Marlene Dietrich (Maria Magdalena Dietrich). Data di nascita 27 dicembre 1901 a Schöneberg (Germania) ed è morto il 6 maggio 1992 all'età di 90 anni a Parigi (Francia).
Marlene Dietrich, vero nome Maria Magdalena Kostrzyn, nacque a Berlino il 27 febbraio 1901, esordì sulle scene in numerosi drammi e commedie; dopo essere stata allieva della scuola di Max Reinhardt, comincia una frustrante gavetta.
Sposatasi con lo sceneggiatore Rudolf Sieber, alternò all'attività teatrale quella cinematografica, in particine secondarie. Notata nel 1929, esplose con "L'angelo azzurro", grazie a regista Josef von Sternberg, in cui trovò un regista geniale e un formidabile pigmalione. La trasformazione che ebbe grazie a questo regista, e soprattutto i film che creati per lei dopo il suo trasferimento ad Hollywood, ("Marocco", "Disonorata", "Shangai Express", "Venere bionda", "L'imperatrice Caterina" e "Capriccio spagnolo") rappresentano alcuni dei più significativi omaggi che il cinema abbia fatto a una donna. Raggiunta la fama e il successo, Marlene interpretò parti drammatiche, mantenendo sempre un distacco confinante con l'ironia, affinando sempre di più le doti di recitazione e perdendo gradualmente il suo carattere sofisticato da vamp; la Dietrich divenne un rilevante personaggio pubblico non solo perché continuò a calcare il palcoscenico fino a tarda età, mantenendo la capacità di affascinare i suoi ammiratori, ma anche per la costante esposizione sul piano politico.
Marlene Dietrich morì a Parigi il 6 maggio 1992.
Lola Lola
Figlia di un ufficiale dell'esercito, la Dietrich frequenta a Berlino la scuola di recitazione di Max Reinhardt che la pone già nel 1922 in contatto con il teatro e, quasi contemporaneamente, con l'impegno nel cinema, spesso in parti di scarso rilievo. Ricordiamo, di questo periodo, "Tre amori" (1923), "L'ammaliatrice "(1925) di Georg Wilhelm Pabst, il film che lanciò la Garbo e soprattutto, "Café Elektrik" (1926) di Gustay Ucucky, in cui appare già come una perfetta donna fatale. E' in teatro, mentre recita nella commedia "Zwei Krawatten" (1929) che viene notata da Joseph von Sternberg il quale la identifica con il personaggio di Luisa Froelich, ovvero Lola-Lola, la chantant fatale in calze nere a rete che fa impazzire il dignitoso professor Unrath (Emil Jannings) e lo conduce alla rovina morale e sociale. Nasce così la leggenda de "L'angelo azzurro", che fa della Dietrich una star mondiale. Emergono prepotenti la sua voce roca e la studiata sensualità delle movenze: in questo la Dietrich è la perfetta creazione di von Sternberg che, innamoratosi di lei, la porta a Hollywood e le fa interpretare ruoli esotici di grande seduttrice un po' torbida e perversa. Dopo von Sternberg, suo nuovo pigmalione sarà Robert Mamoulian, che la dirige ne "Il cantico del cantici" con Brian Aherne. Il suo mito splende sempre più fulgido e la Dietrich sofisticata, fredda e sublime è di nuovo la musa di von Sternberg ne "L'imperatrice Caterina" (1934), di Frank Borzage con cui gira neI 1936 "Desiderio" e di Richard Boleslawsky per "Il giardino dell'oblio" ("Il giardino di Allah") o "Anime nel deserto" (1936). Luoghi esotici e storie leggendarie come si conviene a una bellezza quasi irraggiungibile quale è quella della Dietrich. Terminato definitivamente il sodalizio artistico e sentimentale con von Stemberg, la Dietrich rimane in America, rifiutandosi di rientrare nella Germania dominata dai nazisti e lavorando con Lubitsch, con Herbert Marshall, con Tay Garnett e accanto a John Wayne. NeI 1946 è in Francia per "Turbine d'amore" di Lacombe, con Jean Gabin; nel 1947 gira "Passione di zingara" di Mitchell Leisen con Ray Milland e, nel 1948, "Scandalo internazionale" di BilIy Wilder, con John Lund. Con Hitchock gira "Paura in palcoscenico" (1950), mentre nel 1957 gira con Orson Welles e Chariton Heston "L'infernale Quinlan". Ma negli ultimi anni la Dietrich si dedica ai recital del suo repertorio canoro, con costante successo, esibendo anche in età avanzata le sue celebri gambe. Nel 1978 torna al cinema in "Gigolò" di David Hemmings e si confessa nel film documentario "Marlene" (1984) diretto dall'attore Maximillian Schell.
