “Voglio stare sola”.
Poi tentarono in molti di capire e spiegare il segreto del suo fascino immortale, di ridurre e addomesticare il suo mito: Garbo simboleggiava l’idea platonica della bellezza, disincarnata, pura, luminosa e perversa, si disse; Garbo portava nel cinema americano l’esotismo e il costume diverso del Nord europeo; Garbo aveva un’assoluta mancanza di volgarità, tanto rara a Hollywood da diventare di per sé mitica; “Il viso della Garbo rappresenta quel momento fragile in cui il cinema-sta per estrarre una bellezza esistenziale da una bellezza essenziale”, scrisse Roland Barthes. Ma l’unico modo per capire l’incanto, l’unicità e il mistero di questa donna straordinaria è un altro: guardare l’attrice.
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Esiste nel cinema un'Anna Karenina che, al momento di buttarsi sotto il treno disfatta da sensi di colpa, viene afferrata in tempo dall'adorato Wronski, che la sposerà, a dispetto di Tolstoj, anche perché l'ingombrante marito Karenin s'è intanto, opportunamente, estinto. L'happy end MGM, appioppato dopo il successo delle prime visioni, trionfa nell’Anna Karenina concepito nel '27 da Edmund Goulding, con John Gilbert e Greta Garbo, ancora muta ma già Divina (che concederà un più serio bis tolstoiano, parlato, dieci anni dopo con la regia di Clarence Brown). Evento nell'evento, il finale posticcio viene riproposto come ulteriore curiosità d'epoca subito dopo quello tragico d'origine (il tutto con imparziale accompagnamento al pianoforte dal vivo), dalla Cinemateket svedese nell'ampia retrospettiva che, a 100 anni dalla nascita della diva, si è aperta ieri a Stoccolma. Non è l'unica rarità in una rassegna che, nella ricorrenza centenaria della diva, e a 15 anni dalla sua scomparsa, intende ricondurre alla patria d'origine i meriti da grande schermo di «miss G.G.» (come lei si faceva chiamare), riconsegnandola frettolosamente all’anagrafe pre-hollywoodiana con la riproposta dell'unico film girato, da star, in Svezia, La leggenda di Gosta Berling (1924) di Mauritz Stiller, inaugurazione di gala ieri sera. Tra i classici che hanno fatto il giro del mondo, da Destino ('29) a Mata Hari (1931) e La Regina Cristina (1933), s'insinuerà un ritrovamento dell'ultima ora, il filmato d'amatore gelosamente conservato alla Cinemateket che sorprende la diva in lacrime sul ponte d'una nave che l'allontana dalla sua Svezia: la Garbo se ne accorge e si controlla tornando a quel sorriso a bacchetta imparato a Hollywood, anche se la tristezza non si maschera e le lacrime continuano a scorrere. Alle immagini rubate, la Svezia ha da giorni aggiunto santini e feticci nelle mille mostre sulla Garbo, spesso inadeguate al mito, sparse un po' ovunque, a partire dalla capitale, con la passerella fotografica all'Istituto del Film, le rarità filateliche al Museo della Posta e l'improvvisato spazio Garbo ai grandi magazzini Pub, nel reparto cappelleria, dove la futura diva, commessa e poi modella, mosse i primi passi verso la gloria. Ma è a Hogsby, il paesino d'infanzia, a 300 chilometri a sud di Stoccolma, dove «l'unico museo Garbo al mondo», ricavato da un'ex banca, è stato appena rispolverato dal direttore Rune Hellquist, formaggiaio in pensione, che si coglie qualcosa del percorso umano d'un'astratta leggenda. Nata povera, esule infelice in una Hollywood che l'obbligava a ruoli di inattendibili fatalone, di ideali femminili prefabbricati, la «svedesina» non smise mai di battersi per far pagare cara la sua schiavitù di star: ricompensata all'inizio con 400 dollari a settimana, ottenne nell'arco di dieci anni 250.000 dollari a film diventando la diva più costosa e la maggior fonte di profitto di Hollywood. Di questa precoce consacrazione sono testimonianza i primi assaggi di merchandising (le bamboline antenate di Barbie con il volto della Garbo, vendute negli anni Trenta sulla banchisa dei transatlantici per l'America) e l'adorazione intellettuale di fini osservatori come Roland Barthes: «Anche nell'estrema bellezza, questo viso, non disegnato ma scolpito in una materia liscia e friabile, cioè perfetto e effimero a un tempo, raggiunge la faccia infarinata di Charlot, i suoi occhi di triste vegetale, il suo viso di totem». Al supremo ritratto del «volto della Garbo» in Miti d'oggi corrisponde perfettamente un film del '26, La carne e il diavolo, di Clarence Brown, tratto da un corrusco romanzo di Herman Sudermann, dove l'ex Greta Lovisa Gustaffson, ad appena 21 anni, da poco ingaggiata dalla Mgm è già icona ed enigma, immateriale maschera del desiderio che percorrerà intatta, dal muto al sonoro, le stagioni d'un cinema di leggenda. È con una splendida copia restaurata da Photoplay di questo film che il 16 ottobre le «Giornate del cinema muto di Pordenone» chiuderanno in bellezza l'omaggio «Greta Garbo 100». Il primo trionfo cinematografico, che la lancia in America, pare predisposto a definitivo logo del mito. Basterebbero il bagliore del volto ammorbidito da una tenue fiammella (e dalla magica fotografia di William Daniels) o la sensualità, provocatoriamente osée per l'epoca, della Garbo che s'accosta al calice dell'Eucarestia scegliendo di bere il vino consacrato nel punto preciso in cui l'amante ha appena impresso le labbra. Affiancata dall'erede riconosciuto del ruspante Rodolfo Valentino, John Gilbert, impegnato in un memorabile duello sulla neve, la Garbo porta alla perdizione chi la circonda e la vagheggia, fino all'epilogo autopunitivo, riscatto inaspettatamente misogino di un mélo di pomposa, maliziosa, talora perfino birichina esaltazione della bellezza conquistatrice della donna. Qui superdonna, anzi Divina, subito riconsacrata da Hollywood in produzioni a catena. Carriera ripercorsa il 9, alle «Giornate» di Pordenone, con il documentario «Garbo», in anteprima nazionale e alla presenza dell'autore, lo storico Kevin Brownlow, che registra le testimonianze di chi l'ha conosciuta più da vicino, evocando il primo incontro con il boss dell'Mgm Louis B. Mayer e il famoso provino del 1949 per «La duchessa di Langeais» di Max Ophüls, che non venne mai girato, ma che oltre mezzo secolo dopo ci regala 18 minuti di pose e sorrisi, con cui la Divina, a 44 anni, dopo 24 film in 15 anni a Hollywood, avrebbe dato per sempre l'addio al cinema.
Da Il Mattino, 19 settembre 2005
Cento anni fa, il 18 settembre del 1905, nasceva Greta Garbo. Cosa resta di. lei?L’inaccessibilità di una diva senza uguali consacrata alla solitudine. La sua fuga da tutto e da tutti: dal successo, dalla ribalta, da Hollywood, dagli amori anche ambigui, dalla curiosità morbosa della gente nello spiare la decadenza. Nessuna è stata più bella ed emozionante di lei, nessuna ha irradiato tanto magnetismo, nessuna ha saputo assorbire la luce così. Gli spettatori ammiravano soggiogati i primi piani di quel viso enigmatico, l’economia e la sobrietà dei gesti, l’eleganza androgina e sensuale, l’interiorità degli sguardi, il mistero, l’abbandono, il predominio sul maschio, l’alone di malinconia. Non una donna di carne e sangue ma una dea, l’apparizione di una bellezza platonica, disincarnata e pura, tanto che Fellini la definirà intimorito “sacra come la Messa”. La Garbo, disse, «mi ha sempre provocato una grande soggezione per il suo volto solenne da imperatrice monaca che incuteva grande rispetto». Un volto, lo definirà Roland Barthes, «di neve e solitudine».
La malia del nome è merito del suo pigmalione, Mauritz Stiller, negli anni Venti il più grande regista svedese. È lui che ha saputo intravedere nella ragazzotta un po’ goffa ma molto malleabile, commessa ai grandi magazzini, la qualità della diva se non della Divina. È lui che la plasma (dirà dopo la rottura: “Non trattatela come una creatura umana, non lo è, trattatela come plastilina»). È lui chele dà i 1ibri giusti da leggere (leggerà sempre pochissimo Greta Lovisa Gustaffson, titolo di studio la quinta elementare). È lui che le insegna a trattare con degnazione, poi sarà disprezzo, i giornalisti. E anche a camminare, a muoversi, a recitare. E lui che le scava le guance e il profilo imponendole di perdere dieci chili e le trova quel nome d’arte rapido e fatato che sia «moderno, elegante, breve, internazionale».
Il prodotto è pronto per essere lanciato sul mercato e il successo arriva immediatamente, prima in Svezia, con il film di quattro ore La saga di Gosta Berling, poi a Hollywood, dove il sodalizio fra la Bella e la Bestia», così chiamavano Stiller e la meravigliosa diciannovenne Greta, si liquefà rapidamente. Hollywood vuole lei ma non lui, che oltretutto ha cattivo carattere e litiga quasi subito con la Metro Goldwyn Mayer. Dalla California, odiata per il troppo sole, per il chiasso, per i ritmi frenetici, appare subito lontanissima a Greta la sua infanzia di privazioni nei bassifondi di Stoccolma, il padre spazzino alcolista morto quando lei aveva quattordici anni, la madre lavandaia, le privazioni se non addirittura la fame, il primo impiego in un negozio di barbiere dove, poco più che bambina, insaponava la faccia ai clienti.
La Mgm le impone un ulteriore dimagrimento: via, con altri dieci chili, ogni residuo di carnalità. La rapidità con cui Garbo scala la vetta della fama e viene osannata come l’attrice più fascinosa di tutti i tempi è vertiginosa. E con La carne e il diavolo, il suo quarto film, del ‘27, insolito melodramma con finale misogino, che Greta Garbo passa alla storia del cinema consacrandosi come icona di magnetismo erotico. Indimenticabile, per i cultori, la scena in cui, accostandosi all’Eucarestia, sceglie di bere dal calice proprio nel punto esatto in cui l’amante ha appena bevuto e che ha lasciato umido delle sue labbra. È subito chiaro che, indipendentemente dal ruolo e dal personaggio, è lei a condurre il gioco amoroso, distillato in quei baci leggendari in cui l’uomo è quasi sempre steso sotto di lei, prima che il codice Hays imponga i suoi veti in nome della morale.
In tutto ha girato ventisette film, dieci dei quali muti. Nel passaggio al sonoro, avvenuto con Anna Christie nel 1930, il mondo ha trattenuto il respiro. “Garbo talks” era lo slogan di un battage pubblicitario imponente. “Garbo parla”. Già, ma come parla? Con una voce che fa centro come e più del suo viso e del suo sguardo: calda, bassa, sensuale, modulata con sapienza. Non amava i suoi film, Greta Garbo, salvandone tutt’al più un paio, giudicherà le sue eroine anguste, odierà il suo lavoro: «Detesto questa professione, che mi procura solo sofferenza», scriverà a un’amica in Svezia. Mai suoi film sono un trionfo via l’altro, che fanno di lei l’attrice più pagata di Hollywood: mai una donna ha avuto simili compensi, 25Omila dollari a film, con un record assoluto per Anna Karenina. Curiosamente, pur avendo ottenuto quattro volte la nomination, non vinse mai l’Oscar. E quando, nel 1955, gliene fu tardivamente tributato uno alla carriera, ormai autoreclusa la Garbo non solo non andò a ritirarlo, ma non mandò neppure due righe di ringraziamento.
Passare dal muto al sonoro fu per lei meno traumatizzante che passare dal tragico al comico, dal dramma alla commedia. Il suo penultimo film, Ninotchka (»Garbo ride!», annunciava la pubblicità) non fu accolto bene. E ancora meno bene fu accolto Non tradirmi con me, di Cukor, stroncato dal critici che giudicarono la Garbo incapace di una recitazione leggera e brillante.
Tanto bastò: nello stesso anno — era il 1941 — Greta Garbo mise la parola fine alla sua carriera, fece calare il sipario. Esigente, perfezionista, abituata all’adorazione, non gradì quel granello in meno di incenso. O forse stava, più semplicemente, aspettando il pretesto per poter levare il disturbo uscendo da una carriera che lei giudicava effimera. E uscendone a testa alta, allo zenit della propria bellezza radiante, con quel viso di neve e solitudine non ancora intaccato dagli insulti degli anni. Anche se lei si sentiva addosso l’ossessione del passare del tempo, in un’epoca, che oggi appare preistoria, in cui la chirurgia plastica era solo agli albori: «La mia fortuna era fondata sulla mia giovinezza, sull’apparire levigata dirà -. E stato davvero un bene che io mi sia fermata in tempo…sono invecchiata in fretta. Succede in America».
Un’autoeclissi. Aveva trentasei anniquando ruppe lo specchio. Vivrà ancora quasi mezzo secolo in fuga da se stessa, dal cinema, dalla vetrina, dagli sguardi indiscreti. Muore il giorno di Pasqua del 1990, a ottantacinque anni, senza mai essere tornata davanti alla macchina da presa. Eppure il suo diniego, per lo meno all’inizio, non fu granitico. Per anni prese seriamente in considerazione proposte e copioni, pur stracciandoli poi tutti. Per anni il suo corteggiatore e quasi sposo Cecil Beaton la spronò a tornare ai lavo-ro «altrimenti la tua vita sarà una lunga morte». La cercarono Jean Cocteau, Ingmar Bergman, Luchino Visconti. Andò molto vicino a recitare di nuovo con Cukor, quasi convinta da Tennessee Williams, autore della sceneggiatura. «È bellissima! Ma non per me. Date la parte a Joan Crawford». I ruoli che le sarebbero interessati davvero, e che nessuno le ha mai offerto, sembravano plasmati sulla sua androginia, Come quelli di Dorian Gray per esempio, che sognava di interpretare, o di George Eliot. Fu lei a sollecitare Aldous Huxley a scrivere un soggetto sulla vita del Poverello d’Assisi: la parte che voleva per sé non era però quella di Santa Chiara, bensì quella di San Francesco. Non se ne fece nulla.
Altro mito da sfatare è la reclusione della Divina. Le maglie erano strette, ma non strettissime. Si autorecluse e si murò viva rispetto al mondo del cinema, continuando tuttavia a vivere, viaggiare (sempre sotto nomi falsi), frequentare la sua piccola facoltosa colonia di amici internazionali la cui ricchezza, spesso, le consentiva fosse pienamente e lussuosamente rispettata la sua privacy. Da New York a Londra, a Parigi, alle nevi e ai boschi dell’Engadina alle crociere nel Mediterraneo. Dunque non un’eternità. Onassis (del quale la Garbo dirà che aveva una barca troppo corta per le sue passeggiate) la definì «una donna semplice che non conosce il calcolo». Per Winston Churchill Greta Garbo «è la donna più interessante di tutti i tempi». Le infinite biografie non autorizzate la tratteggiano invece come una donna avida, egoista, lunatica, diffidente. La sua riservatezza è stata spesso scambiata per superbia. “Sognavo di essere un giorno padrona della mia vita”, disse quando annunciò il ritiro. E chissà se alla fine c’è riuscita.