Marlene femme fatale
Gli ultimi anni della sua vita li ha passati intrappolata a letto nel suo appartamento di Parigi rifiutando di essere fotografata. Sebbene avesse dichiarato durante la sua sfolgorante carriera di non sentirsi un mito, Marlene Dietrich era cosciente di aver incarnato una delle icone cinematografiche del secolo.
Già da tempo aveva trascurato il set per assecondare il conturbante timbro della sua voce in una lunga serie di concerti in tutto il mondo. Un suo grande amico, Ernest Hemingway, disse: "Se non avesse nient'altro che la voce potrebbe spezzarti il cuore. Ma ha anche un corpo stupendo e il volto di una bellezza senza tempo...".
Più di cento anni fa nasceva in Germania la più ambigua delle "femme fatale", dotata di un erotismo androgino scoperto e valorizzato dal regista Joseph von Sternberg che, notandola in un cabaret berlinese, la volle per "L'angelo azzurro". Marlene Dietrich si trasferì così a Hollywood abbandonando per sempre il suo paese natale dal quale è stata a lungo inseguita, desiderata e alla fine tacciata di tradimento. Quando Hitler la corteggiò affinché diventasse il simbolo della Germania nazista, la Dietrich, per tutta risposta, iniziò a collaborare con l'USO, intrattenendo le truppe americane, offrendo il suo supporto negli ospedali da campo durante il secondo conflitto mondiale.
La Dietrich era perfetta per lo stile decadente ed espressionista di von Sternberg; grazie ai film girati in America dopo l'exploit de "L'angelo azzurro", la coppia diventò sinonimo di un cinema peccaminoso e disinibito: Marlene finì con l'impersonare una donna ammaliatrice e amorale ma al tempo stesso angelica e mistica, con il portamento di un uomo, la cui mascolinità piaceva alle donne e la cui sensualità stregava gli uomini.
Che interpretasse una prostituta, una cantante o una chiromante come in "L'infernale Quinlan" di Orson Welles, Marlene era capace di suggerire quel senso di passionalità vietata, vagamente diabolica, che contribuì a modellare anche la sua vita privata, costellata da numerosi flirt sia con uomini che con donne. Una volta disse: "In Europa non ce ne importa se sei uomo o donna; facciamo l'amore con chiunque riteniamo attraente". La fine del magico legame con von Sternberg permise a Marlene di sfruttare il suo glamour anche in ruoli non drammatici come in "Destry Rides Again" del '39 nel quale non era più l'intoccabile, gelida e distante Venere bionda ma una cantante da saloon. Uno dei suoi tratti inequivocabili è stato anche l'originale stile canoro: una voce malinconica mescolata ad un parlato vigoroso con cui dal 1954 strabiliò i nightclub di tutto il mondo estrapolando dai film successi come "Falling In Love Again", "You Do Something To Me" di Cole Porter e "La Vie En Rose" da lei interpretata nel film di Hitchcock "Paura in Palcoscenico". Ma se c'è una canzone che ha posto il marchio alla sua suggestiva carriera da 'entertainer', questa è senz'altro "Lili Marleen", una canzone pacifista eseguita per la prima volta per i soldati americani durante il suo impegno antinazista, a cui non disdegnò di affiancare, nel suo repertorio degli anni Sessanta, anche pezzi di Bob Dylan.