Il mondo, non solo quello del cinema, si prepara a commemorarla non senza qualche imbarazzo di fronte alla sua statura così fuori scala:. una figura di diva assoluta che non ha avuto né imitatrici né colleghe degne di venirle, neppure lontanamente, accostate. Una figura, per gli esperti di moda, di look e di tendenze, che non potrebbe essere più moderna e attuale. Hollywood si è già tolto il pensiero con una serata dal titolo Centennial Tribute che si è svolta con congruo anticipo il 7 aprile scorso, organizzata dalla Acaderny. Anche la sua città natale, in collaborazione con il Museo Nazionale di Stoccolma, ha giocato d’anticipo: si è inaugurata il 4 giugno, e resterà aperta fino al 30 settembre, la mostra di fotografie La Divina nel castello di Gripsholm. Si apre invece il 16 settembre, al Museo Postale di Stoccolma, l’esibizione di lettere, testimonianze, foto edite e inedite, oggetti d’arte, cartoline della Garbo. La mostra resterà aperta fino al 26marzo del 2006. Verranno proiettati i suoi film più celebri e si terranno conferenze a tema. Nella settimana a cavallo del centenario i grandi magazzini Pub, dove a diciotto anni Greta Garbo faceva la commessa nel reparto abbigliamento, dedicheranno alla diva e ai suoi personaggi tutte le loro vetrine. Appositi pacchetti turistici prevedono una visita al piccolo parco di Stoccolma intitolato al suo nome e una sosta nel cimitero di Skogskyrkogarden, dove l’attrice è sepolta.
Talleyrand, al termine di una delle più felici carriere che il mondo abbia mai visto, esclamò: “Peut-être eut-il mieux valu souffrir”. Greta Garbo, all’apice del successo, avrebbe confessato ad un amico svedese: “Mi domando se non ho mancato la mia vita”. La frase risale a pochi mesi or sono. Fino a nuovo ordine, la maschera biografica di questa donna che, in tutti i suoi film ha impersonato l’arduo fallimento di un destino, dovrà coincidere col “ruolo» abituale dell’attrice ed essere quella dell’infelicità. Come, fino a qualche tempo fa, era stata quella del mistero, dell’esistenza segreta che elude ogni indiscrezione. Con una donna come la Garbo, c’è sempre il pericolo di cadere nella letteratura. Ma c’è almeno un’altra frase che vien voglia di assestarle: quella famosa che la sorella Ismene rivolge ad Antigone: “Tu porti nel gelo un’anima di fuoco”. Greta è un’Antigone moderna, che mescola il fuoco ed il gelo.
La sua vita? Tre frasi: “Sono nata in una casa. Sono cresciuta come crescono tutti. Non mi piaceva andare a scuola”. Correva il 1906, mese di novembre. La casa era quella di Swen Gustaffson, piccolo uomo d’affari di Stoccolma. Nel quartiere a sud del Mälaren, considerato allora al di fuori della «vera» città, quell’edificio popolare a cinque piani, tra isole di prati, non era certo la reggia di Cristina, vergine vikinga. E tuttavia per il film della Regina Cristina, Ruben Mamoulian ha saputo ricostruire, sia pure con facile gusto scenografico, il paese ideale in cui nascono le Grete Garbo: le fanciulle rudi e dolci, che si lavano la faccia con la neve, e che sembrano spiritualizzare il più sottile sex-appeal in un richiamo del focolare. Il paese di Greta Garbo bambina è quello che ha convertito una tradizione militare in una civiltà tecnica; l’epopea del secolo di Carlo XII nell’avventura degli esploratori antartici: il paese dove la donna è compagna ed eguale dell’uomo nell’amore e nel lavoro.
A 14 anni Greta perde il padre e s’impiega come commessa nel reparto modisteria dei Magazzini Bergstrom. Veramente la leggenda vuole che la sua prima tappa sia stata in un negozio di barbiere, e che addirittura ella abbia spennelleggiato le guance degli avventori. Un giorno, ai primi tempi delle sue fortune americane, le fu contestato questo episodio: – Non mi concerne
– rispose – e anche se fosse vero non me ne importerebbe. – Raffinata astuzia pubblicitaria? Certo che qui Greta smentisce in qualche modo, la tendenza popolare che, nelle grandi favorite della fortuna, ama cercare le origini più umili. Non si ammette che una trionfatrice possa venire dalla classe media. O una plebea risalita o, per lo meno, una regina caduta. Oggi, ad un’altra “stella”, Elissa Landi, si attribuisce sangue imperiale. “Se la mia infanzia sia stata felice, – spiega Greta – se da ragazza abbia fatto la serva, se sia innamorata, e tutte le cose che si vogliono sapere da me, quale differenza porterebbero nei personaggi che interpreto? Il pubblico mi conosce dal mio lavoro. Che può interessare la mia vita privata? Sono un essere umano come tutti gli altri, e voglio che qualche cosa mi venga lasciata. Non intendo di essere come un pesce in un acquario”.
Vera o falsa la storia del barbiere, quella della modisteria è l’unica che conti, perché la sola che faccia parte del destino di Greta. Un giorno, 1921, un capo-reparto preparava il lancio di una collezione di cappelli per la primavera. – Ne provi uno – le chiese. Pochi minuti dopo, tutta la serie seguiva in uno studio fotografico quel capo-reparto con la sua improvvisata modella. E pochi giorni dopo, tutti i giornali portavano grandi fotografie di quei cappelli sul capo di Greta Gustaffson, o, più inaspettatamente, di Greta sotto quei cappelli. Da questo punto, tutto il resto non è che una conseguenza. “Quel volto” era stato intravisto. Ma non ancora “quel volto” che tutti hanno in mente. A riplasmarlo avranno concorso, per meglio magnetizzare le folle di tutto il mondo, la tecnica americana e magari quel coefficiente di sofferenza – non solo morale, ma anche fisica – che pare uno dei difficili privilegi di Greta. Ci sono donne che non hanno giovinezza: e che raggiungono tutta la forza del loro tipo, soltanto quando si smaterializzano e perdono i segni dell’età, per assumere un solo segno, astrale e quasi simbolico: quello del prestigio femminile. La Garbo è una di queste.
Per intanto, dalle fotografie pubblicitarie ella passa al film pubblicitario: “star” reclamistica di una società diretta da un certo capitano Ring. Come assunto, uno sketch pubblicitario non può essere che l’anti-Greta: l’attrice ridotta a manichino e materia. Si aggiunga che il primo di questi fumetti fu anche comico. Ci si domanda se Greta fosse allora bella nel senso corrente e facile. Ci si domanda quale potesse essere il suo fascino. Qualcosa doveva esserci senza dubbio, se Eric Petschler, direttore di teatro, dovendo fare un film, pensò subito a quella modesta e ignota «diva» pubblicitaria, dichiarando: “Ha un’autentica personalità”.
Nella storia del cinema, e più ancora delle “dive”, quindici anni bastano per riportarci alla notte dei tempi. Nella notte dei tempi avviene qui una serie di dissolvenze incrociate. La signorina Gustaffson lavora nel film Erik il vagabondo di Petschler; la vede il grande regista Maurizio Stiller, la chiama a Rasinda (la piccola Hollywood svedese di allora, la sede della Swenska), le cambia nome, la fa diventare Greta Garbo. Amore di altri paesi per l’esotismo dei nomi italiani: Greta Garbo, Pola Negri, Elissa Landi. Ma Garbo è ben trovato: non s’abbandona alla presunta facilità di una melodia calda e mediterranea: è asciutto, magro, imperioso. Somiglia già al risentito profilo di 10 anni dopo.
Stiller affida alla sua «scoperta» la parte della contessa Dolina nella Leggenda di Gösta Berling dal racconto di Selma Lageriof. L’attrice scandinava nella saga scandinava: si prepara di lunga mano l’alone del “fascino nordico”? Certo è che oggi la Garbo ci appare a volte come la più misteriosa creatura di una fiaba di Andersen. Ma l’invenzione di Stiller non era così presaga: anzi, le fotografie del suo film ci mostrano una Garbo ancora imbozzolata in una semplicità casalinga, bonaria, e persino un poco paffuta.
L’ Europa registra il successo e G.W. Pabst lo sancisce, affiancando la Garbo ad Asta Nielsen nella Strada senza gioia, tragico episodio del disagio viennese susseguito alla guerra. Dopo la luminosa parabola della cinematografia italiana, la Germania era allora l’università intellettuale del cinema, dove registi ed attori ricevevano il diploma dottorale, per andare poi ad esercitare in America la professione.
Dissolvenza incrociata. Su una banchina del porto di New York una povera ragazza svedese, in un modesto abito da viaggio di taglio provinciale, accanto ad un gigante dall’aspetto duro e un po’ ripulsivo, si fa prendere una di quelle istantanee di prammatica, che i giornali illustrati intitolano Sbarco in America. Sono venuti ad accoglierla il console del suo paese ed un funzionario della Metro Goldwyn. Una fanciulla svedese le ha messo tra le mani un mazzo di fiori.
“La ragazza svedese portata qui da Stiller” – così la chiamano a Culver City. Non sa l’inglese, e la gente non s’interessa a lei. – Un tipo stravagante – si dice tutt’al più, un po’ interdetti dal riserbo con cui ella risponde alla generale indifferenza. Ritrosa, se ne va come un’antica eroina a consolarsi lungo i lidi del mare amico: quel mare, che lontano bagna le rive della sua patria. Per «lanciarla», cominciano a farle qualche fotografia: in atto, per esempio, di stringere la mano ad un celebre pugilatore. «Se un giorno diventerò celebre – ella esclama – celebre come Lilian Gish, non vorrò pubblicità».
Il romanzo di Greta Garbo non è che la vita della donna che fa i film di Greta Garbo. Tutto il resto è silenzio, per quest’attrice dall’amletico pallore. Un giorno (vera o falsa anche questa) alcuni suoi servi licenziati vollero fare un’indiscrezione: tradirla, insomma. E raccontarono che un fabbricante svedese, per fare omaggio all’illustre connazionale, le aveva spedito una cassetta delle sue più rinomate conserve alimentari. Greta aveva nascosto il dono sotto la toletta della propria camera, che adoperava come tavolino da lavoro. Tra una battuta e l’altra, tra una scena e l’altra dei copioni che stava studiando, si regalava una piccola ghiottoneria nazionale, estratta da quel ripostiglio. Vero o falso, il pettegolezzo dimostra appunto che il segreto di Greta è di non avere altri segreti, se non quelli promessi e rivelati dallo schermo.
Quando si ricama sulla vita di Greta, non si fa che tradurre in termini quotidiani fatti di quell’esistenza e di quella storia più vere, che sono l’esistenza e la storia dell’attrice. Mettiamo: il preteso suicidio di Stiller per amore di lei; che può magari essere credi-bile, ma come allegoria. Insieme avevano traversato l’oceano, per lavorare in comune; ma Greta col Torrente (il primo film americano con Ricardo Cortez, diretto da Monta Beh) aveva iniziato da sola la sua ascesa di stella. Stiller avrebbe dovuto raggiungerla nel secondo lavoro: La tentatrice, ma non era arrivato ancora ad impadronirsi della lavorazione americana. E il film tocca a Fred Niblo. Stiller muore: disfatta fisica, ovvero disperazione? Certo, per noi, la tragica conclusione di una pena d’amore perduta, morte di amore. Il destino gli aveva strappato la sua “donna”; creatura, o creazione. Quel “fascino nordico”, che primo egli aveva intuito, a cui la sua nostalgia d’uomo del settentrione espatriato in California avrebbe forse dato l’accento più struggente, diventava la preda di altri registi, distaccati e pronti a coglierne il puro richiamo ed incanto esotico. Tra le sue mani, Greta avrebbe realizzato, con ancora più purezza, una scandinava “donna delle nevi e del mare”, o non avrebbe finito col diventare un’ossessione come Marlene per Sternberg?
Ad ogni modo, malgrado il razionale sfruttamento americano, Greta sembra salvare, e per virtù propria, quel fascino nordico, che è senza dubbio una delle chiavi del suo successo. La giostra dei «fascini» gode favori del nostro tempo: da quello slavo e andaluso in poi, sono sfilati tutti: viennese o ungherese, creolo o mulatto o hawaiano. Ogni successo lancia un tipo in serie e la formula ne diviene commerciale e di comune dominio. Ma Greta ha la forza di rimanere esclusiva, di sventare i ricalchi. Il “fascino nordico” si identifica con lei, che lo eleva ad una severità come di costume, di modello spirituale. E forse questo spiega anche un certo strano isolamento di Greta; il suo successo non è fisico; quello stesso pubblico che la cerca e l’adora sullo schermo probabilmente non ha mai sognato di averla accanto a sé nella vita. La tentatrice è una data per Greta, perché durante la lavorazione di questo film le giunse da Stoccolma l’annunzio ch’era morta sua sorella. “Forse quella tragedia le diede un sentimento più profondo della parte che stava interpretando – notò Fred Niblo – anzi fu proprio l’elemento essenziale della sua profondità espressiva”.
Comincia di qui la grande sequenza: interviene come regista Clarence Brown, che la vuole protagonista di un dramma tratto da Sudermann: La carne e il diavolo (1927), e le dà come compagno John Gilbert. Ma in questa unione d’arte – che si prolunga nel film seguente: la prima Anna Karenina (intitolata in americano Love) – il pubblico, il mondo si ostinano a cercare il romanzo vissuto, l’amore vero, l’amore in carne ed ossa. Non valgono le smentite: non vai nemmeno la nuova voce che Greta, tornata in patria per le vacanze, si sia fidanzata con un principe svedese. Si vuole anzi che l’impetuoso Gilbert, alla notizia, si sia precipitato dietro l’infedele per riportarla in America. Ma l’amore: che cos’è per Greta l’amore? “L’amore in sé non è realmente drammatico – ella commenta –. Le emozioni più vive ci vengono da ciò che si nasconde dietro l’amore e dietro le avventure romantiche. Io non so quale sia veramente l’emozione più grande. Me lo domando. L’odio no, perché è turpe. Non credo che un film potrebbe aver come tema soltanto l’odio. Forse il sacrificio è qualcosa di più profondo. Ma è un compagno dell’amore. Dopo tutto, credo che la nostra più intensa emozione sia proprio la vita: la vita che include in sé ogni altra emozione”.
Il secondo tema fondamentale di Greta, quello della attrice, entra in questo punto. Quel tanto di biografia che si può estrarre da una vita così avara di sé, viene decisamente intuito dagli impresari americani, che ne fanno l’asse del nuovo film. Hollywood sa sempre riconoscere il momento in cui le più grandi e singolari rivelazioni dello schermo sono mature a tradire, sia pure in una maniera trasposta, qualcuna delle loro note più intime. Di recente a Katharine Hepburn hanno fatto confessare in Gloria del mattino il suo tormento di essere e di affermarsi grande attrice. Nel 1928 a Greta affidano la Donna divina (un romanzo sulla vita di Sarah Bernardt), in cui ella potrà esprimere la sua aspirazione quasi religiosa verso la figura della inimitabile interprete: dell’“Unique”.