Nel frattempo le apparizioni davanti alla macchina da presa divennero più occasionali e negli anni Cinquanta oltre alle collaborazioni con Welles e Hitchcock, Marlene Dietrich fu ingaggiata da un altro mostro sacro, Billy Wilder, che la volle per "Testimone d'accusa", dieci anni dopo averla diretta in "Scandalo Internazionale".
Nel 1975 concluse a Sidney la sua lunga serie di tournée e nel '78 apparve per l'ultima volta in "Just a Gigolò" al fianco di David Bowie. Poi il ritiro e il rifiuto sino alla morte di essere immortalata.
In tedesco, Dietrich vuol dire «passepartout», la chiave che riesce ad aprire ogni serratura, la più complicata che sia. Un nome profetico perché questo mito del ventesimo secolo, nato appunto insieme al secolo, è riuscito non solo ad aprire, ma letteralmente a sfondare ogni porta che le si parasse dinnanzi e a diventare una figura emblematica, una delle donne che hanno caratterizzato il Novecento.
Le sue biografie concordano nell'affermare che è stato il regista Josef von Sternberg a scoprirla e lanciarla nel suo ruolo più famoso, quello di Lola-Lola in Der blaue Engel (L'angelo azzurro, 1930), la spudorata cantante che porta alla rovina il professor Rath. Ma basta vederla in un film precedente - ne aveva interpretati già una quindicina - per rendersi conto della personalità magnetica di Marlene. «Farei qualunque cosa per voi, qualsiasi cosa», le sussurra un ansimante corteggiatore in Ich küsse ihre Hand, Madame (Il bacillo dell'amore, 1929). Marlene lo guarda allusiva tra le rose che l'uomo le ha offerto, poi, per tutta risposta: «Va bene, può portare a passeggiare il mio cane».
È vero che Sternberg la portò nella leggenda: quella lubrica canzonettista che, a gambe divaricate a cavalcioni su di una sedia, canta con voce roca «Ich bin von Kopf bis Füss auf Liebe eingestellt» («Sono votata all'amore dalla testa ai piedi») è un'immagine di seduzione, di sensualità che resterà viva nell'immaginario cinematografico. Roberto Paolella vi vede «il simbolo dell'eterno femminino» nel senso deteriore della «Foemina mors animae», cui accennano le Scritture; Siegfried Kracauer, più biecamente, le assegna un posto d'onore nella sua galleria di mostri germanici, da Caligari a Hitler. Ma la riscatta in parte Jean Cocteau, mettendo in luce la duplicità della sua natura, quando afferma che «il suo nome comincia come una carezza e termina con uno schiocco di frusta». Dopo L'angelo azzurro, Marlene va ad Hollywood con il suo mentore. Nel suo primo film americano, Morocco (Marocco, 1930), appare in cravatta e marsina, per seguire poi sulla sabbia, con i tacchi a spillo, il legionario Gary Cooper. In Dishonoured (Disonorata, 1931) è una sorta di Mata-Hari: dinnanzi al plotone d'esecuzione si ritocca le labbra con il rossetto, poi asciuga le lacrime del tenentino con la benda a lei destinata; coreograficamente statuaria è una improbabile sovrana di tutte le Russie in The Scarlet Empress (L'imperatrice Caterina, 1934). Con The Devil is a Woman (Capriccio spagnolo, 1935), Sternberg usa ombre e luci per circonfondere l'attrice in stravaganti acconciature, maschere, veli, fiori, guanti di pizzo e biancheria intima dalle pieghe morbide: c'è un'ansia ambientale che quasi emana un profumo inebriante. Lola-Lola è divenuta una signora, non più sboccata e triviale, ma fine e sorridente. Tutto ciò che verrà in seguito sarà un'appendice sfruttata da registi commerciali - con qualche rara eccezione - nel ricordo di altre atmosfere; i film che seguiranno saranno solo retorica ereditaria, come i diritti d'autore ai pronipoti. Conosceremo però un'altra Marlene, araba fenice che ritorna in tutt'altre vesti, una dorma vera che si batte contro il nazismo sempre in prima linea tra le truppe alleate, poi la grande cantante che riempirà i teatri di mezzo mondo con la sua voce ammaliante.
Un giorno, a Montreal, a uno spocchioso cronista che le chiedeva insistentemente quale fosse il suo segreto, come avesse fatto - era il 1972 - ad estasiare la platea del grande teatro canadese, esaurito in ogni ordine di posti: «Non nasci leggenda - rispose ineffabilmente Marlene - lo diventi».
Da Le dive del silenzio, Le Mani, Genova, 2001.
La prova che il diavolo esiste, e naturalmente è donna, Marlene Dietrich la forni urbi et orbi una sera del 1930, quando al Gloria-Palast di Berlino apparve il suo film L'Angelo azzurro. Veramente doveva essere il film di Emil Jannings, l'attore tedesco numero uno, appena aureolato dell'Oscar (il primo della storia) ricevuto l'anno precedente a Hollywood per un melodramma strappalacrime, Nel gorgo del peccato. Anzi era stato proprio lui, nella certezza di potersi avvoltolare in un "gorgo del peccato" di più nobile matrice letteraria (il romanzo Professor Unrat di Heinrich Mann), a invitare il famoso regista viennese colà trapiantato, Josef von Sternberg, per cui aveva già recitato in Crepuscolo di gloria, a dirigere in Germania il suo primo film sonoro. Era il primo aprile, e quella dannata serata berlinese non si converti nel trionfo sperato, ma nel più indigesto dei "pesci" per il massiccio mattatore, letteralmente cancellato sullo schermo dalla presenza della sua imprevista e non gradita partner. Ma quale presenza! Con un colpo solo, Marlene fu incoronata diva ed entrava nel mito.
Le gambe bellissime inguainate di seta scura, in mutandine di pizzo e cilindro bianco, la sciantosa seduta su un barilotto di birra in un cabaret vociante e fumoso esegue con voce roca, sotto la luce di un riflettore nel palcoscenico ingombro di donne grasse e di materiali barocchi, una cascata di ritornelli assassini. Il suo naturale, prepotente sex-appeal è, se possibile, accentuato dalla sovrana indifferenza con cui si esibisce a quella ingorda platea e alla vittima designata, il corpulento e grottesco professore che perderà per lei l'onore e la vita.
Ora la novità è che, mentre Jannings percorre l'intera strada della degradazione personale con gioco scenico autoritario ma invecchiato, Marlene replica il suo appello sensuale con crescente efficacia: in crinolina e parrucca, in piedi a gambe divaricate e mani sui fianchi in atto di sfida, finalmente a cavalcioni d'una sedia a palcoscenico vuoto e in abito e cappello neri. Alla celebre canzone di Lola-Lola, Dalla testa ai piedi son fatta per l'amore, si capisce che l'Angelo azzurro non è più il locale ma lei, la sua unica vedette, questo demonio spinto dalla sua'natura a portare rovina, e tuttavia estranea e incolpevole a fronte dell'uomo filisteo e masochista. Lola, moderna femme fatale, discende dalla Lulù di Wedekind, lo "spirito della terra" che Louise Brooks aveva impersonato neanche due anni prima: è il simbolo trionfante del sesso, certo più volgare («dovevo essere molto volgare, contro la mia natura», dirà l'attrice da vecchia) ma altrettanto assoluto.