In questo coincidere dei motivi d’arte con quelli di vita, i due grandi temi di Greta, quello del Nord e quello dell’attrice, si attirano l’un l’altro e s’intrecciano
come in una sapiente sinfonia. La bambina che alla porta del Reale Teatro Drammatico di Stoccolma aveva atteso ansiosa per vedere passare il celebre Lars Hansen, ora si ritrova proprio a fianco di lui, e a dirigerla è chiamato Siöström, un altro scandinavo. Questa gente del nord risente nella collaborazione quel tremore quasi sacro, quella missione della scena che aveva permesso ai loro paesi di creare forse la più alta poesia di teatro nella seconda metà del secolo scorso, e di mandarne un Ibsen messaggero al mondo. Questa scuola aveva allenato l’attore a modi di recitazione resi più intimi, espressivi, immediati dal calore raccolto degli «interni» nordici. E fin quasi dai primordi della cinematografia internazionale la Svezia, con interpreti come Asta Nielsen, aveva dato l’esempio di un giuoco (coevo ed opposto a quello italiano più pantomimico), tutto interiore, sobrio, suggestivo nell’estremo riserbo. A questa famiglia Greta si è saputa mantener fedele, malgrado l’America.
Con la Donna divina ella passa definitivamente nel novero delle “stelle”. Eppure “stella” non sarà mai. Il carattere tipico della diva americana è quello di divulgarsi attraverso una impulsiva e naturale vivacità di modi, mentre Greta difende prima di tutto il pudore dei propri sentimenti. La passione delle sue eroine, non per questo più fiacca, acquista una specie di sublimità dal severo controllo della maschera, che la tiene prigioniera e non ne lascia filtrare se non l’essenza più spirituale, quasi come un fluido magnetico. Sfumature, trasognamenti, un abbandonarsi senza concedersi, un contrarsi appena accennato nel riso e nel pianto.
Nel frattempo pare che Greta lentamente si acclimati ad Hollywood: studia l’inglese per fare a meno degli interpreti in teatro, e un giorno esce perfino a dire: “Fra poco sarò una vera americana: ho imparato a suonare l’ukulele”. Il che non le impedisce tuttavia di cadere in certi lapsus rimasti storici, come quello di esclamare: “Io sono importante” quando voleva semplicemente intendere: “Io sono importata”. Il bisticcio però non è privo di significato: importata Greta rimane sempre. Se pure compra una vetturetta come le colleghe, non si costruisce tuttavia il villino e continua ad abitare in appartamenti d’affitto. Per via séguita a indossare i suoi tailleurs da ragazza svedese, che la fanno confondere con una figliola come tutte le altre. Nella vita non porta trucco: non conosce che quello di scena. E sì che da bambina, durante le lunghe soste alle porte dei palcoscenici, una delle cose che più l’esaltavano era il lieve odore che ne proveniva di mastici, creme e belletti di truccaggio. Appunto perché importata non somiglia a nessun’altra, e questo è ciò che la ‘fa parere “importante”.
Dalla Donna divina cominciano le riprove della «stella» studiata in tutti possibili attributi d’una femminilità eccezionale e magnetica: la Donna misteriosa, Il bacio, la Donna che ama, la Donna d’affari (giunta in Italia col titolo Destino) e finalmente il trionfo che per un momento potè sembrare l’ultimo: Orchidea selvaggia. Il parlato nel frattempo aveva vinto. Come avrebbe potuto la straniera Greta superare la prova? Le si escogitò una parte di fanciulla svedese (Anna Christie) per giustificare quel tanto di accento nativo che ella pareva dovesse inevitabilmente portare nella parlata americana. “Son qui che imparo l’inglese, ed ecco che mi costringono a riprendere per tutto il film un dialetto svedese”, ella protestava con Mary Dressler.
Si iniziano le prove, Clarence Brown è nervoso. Come riuscirà la voce di Greta, quella sua voce di contralto anche troppo profondo? Finalmente ella appare. La prima scena rappresenta una taverna sul porto di New York. “La signorina Garbo è di scena!”. Ella riesce a contenere il batticuore, ed a comporsi un viso imperturbabile, quello che gli americani chiamano una faccia da poker. “Gimme a drink of whiskey”. La prima battuta era detta. Il discorso continuava a filare. Brown dà l’alt per sentire la registrazione.
Una piccola folla perplessa attende davanti ad un autoparlante. “Gimme a drink of whiskey”. Greta replica: “Ma questa voce non somiglia alla mia”. Tutti gli attori dicono così, la prima volta che “si sentono”. Ma da quel momento nasce la nuova serie: dopo Anna Christie, Romanzo; poi Modella, Cortigiana, Matha Hari, Grand Hotel, Come tu mi vuoi, Regina Cristina, Velo dipinto, Anna Karenina, ed ora Marguerite Gauthier.
La donna del novecento per eccellenza non fa che riportare su moduli in apparenza moderni, accordati sulla sensibilità più nervosamente attuale, quel grande idolo della donna austera, misteriosa, inaccessibile che fu il sogno d’amore dei nostri vecchi dell’ottocento. “Apparizione melodiosa del patimento creatore” come fu detto della sua sorella Eleonora Duse. E il suo romanzo, venti volte rifratto in venti diverse eroine, è sempre quello del sacrificio d’ogni altro bene al bene supremo dell’amore; la corsa di Sisifo dietro la mèta che cessa di esistere non appena toccata.