Subito dopo la rivelazione berlinese, Marlene Dietrich raggiunse in America il suo pigmalione che sembrava averla creata dal nulla e che la guiderà in altri sei film; e lei sarà, alla Paramount, l'unico contraltare di Greta Garbo, la "divina" della Metro che però non ebbe, a Hollywood, la fortuna di poter contare su uno Sternberg. Con la- coda fra le gambe, l'offesissimo Jannings restò invece in Germania, mettendosi presto al servizio del Terzo Reich e accettando anche l'umiliazione di quel nazismo che, guarda caso, la sua diabolica compagna di un solo film aborrirà prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, e fino alla morte.
Nata a Berlino (Schöneberg il 27 dicembre 1901 - luogo e anno finalmente stabiliti dalla pubblicazione dell'atto municipale, riprodotto anche in volume), il suo non era un nome d'arte, essendo Marlene la contrazione di Mane Magdalene e Dietrich il cognome del vero padre. Allevata non da uno ma da due ufficiali prussiani, dato che al padre morto nel 1907 subentrò un patrigno von Losch poi caduto in guerra (e il cui cognome le fu attribuito solo per fingere un'ascendenza nobiliare), aveva ricevuto l'educazione riservata alle fanciulle di buona famiglia nell'epoca guglielmina: violino, danza sulle punte e governante francese. Ma lei era attratta dal teatro, da quello di prosa e specialmente da quello musicale (leggenda vuole che Sternberg l'avesse infatti scoperta nella sua ultima rivista, Due cravatte), mentre i fotografi cominciarono a essere sedotti dalle sue gambe fin dal 1922, scattando una serie di pose suggestive per articoli di moda. Proprio allora Marlene esordiva anche sullo schermo, dapprima in piccoli ruoli quasi di comparsa - più tardi si favoleggiò che nel 1925 fosse apparsa pure nella Via senza gioia di Pabst, incrociandovi casualmente quella Garbo con cui invece si sarebbe confrontata soltanto a distanza) - e via via in parti di maggior spessore. Louise Brooks, che Pabst le preferirà per Lulù, ha ricordato che in Vi bacio la mano, signora del 1928 la Dietrich «passava da uno sguardo lascivo all'altro, ornata di volta in volta di perline, broccati, piume di struzzo, chiffon e pellicce di coniglio bianco». Non c'era già qualcosa della futura Marlene, e addirittura di quella hollywoodiana?
In un film del 1929, L'enigma di Kurt Bernhardt, il personaggio era quasi pronto per il grande salto. Alle sue spalle, dunque, non c'era il nulla, ma sedici titoli e almeno uno spicchio del cinema mondano tedesco degli anni Venti. Certo L'Angelo azzurro, per testarda volontà di Sternberg contro il parere di tutta la troupe, la strappò a una carriera tutto sommato di routine, proiettandola nel firmamento delle stelle più luminose.
Nella metamorfosi operata a Hollywood, scompariva l'aggressività carnale della Dietrich prussiana a favore di un'immagine sempre più stilizzata e ambigua "alla Marlene". Guance scavate, sopracciglia ad arco, labbra lievemente socchiuse in un sorriso enigmatico, il suo volto era stato sottoposto, come del resto quello della sua antagonista, a un processo di "deificazione". E così la sua persona che, smagrita e flessuosa, abbandonava ogni grevità teutonica. Essa doveva ormai esistere come veicolo di seduzione allo stato puro, senza remore morali, psicologiche o narrative. Questa era la differenza sostanziale con la Garbo, che aveva bensì conosciuto il medesimo destino di adattamento commerciale e di ampliamento esotico, ma nonostante ogni mistero addossato ai suoi personaggi continuava a soffrire e a trasmettere il suo pathos come una creatura umana. Viceversa in Marlene il trattamento fu assai più radicale, fino a sublimarsi, grazie alla magia luministica sternberghiana, in segno, in icona. Inoltre il talento decorativo di Travis Banton la adornò dei costumi e degli oggetti più stravaganti e arditi, che lei soltanto poteva portare. Fu un delirio di piume, di veli e velette, di guanti, di cappelli, di pantaloni, di collane e gioielli, che raggiunse vertici tali di eleganza sofisticata e parossistica, da far invidia ancor oggi agli stilisti più fantasiosi e alle loro indossatrici e foto-modelle più spersonalizzate. A questo diluvio di forme, a questo top metafisico, Marlene Dietrich prestò una bellezza quasi immateriale, ma una concretissima forza d'animo per reggere alla provocazione e al kitsch senza esserne sommersa, anzi padroneggiandoli, dall'alto di una classe raffinatissima e di una naturalezza oltraggiosa.