Da Cinema, 25 Ottobre 1936
Sono contento, diamine, che Greta Garbo, riproposta dalla TV a un pubblico sterminato, lo abbia stupito come faceva nelle gremite sale del 1930, quando ero un barbaro giovane e Mata Hari, Anna Karenina, la Regina Cristina, mi toglievano repentinamente la voglia di frugare la ragazza che avevo, con quattro ciance napoletane ingentilite dal grigiore milanese, indotta ad appartarsi in qualche modo con me. E sì che in quel periodo, essendo compilatore di ben tre periodici illustrati, avevo più cinema addosso io che finimenti un cavallo di esequie di prima classe. Per otto ore al giorno forse dieci, negli stabilimenti di Rizzoli, maneggiavo fotografie di Greta Garbo, di Lupe Velez, di Joan Crawford. Nessuno avrebbe potuto quanto me, afflitto dal "crampo visivo della vamp", infischiarsi del telone e conservare, nella favorevole ombra del "Corso" o dell’0deon", l'indispensabile, chirurgica freddezza senza la quale un virtuoso, un mariuolo di gioie furtive, è meglio che al cinema ci vada solo. Ma negarsi a Greta era impossibile; una mia rapida, obliqua occhiata allo schermo le bastava ad uncinarmi e, come tattico e stratega di ogni azione galante, a rovinarmi. Pazienza. Ora so che metteva conto, ora so che Greta meritava quei sacrifici, anzi meritava la compunzione dei frati, l'ascetismo. Che donna e che interprete. Furono soprattutto lei e Chaplin ad ottenere, per il cinema, la promozione ad arte. Stando agli antipodi, si equivalevano: pur con l'indubbio svantaggio, per la Garbo, di non poter né inventare né dirigere i propri film. Fu una sorta di magia. Greta suscitava in ogni banale vicenda il clima del capolavoro; diffondeva, nella fanghiglia delle complicate e usuali peripezie inflittele, una luce e una castità di alba di maggio; solo quando lei si ritirò, i letti (ai quali, purtroppo, il cinema deve quasi interamente la sua fortuna plebea) ridiventarono letti: e precipitammo, affidando le storie d'amore ai corpi e non ai volti, nel più tedioso e monotono erotismo. «Un capitolo in un battito di ciglia», fu il motto cinematografico d'allora; oggi mostriamo tutto e non mostriamo nulla: centinaia di film non contengono, in sostanza, che una diluita quanto decrepita barzelletta oscena. Soggetti originali o versioni cinematografiche di libri famosi, l'importante è che diano frequentissime opportunità di coricare una femmina e un maschio giovani e piacenti, lasciando poi fare alle minuziose iperboli dell'obiettivo. Il resto non è, generalmente, che una lunga e anonima paresi di manichini, i quali girando su un perno, sempre quello, danno la illusione del movimento. Altra faccenda, con la Garbo. Dopo trent'anni il suo cinema è intatto, e olezza come le spoglie di certi santi che invano furono tumulati. Ogni suo film è una verminaia, ma lei vi splende incorrotta, sana, irripetibile. Greta ha davvero fermato il tempo. Greta non recitava, sognava di recitare; perciò gli anni le si inchinano e si dileguano senza toccarla. Funziona il proiettore ed ecco, la bella addormentata nel bosco freme, si rianima. È venuto il suo principe azzurro e l'ha resuscitata, come l'antica fiaba esige. Bella? Quando mai fu bella, questa Garbo? Le sue guance pullulavano di efelidi, il petto glielo aveva piallato, come diciamo a Napoli, San Giuseppe; non meno sprovveduta era delle contrapposte grazie che talora compensano la citata deficienza; i suoi nordici piedi non avevano da invidiare un millimetro a quelli del rinomatissimo calciatore Manfredini; la sua voce era sepolta e roca: ma come personaggio, nella fittizia vita della rappresentazione, era meravigliosa, incantevole, eccitantissima. Rido pensando agli enfatici seni (da arringa sessuale) di Anita e di Sophia: li vedo scoppiare, mentre la Garbo del 1930 svolge qualche lieve tema di seduzione, come palloncini lambiti da una sigaretta accesa. Greta ci insegnò che una durevole, effettiva donna è prima concettuale e poi reale; innalzò e affinò il cinema spiritualizzando l'eroina, eguagliando e superando, con la sua bellezza immaginaria, quella concretissima di una Dietrich. Non mi sorprendo che ai miei figli la Garbo sia piaciuta adesso quanto piacque a me allora. Il cinema sarebbe fumo, senza questi rari ma illuminanti prodigi. Come fanno, certi sultani della regia, a darsi tante arie? Ecco un mucchietto di film arcaici, buffi addirittura, ai quali una grande interprete assicura un alto e nobile scaffale di cineteca. E voi Comencini, e Monicelli, voi che siete i Brown e i Mamoulian di turno, come osate parlare di stile, di problematica, di linguaggio, non avendo per le mani che qualche ex-dattilografa o ex-sguattera che umilia Venere, può darsi, ma inorgoglisce i sillabari? La trionfale riapparizione della Garbo è anche un invito, per la gente del cinema, alla riflessione, all'umiltà, a uno spontaneo, coraggioso ridimensionamento. Evviva. La Garbo, che per un ventennio fu il proprio cilizio, graffi e insanguini un po' le reni delle attrici e dei registi odierni, immersi nel cinema come nella baraonda continua ma effimera di Tahiti.
Da L'oro di Hollywood, Milano, Bompiani, 1956
Oggi essa non è altro che un nome o poco meno. Né vale l’osservazione che le pellicole di Greta Garbo, non tutte, purtroppo, girano ancora per il mondo, ammirate da grandi e piccini: Grand Hotel, Ninotchka, Margherita Gautier, La regina Cristina. Importante non è vedere la «divina», come allora venne chiamata, in film antichi che sottolineano con crudeltà la differenza fisica esistente tra la bella donna dell’«età del jazz» e l’anziana signora nevrastenica, che detesta i fotografi, e che ciò nonostante viene ritratta in tutti i rotocalchi, infagottata in abiti qualunque, in compagnia di George Schlee, il marito di una sarta amica di Greta. Infatti la svedese fu niente di meno di un mito. Si sapeva benissimo, naturalmente, che da ragazza aveva spennellato con schiuma densa di sapone il viso dei clienti di un piccolo barbiere di cui era commessa; si sapeva pure che aveva cominciato a lavorare per il cinema prestandosi, in costume da bagno, a far la pubblicità per certi prodotti. Ma che importa? Greta era soprattutto la donna fatale de La carne e il diavolo; colei la cui sola apparizione era bastata per far dimenticare subito le «vamp» del cinema muto italiano, Lyda Borelli e Francesca Bertini, Italia Almirante e Pina Menichelli. - Senza contare le «dive locali», Mae Murray e Pola Negri, Gloria Swanson e Wilma Banky.
Ricordiamo come se fosse ieri, e son passati quasi trent’anni, il pomeriggio in cui ci accadde di vedere per la prima volta il patetico volto di Greta. Aveva un abito bianco con luccichii argentei e una scollatura favolosa: l’alto collo dell’abito da sera alla Maria Stuarda accentuava l’incanto del profilo languido, degli occhi appassionati. Gli adolescenti della nostra generazione vennero scossi dal lungo bacio tra lei e John Gilbert ne La carne e il diavolo come da una scarica di elettrochoc, e la faccenda non fu più dimenticata. Di rincalzo vennero i film europei della «divina», anteriori nel tempo ma presentati: in Italia dopo il successo de La carne e il diavolo: La leggenda di Gösta Berling e La via senza gioia. La sorpresa della scoperta era tale infatti soltanto per noi. Amica e allieva di un geniale, sregolato e infelice regista del suo paese, Mauritz Stiller, Greta era un tipico prodotto della vecchia Eur6pa. Greta Garbo si presenta infatti nel cinema europeo con due artisti molto dotati, il già ricordato Mauritz Stiller e G.W. Pabst, e ne esce per cadere,a Hollywood, nelle mani di registi abili ma privi di mordente, di originalità, di poesia. Per noi questo non è un semplice caso. Hollywood è quella che è: i suoi vizi, il suo conformismo, la sua arida e livellatrice mentalità industriale li conosciamo da un pezzo. E pure Hollywood ci ha dato un genio del cinema, Chaplin, e una quantità di direttori artistici originali e profondi: Vidor, Ford, Hawks, Capra, Sturges, Huston... Come mai Greta Garbo non ha incontrato nessuno a Hollywood capace di comprenderla in pieno, in grado di superare il dato «divistico», di immergerla in una atmosfera concreta e nello stesso tempo fatale? Come mai una fortuna di tal sorta è -toccata alla Lombard di XX secolo, alla Davis di Le piccole volpi, alla Stanwyck di Proibito, persino alla Goddard di Tempi moderni e non a Greta Garbo? La risposta ci sembra semplice: Greta è restata sempre, a Hollywood, una straniera, un’attrice di passaggio che si tiene finché fa incassare dollari e che si licenzia come una cameriera quando non «rende». In verità essa è sempre rimasta la Greta di Stiller e di Pabst, la Greta «europea».
Abbiamo un ricordo non troppo limpido del primo film importante di Greta Garbo, La leggenda di Gösta Berling, diretto da Mauritz Stilier. Soltanto alcuni anni dopo abbiamo saputo che il film era giunto mutilato nelle sale delle vecchie città d’Occidente, da pochi anni tolte al loro sonno profondo per merito di uno spettacolo curioso, che si svolgeva al buio, mentre qualcuno suonava al pianoforte valzer di Strauss e notturni di Chopin.