Il valore dei film non sta evidentemente solo in lei, ma quale altra al posto suo avrebbe potuto fronteggiare vittoriosamente certe situazioni? Questo è il problema. Nel tabarin di Marocco (che uscì lo stesso anno dell'Angelo azzurro, il 1930) Amy Jolly, durante il suo numero, bacia sulla bocca una signora a un tavolo, la quale naturalmente si vergogna per l'eccesso del ringraziamento: le aveva permesso soltanto di cogliere sui propri capelli un fiore, che la cantante lancerà al legionario Gary Cooper. Celeberrimo anche il finale, in cui Marlene si toglie le scarpe per inseguire nel deserto il suo amore. In Disonorata si specchia nella sciabola. di un tenentino in lacrime, quindi si aggiusta una calza e si rifà le labbra prima di essere fucilata. In Shanghai Express la cortigiana d'alto bordo Shanghai Lily traversa la Cina della guerra civile in un tripudio di vestaglie; di pellicce, di bagagli, addomesticando il suo ufficiale tra gli sbuffi del treno e le indecifrabili volute delle sue sigarette. In Venere bionda emerge nivea da un pupazzone di gorilla: irrompe Hot Voodoo, che per Gianni Buttafava era «il più grande numero musicale di tutta la storia del cinema». Nell'imperatrice Caterina (dove appariva anche sua figlia, nella parte di lei bambina) Sternberg la cala invece con sadismo, quasi per annullarla, in un décor sovrabbondante e barbaricamente mostruoso; ma nella cavalcata finale sulle scale del Palazzo si sente che Marlene è sopravvissuta anche a questo. E nel documentario di 90 minuti che Maximilian Schell le dedicherà negli anni Ottanta, si ascolta la sua voce commentare impassibile: «Era la prima volta che si registrava il sonoro di cavalli sul legno».
Infine, nel 1935, Capriccio spagnolo, dallo stesso romanzo che ispirerà l'ultima opera di Buñuel. Qui la Conchita di Marlene incombe fin dall'inizio: nel carnevale di Siviglia, gli uomini sono burattini nelle sue mani. E il momento del distacco e il regista concede alla sua protagonista un tributo d'addio, un gelido soprassalto di venerazione, un estremo revival della comune parabola iniziata in uno studio tedesco e proseguita, viaggiando il mondo con l'immaginazione, in quelli di Hollywood. Conchita riprende sull'uomo lo stesso dominio che aveva Lola-Lola, la stessa indifferenza innocente e crudele; ma quel che restava, sotto la copertura barocca, della sua essenza realistica, si è ormai dissolto nella riduzione a maschera, a sapiente e irridente ghirigoro, quasi a fantasma. Un'assurda ostilità del governo spagnolo lo tolse di mezzo per anni, ma «era il nostro film preferito», ricorderà Marlene anche a nome dell'autore, scomparso, come tutti i grandi amici della sua vita, tanti anni prima di lei.
Quel rituale in sette stazioni, ufficiato da Sternberg, della fascinazione e dell'eccesso, e infine della vanità del tutto, edificò un mito eternamente in bilico tra il banale e il sublime. Tanto più il cinema di questo tandem stupefacente si librava, uccidendo la normalità e sfidando il ridicolo, in una sua aura di splendore immaginifico e di autonomia estetica totale, tanto meno soddisfaceva il grosso pubblico e i produttori. Ai trionfi di Marocco e di Shanghai Express (e naturalmente dell'Angelo azzurro) subentrarono i tonfi dell'Imperatrice Caterina e di Capriccio spagnolo, che di quella folle cattedrale erano le punte più elevate. Il titolo originale dell'ultimo film suonava Il diavolo è donna ed è stato ripreso, in tempi recenti, nell'edizione italiana di un «dizionario di buone maniere e di cattivi pensieri» scritto dall'attrice nel 1961.
Era infatti il leit-motiv giusto, il concetto-base in grado di assediare, nell'immaginario collettivo di quella prima metà degli anni Trenta, l'inespugnabile fortezza dei film di Greta Garbo.
Molto ci si accapigliò allora anche in Italia su chi fosse, tra le due star supreme, la migliore o la più degna di culto, in un certame di tipo sportivo come tra Binda e Guerra, Nuvolari e Varzi, la Juventus e l'Ambrosiana (dietro la quale beninteso si celava, stante il fascismo, l'internazionale). Le somiglianze c'erano: si diceva un film della Garbo (che era esatto) e un film "di" Marlene (che magari lo era a metà). Entrambe presenze immanenti e lontane, entrambe continuamente alle prese con soggetti analoghi, dato che le reciproche case produttrici fomentavano la rivalità, obbligandole a gareggiare negli stessi ruoli di cortigiana, spia o regina. La Garbo era la più passionale e intensa, Marlene la più ironica e distaccata. La svedese inseguiva l'ideale come un'asceta, la tedesca si sbizzarriva in un guardaroba monumentale. La prima conquistava donne e uomini, la seconda spopolava tra l'élite intellettuale. Sostanzialmente erano diversissime, e tra le due fu Marlene ad ammirare la Garbo, e non viceversa. L'una si ritirò ancor giovane dopo il primo scacco e per mezzo secolo si nascose nell'ombra; la seconda proseguì la carriera anche dopo la rottura con Sternberg, resistette ad ogni mutamento di tempi e di mode, affrontò altri generi e cambiò pelle altre volte, si confuse coi soldati in guerra e si concesse alle luci della ribalta - nei suoi recital di canzoni - fino a tarda età. Insomma osò diventare anche " la nonna più bella del mondo".
Fu il berlinese Lubitsch, allora a capo della produzione Paramount, a capire le nuove potenzialità della berlinese Dietrich. Prima come produttore e supervisore di Desiderio, poi anche come regista di Angelo, tra il 1936 e il 1937 riportò Marlene sulla terra e la inserì, pur sempre nelle vesti di maliarda senza eguali, tra le grandi signore del suo salotto buono. L'attrice uscì dai mascheramenti e dalle pose statuarie (quelle che Mamoulian nel Cantico dei cantici del 1933, unico intermezzo della sequela sternberghiana, aveva svilito a feuilleton) e rinfrescò il suo intatto potere di seduzione tirando fuori dal suo bagaglio di commediante le risorse di un umorismo fine, intelligente, armonioso. Ogni tanto, è vero, ricadeva nel passato, come nell'esotico e infelicissimo Giardino di Allah a colori, oppure - ma con maggiore scioltezza - nella Contessa Alessandra che girò a Londra col maestro Feyder, reduce da quel gioiello ch'era stato La kermesse eroica. Ma per riguadagnarsi il pubblico americano fu pronta a tutto, anche a slanciarsi nel western quale leggenda da saloon: da Partita d'azzardo del 1939 (l'anno in cui scoppiava la guerra in Europa e lei chiese e ottenne la cittadinanza Usa) a Rancho Notorious del '52, allorché si scontrò con Fritz Lang che le indicava i movimenti al millimetro e non le lasciava la libertà che, secondo lei, aveva goduto sotto il regime Sternberg. I culmini dell'autoironia li raggiunse nel '40 con La taverna dei sette peccati, ponendosi al centro di un'epica zuffa tra marinai, o nel dopoguerra con Passione di zingara, in cui si imbruttiva oltremisura sguazzando nel fango.