Tutt’altra faccenda per l’ultimo film europeo della Garbo, La via senza gioia, che è firmato da Pabst. La Vienna dell’inflazione e della fame,in quell’altro dopoguerra così simile (tutte le sciagure s’assomigliano) al dopoguerra 1945.
Unica differenza le divise dei vincitori. Allora v’erano anche ufficiali in grigioverde che invitavano le belle viennesi affamate sulle Fiat e invece di Chesterfield regalavano Macedonia.
Si può pensare quello che si vuole di Pabst come regista. Probabilmente, quanto a preparazione culturale, è uno di quegli intellettuali che i francesi chiamano «primaires», cioè uno che non s’accorge delle sfumature, uno che non sa che certi problemi sono antichi come la vita, e soprattutto che l’arte non s’affronta gonfiando bicipiti e gote... Però è anche uno che ha il cinema nel sangue, che ogni tanto èpercorso dall’alito ineffabile della grazia. Per nostro conto sentiamo di dovergli alcune delle sensazioni più piacevoli di spettatori induriti. Chi non ricorda? Il can-can di Atlantide, i mulini di Don Chisciotte, in primo piano sullo sfondo di gonfie nuvole meridionali, e, ne I commedianti, girato dal povero umanitario Pabst sotto la ferula nazista, la carrellata del banchetto, che fu subito celebre. Ma Greta e Pabst ne La via senza gioia toccarono una sorta di perfezione, ebbero un gran momento di quelli che la vita non ripete. Fu un curioso connubio, non destinato a durare.
Insieme a Pabst e a Greta erano due favolosi attori, Werner Krauss, la cui mefistofelica figura è strettamente legata al cinema espressionistico tedesco, e la maggior «diva» dell’epoca, Asta Nielsen. Ne La via senza gioia vi erano due azioni parallele; una donna commetteva un delitto che avrebbe confessato solo alla fine del racconto; una fanciulla pura, ma avvilita dalla miseria, veniva insidiata e stava per perdersi ad opera di un losco figuro. Nel finale (evidentemente di comodo) l’illibata fanciulla veniva salvata da un ufficiale degli eserciti di occupazione.
Per un’intuizione da grande artista Pabst era il primo a trasferire nel cinematografo quel «fantastico sociale» che Baudelaire aveva scoperto donando alla poesia quella nuova provincia, che il cinema avrebbe in seguito esplorata sino ai limiti estremi. Le incongruenze della civiltà industriale, i tristi risultati delle speculazioni edilizie, i poveri esseri asserragliati nei quartieri miseri come in un ghetto, la strana, dolente poesia delle case misere, dei muri umidi, senza sole, erano per la prima volta conquistati da uno sguardo intelligente e profondo. In questa direzione mai Pabst riuscirà in seguito a fare di meglio.
Ne La via senza gioia Greta è già l’attrice che tutti celebreranno più tardi nei film famosi d’America. Essa ha appreso sin troppo bene la lezione impartitale da Stiller (ardente maestro che brucerà la sua vita alla gloria dell’allieva); s’è dimenticata con la naturalezza di una «comica»vera le modeste origini, leavvilenti esperienze, l’umile prova d’inizio del film comico Pietro il vagabondo. Ha già quell’incesso regale, quello sguardo profondo, carico di significati patetici, cui nessun maschio civilizzato resiste.
Il mondo cammina e le donne camminano con la storia; in testa alla colonna capelluta e dalle tenere linee curve, vengono le figlie del Nord. La Svezia del bellicoso Carlo xii s’è convertita al femminismo di Ibsen: il benessere venuto con i frigoriferi, con le baleniere e con il pesce in barile, porta la gente a considerare con rispetto la problematica dell’anima femminile. Per reazione, gli intellettuali tipo Stiller non tardano a porgere un orecchio compiaciuto ai «trolls», gli spiriti maligni evocati con tanta passione dal piccolo speziale scandinavo.
Dopo il film di Pabst carico di realtà, di malinconia, dove si esprime un giudizio su certi fenomeni sociali, Greta, chiamata a Hollywood, scivolerà fatalmente, incoraggiata dal filisteismo dei produttori, sul piano inclinato del divismo. Lo scotto verrà pagato molti anni più tardi, dopo il tentativo di liberazione di Ninotchka, con Non tradirmi con me, restato fino ad oggi senza resurrezione.
Attrice istintiva, e poco «intelligente» (come invece sono «intelligenti» Bette Davis e Marlene Dietrich), Greta ha compiuto cinquantun anni in settembre. È perciò, definitivamente, fuori giuoco, a meno che accetti parti che non siano più di innamorata. Svelta negli affari, ma timida, schiva, carica di «complessi», Greta si mise in testa che il capitombolo di Non tradirmi con me era stato il frutto di una cabala di invidiosi, di una congiura ordita ai suoi danni e non, come invece è vero, uno spiacevole infortunio professionale. Insistette nella sua solitudine, forse avendo capito confusamente che il suo tempo era passato. Figlia di Ibsen, non avrebbe potuto resistere alle imminenti offensive di Sartre. Sopravvive ora, patetica, goffa e anche un pochino ridicola, alla sua gloria. Resta nel cuore di innumerevoli suoi ammiratori un ricordo, una «presenza» che ha valore soprattutto perché fa corpo con la loro giovinezza. Ma è un ricordo che perirà assieme a quelli che amarono svisceratamente la «divina» nel buio dei cinematografi della vecchia Europa, più di venticinque anni fa.
Il volto più enigmatico e inafferrabile, ma anche il più puro, il più incontaminato che lo schermo abbia mai offerto alla contemplazione dello spettatore.
Da commessa nei magazzini Bergstrom di Stoccolma a diva, anzi «divina», questa è stata la parabola percorsa da Greta Lovisa Gustafsson, archetipo dell'eterno femminino.
Se ci si chiede quale personaggio cinematografico femminile abbia caratterizzato il secolo appena trascorso, la risposta non può essere che il nome di Greta Garbo. Un nome che eclissa tutti gli altri, anche quello di Marilyn Monroe, che oggi si cerca invano di anteporle: perché Marylin era sì un personaggio che irradiava simpatia, è stata una brava attrice, ha fatto una brutta morte, ma era una donna in carne e ossa, vivace, allegra, spiritosa. Greta Garbo invece si è presentata sin dall'inizio come una figura impenetrabile, seducente, sensuale, ma non come una creatura di questa terra, irreale ed eterea, quasi una figura virtuale come virtuale è il cinema.
«Alcune sue espressioni a mezza strada tra poesia e musica sembrano concentrare lontani flussi e armonie - scriveva Roberto Paolella - altre, nella loro spasmodica tensione, sono vari frammenti di sedute medianiche, relitti di ectoplasma trasferiti sullo schermo, mentre altre ancora rivelano la pura estasi o il pacato monologo della vita interiore o la sospensione tormentata e rapita di una creatura esitante tra il sogno e la realtà».
Il volto della Garbo è una collezione segreta di visioni, un album ideale e lirico di primi piani che restano nella memoria di chi ha visto i film della «sfinge del nord», di «Mademoiselle Amleto» o della «torcia di ghiaccio», come ebbero a definirla gli ineffabili creatori hollywoodiani di slogan a effetto.