Comunque più che sul set, dove tra l'altro interpretò anche un film dell'esule René Clair (L'ammaliatrice), si fece onore nei giri di propaganda tra i soldati in prima linea, galvanizzandoli con le canzoni del suo vasto repertorio, sfidando pericoli e congelamenti sul fronte italiano e su quello francese, abbracciando il più gran numero di uomini che mai le fosse capitato e meritandosi, oltre alla Medal of Freedom e alla Légion d'Honneur, anche l'omaggio di Kenneth Tynan «alla vedova di tutti i caduti». Nel frattempo, tra New York e Parigi, negli intervalli del lavoro e della guerra, fioriva il lungo idillio col "musone" Jean Gabin. Sembra che l'attore si fosse lasciato conquistare dalla cucina alla francese di Marlene, ma fu recalcitrante a sposarla, anche quando lei glielo chiese espressamente. Nella sua testardaggine la coinvolse invece, nel 1946, in uno sciagurato mélo (Martin Roumagnac) rifiutando Les portes de la nuit che Carné e Prévert avevano allestito per loro.
Nel secondo dopoguerra la Dietrich continuava a essere vitale come nel primo; anzi, da giovane era più indolente. Ora era esperta, matura, professionale, e all'occorrenza sapeva ridimensionare criticamente il proprio mito. Una bella occasione gliela offrì Billy Wilder nel 1948: la cantante di night di Scandalo internazionale, ex intrattenitrice di caporioni nazisti (proprio lei che aveva respinto con sdegno le profferte di Hitler e di Goebbels), amaramente delusa dagli americani nella Berlino delle macerie e del mercato nero. Con Wilder tornerà dieci anni dopo in Testimone d'accusa, sostenendo una doppia parte che non la fece approdare all'Oscar; non era roba per lei, come non lo era stato per la Garbo. Scriveva profeticamente nel dizionario del '61 che l'Oscar è riservato ai personaggi afflitti dalle più gravi infermità, i più facili da interpretare e che suscitano la compassione generale. Quanto al premio in articulo mortis, «felice l'attore troppo malato per guardare l'evento in televisione».
Era troppo corretta e aveva troppo humour per far pesare la sua leggenda a qualcuno: Hitchcock lo sapeva e per questo, non potendo certo lasciarsi scappare la più famosa di tutte le bionde, l'aveva reclutata nel '50 per Paura in palcoscenico. E vero che col "terribile" Lang non si capì, ma l'autoritratto che disegnò in Rancho Notorious è tra i suoi esemplari. Attiva anche nella commedia (l'ultima fu, nel '57, Montecarlo, dove il suo partner al tavolo da gioco era Vittorio De Sica), eccelse in brevi partecipazioni drammatiche. Nel '58 incise per Orson Welles (L'infernale Quinlan) un memorabile cameo: a fumare il sigaro è lei, non il grosso malvagio cui predice da zingara un futuro «che non c'è più». E al '61, l'anno di Vincitori e vinti, risale il suo vero congedo dallo schermo, il tardo e spettrale ritorno del '79 in Gigolò contando solo come il classico errore finale che si perdona ai grandi.
Nell'umano e doloroso duetto tra lei e Spencer Tracy, tra la vedova di un generale tedesco che tenta di salvare la memoria del marito e il vecchio e onesto giudice venuto dalla provincia americana a presiedere un processo a Norimberga, si avverte qualcosa di profondamente autobiografico: come se la donna universalmente nota per la sua immagine artistica e anche per la sua militanza antinazista, si mostrasse finalmente debole nel dolore per una patria perduta.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006