Ma il «mistero-Garbo» si è sprigionato spontaneamente, da una personalità sfuggente e complessa, che si è sempre sottratta ad ogni tentativo di scavarne gli aspetti più reconditi: non ha mai concesso interviste, rilasciato autografi, risposto alle lettere degli ammiratori, presenziato alle prime dei suoi film, pubblicizzato prodotti. Il suo temperamento schivo, riservato, il suo negarsi a infrangere seppur minimamente la barriera che aveva creato attorno al suo privato (I want to be let alone, come spesso ripeteva), questa sua ostinata ritrosia hanno contribuito ad accrescerne il mito. E quanto si è detto di lei, della sua intimità, dei suoi amori, è soprattutto frutto di speculazioni giornalistiche, illazioni di reporter a caccia di scoop anche molto vicini alla realtà, senza che mai nulla sia stato suffragato da un suggello di verità o di smentita. «La meute aboie, je passe», era il motto di Lyda Borelli: potrebbe essere perfettamente adatto anche per Greta.
Sintetizzare in queste brevi righe la carriera di un'attrice leggendaria è impresa velleitaria e in buona parte ovvia. Ma sia permesso a chi scrive un personale ricordo di quando, anni fa, a Berlino venne presentata la personale completa dei film di Greta Garbo, salvo The Divine Woman, di cui sopravvive malauguratamente soltanto un frammento. I film si sono persi nel ricordo, salvo qualcuno fra i più celebrati, ma è rimasto intatto il magnetismo che emanava da quelle vecchie pellicole, un magnetismo arcano che rimanda ad una delle più belle pagine dei Journeaux intimes di Baudelaire: «Ho trovato la definizione della Bellezza. È qualcosa di ardente e triste... un volto seducente e bello, un volto di donna che induce a sognare nello stesso tempo - ma in maniera confusa - di voluttà e di tristezza, di sfinimento e persino di disgusto, ma anche un'idea opposta, e cioè un ardore, un'ansia di vita legata a un'amarezza ricorrente: come emanata da rinuncia e sconforto. Il mistero, il rimpianto sono anche prerogative della Bellezza...».
Da Le dive del silenzio, Le Mani, Genova, 2001.
Ed ecco, in Romanzo di Clarence Brown, l'ultima Greta Garbo. Da quando la signorina Gustaffson, prima ancora di scegliersi il suo sonante pseudonimo, fu accolta a Hollywood con uno spregiativo «la lunga svedese dai piedi piatti», le sue interpretazioni sono andate rivelando timbri e vibrazioni inconfondibili: Si dice che in un film il regista sia tutto; ma ciò può valere per il regista-artista, oppure per attori privi di una loro personalità. Quando invece abbiano un temperamento, il regista dovrà soltanto non lasciarli deviare dall'umanità e dallo stile di quel personaggio quasi esaurientemente intuito dall'interprete che abbia ingegno, sensibilità, cultura. La Garbo sta ancora a sé, si direbbe che non abbia bisogno di un regista. È finora apparsa in quattordicì film, ha finora avuto dieci registi, da Monta Bell (Il torrente) e Clarence Brown (La carne e il diavolo, Anna Christie) a Sidney Franklin (Orchidea selvaggia) e Fred Niblo (La donna misteriosa), da Maurizio Stiller (La leggenda di Gösta Berling) a Victor Sjöstrom (Donna divina), a Pabst (La via senza gioia); e dal suo primo al suo ultimo film la Garbo è stata ed è quasi sempre la stessa. Grande virtù d'attrice, o mito-feticcio, o fenomeno plastico di una potenza rara? Di tuta un po'. Ne è nato il garbismo; ma se molte garbeggiano, il modello è inimitabile. Costretta ad apparire sovente in polpettoni melodrammaticì, è riuscita a risolvere una non facile e ormai quasi anacronistica equazione, quella della super-diva, della vamp, della fatalissima. La donna, o la femmina, carica di destino in una sua atteggiata solitudine, irridente senza muovere labbra, ermetica anche quando si abbandona. In lei, aggiornata, rifiorisce l'ineluttabile di certi film d'anteguerra e di certa letteratura del dopoguerra. E poiché ancora non è apparsa in un film che, se non discutibile, sia almeno convincente (si va a vedere la Garbo per la Garbo), possiamo allora apprezzare questa virtuosa dell'obiettivo così come le varie occasioni ce la presentano.
Apparentemente ammantata di non facili romanticismi, si e cercata la donna credendo di scoprire l'attrice; quando ciò che si doveva intendere, e giudicare, era tutto sullo schermo. Forse il suo più vero e non arcano segreto è in un lieve ma preciso distacco che pone fra sé e ciò che interpreta. Pare sempre che si guardi e si ascolti vivere come personaggio, sulla sordina di una impercettibile, indifferente ironia. Ha detto: «Quando si scrive di noi bisogna cercare di diventare un po' estranei, si vorrebbe parlare di sé in terza persona A. Ebbene, sovente recita in terza persona. Questo tentativo di stile può giungere all'atteggiamento, Ferdinando Martini l'avrebbe certo chiamata «quella. pososa»; e ancora una volta avrebbe colto, in parte, nel segno. Recitando in terza persona tutto può diventare tremendamente importante, anche il gesto con il quale si prende o si offre una sigaretta. Manca ancora, alla maniera della Garbo, perché questa maniera diventi uno stile, quella felice fluidità che sola pone chiaroscuri e proporzioni infallibili, in una umanità tutta sentita e profonda; per la quale era artista grande la «pososa» del Martini, vale a dire la Duse, come ci riapparve le ultime volte, il volto esangue sotto i capelli bianchi.
Si sa che l'autore preferito dalla Garbo è Ibsen, lo ha anche recitato, e mediocremente, quando era una piccola attrice di prosa; è anche palese, in lei, il proposito di trasferire un suo orecchiato ibsenismo sullo schermo. Ma sono cascami, la distinzione fra schermo e ribalta non è mai, per la «divina», troppo chiara; ed è sopratutto quando si crede a una ribalta che se ne ha il garbismo, un ibrido farcito di letteratura incerta. Quando invece le più diverse formule appaiono dimenticate si ha l'attrice, sempre interessante, talvolta ammirevole, che sa fruire, con un'abilità sopraffina, o con un sorprendente istinto, delle rare risorse plastico-fotogeniche di una maschera inconfondibile.
Per Romanzo un soggetto più romantico non sarebbe stato facile da immaginare. RitaCavallini, famoso soprano italiano, s'incontra con il giovane pastore protestante Toni Armstrong. (Siamo in America, poco dopo la metà dell'ottocento, e la rievocazione è abbastanza gustosa). Una improvvisa passione avvince i due giovani, ma le ombre del burrascoso passato della «cantante» creano non pochi ostacoli nella puritana famiglia di lui. La donna sente che, per il bene dell'amato, deve volere il distacco; e quando Tom ritorna a lei, pronto a tutto dimenticare e perdonare pur di farla sua per sempre, Rita riesce a scostarlo da sé. Ciò che l'innamorato pastore è riuscito ora a superare, tornerebbe poi, e irreparabile, in un sordo rancore di inconfessatî rimproveri; meglio il distacco, meglio un'ultima speranza di un amore lontano.
Il film stenta a trovarsi, è soltanto con la prima «gran scena» d'amore (la vicenda consiste sopratutto in tre scene del genere) che si entra nel clima di questo quasi-dramma, un po' vecchiotto e un po' artefatto, un po' ingenuo e un po' arbitrario. Ma si osservi come la Cavallini, specialmente nelle prime sequenze, sia «la celebre cantante», dal misurato artificio in ogni suo istante; come poi, da quella figura volutamente atteggiata, si vada rivelando, con qualche slancio appena represso, una povera donna innamorata; e si dovrà allora applaudire l'attrice. Due brevi frammenti conservano il parlato originale, la voce della Garbo è velata, un po' cupa, ma ricca di vibrazioni, d'un,violoncello che si sua accordando.
(1931)
Da Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957