Louis Jouvet (Jules Eugène Louis Jouvet) è un attore francese, è nato il 24 dicembre 1887 a Crozon (Francia) ed è morto il 16 agosto 1951 all'età di 63 anni a Parigi (Francia).
"Una figura dall'incalcolabile peso nella storia dello spettacolo contemporaneo", come scrisse G. C. Castello (Cinema n.s. 71). La sua carriera ebbe inizi difficili: venuto da studi di tutt'altro genere (farmacia), si vide per ben tre volte respinto dal Conservatorio, ma lavorò egualmente con un giovanile Gruppo d'azione artistica da lui formato insieme ad altri appassionati. Nel 1910 fu allievo di Léon Noèl al Théatre de Montparnasse, quindi passò sotto altre gestioni fino all'incontro con Copeau al Vieux Colombier, dove rimase dal 1912 al 1922, anno in cui fu nominato direttore della Comédie des Champs Elysées. Nel 1927 partecipò al "cartello" con Gaston Ba. ty, Georges Pitoèff e C-harles Dullin ed ebbe poco dopo il decisivo incontro con Jean Giraudoux, del cui teatro doveva essere per tanti anni il miglior ,interprete e realizzatore. Nel 1934 lasciò il posto alla Comédie per quello di' direttore del Théatre de l'Athéné dove rimase fino alla, morte. Scrisse alcune opere di ricordi e di teoria, ricche di preziosi pensamenti sull'arte del comédien. Sia in teatro, nella duplice veste di regista e di interprete, ch~ sullo schermo, fu un esempio di misura, di intelligenza, di sicuro senso selettivo nell'impostazione dei personaggi e dei testi, i quali ultimi spaziavano dalle novità più ardite ai classici più impegnativi. Sullo schermo, lo stile di recitazione di J. fu di grande ammaestramento per tutti i colleghi. Molti suoi personaggi sono rimasti memorabili, dal frate godereccio e spregiudicato della Kermesse eroica di Jacques Feyder (1935), all'ispettore di Alibi di Pierre Chenal (1938), al poliziotto di Quai des Orfèvres di H. G. Clouzot (1947), all'aspro ritratto del guitto di Miquette et sa mère pure di Clouzot (1950), che rimane fra le sue ultime fatiche cinematografiche. Ma non meno memorabili rimangono le personificazioni lasciateci in Un carnet de I,al (1937) e La fin du jour (1939) di Julien Duvivier, in Les bas-fonds (1936) e La Marseillaise (1937) di lean Renoir, in Mademoiselle Docteur (1936) e Le drame de Shangai (1938) di G. W. Pabst. Altri film: Topaze di Louis Gasnier, 1932; Du haut en bas di G. W. Pabst, 1933; Dròle de drame di Marcel Carné, 1937; Entrée des artistes di Marc Allégret, 1938; La charrette fantòme di Duvivier, 1939.
Son passati cinque anni dalla sua morte. Mentre si continua a rimpiangerlo, non gli si è trovato un successore. Alto, olivastro, coi capelli lisci, il naso pronunciato. gli occhi in fuori, il grande attore Louis Jouvet non era fisicamente un «francese medio». Non era veramente un francese medio neanche dal punto di vista dell’arte comica, benché fosse francese dai piedi alla radice dei capelli nella sua concezione della commedia classica, della commedia moderna e del modo di interpretarle tutt’e due.
Borghese, figlio di borghesi, provinciale (nato a Finistère nel 1991), farmacista per compiacere ai suoi, Jouvet entra in arte nel 1910 e fa la vita di tutti gli attori ai loro inizi. Ma la sua epifania egli la raggiunge con Jacques Copeau, il maestro che cerca di riallacciare il teatro moderno alle alltiche scaturigini religiose. Sono gli anni della formazione intellettuale e della scoperta del mestiere, anni fecondi, quelli dal 1918 al 1924, in cui Jouvet recita, studia, ha trovato un maestro e una disciplina. È quindi sui 33 anni che Jouvet si libera da ogni tutela per imboccare la strada che solo è sua, per porre la sua candidatura al successo e alla gloria, per tagliarsi un suo posto nel variopinto mondo teatrale che ha il suo pilone immobile, il suo faro, nella Comédie e le sue navicelle, ora affioranti sui flutti gloriose e ora minacciate da tempesta, sui boulevards.
Se noi guardiamo alla temperie storica in cui Jouvet si è affermato, ci accorgiamo subito che la sua ironia «borghese», la sua misura «borghese», la sua intelligenza «borghese» erano atti rivoluzionari. Da una parte la tradizione dei Guitry, dall’altra il rigorismo di Copeau. È al di fuori dei due estremi, una letteratura viva, uscita dalle sofferenze della guerra, nutrita dalla disciplina morale e nella solitaria riflessione delle trincee, che rischiava di essere, senza il veicolo universale del teatro, una letteratura per pochi.
Ponendosi mediano tra i due estremi, Jouvet aprì la strada a questa letteratura, servendosene nello stesso tempo ed essendone servito. I letterati rigorosi, che si sono affermati nelle «chapelles» ma non davanti alla gente, esprimevano un mondo che Jouvet istintivamente amava, che sentiva suo, e che desiderava esprimere come attore. Gli incontri di Jouvet con due letterati dalla mentalità critica, il Romains di «Knock» e il Giraudoux delle commedie destinate a renderlo celebre in tutto il, mondo, furono incontri a cui resta legata la parte migliore e più intima dell’interprete.
Jouvet vinse la sua battaglia obbligando il pubblico frivolo ad avvicinare qualcosa che all’apparenza fa ridere (Romains), che può divertire o apparire futile (Giraudoux); ma che rivela alla riflessione un fondo amaro e sofferto, una vitalità quasi inesauribile. I due letterati che hanno affrontato il teatro un po’ per avventura e quasi per giuoco si rivelano alla distanza, come direbbe uno sportivo, due piccoli classici. Louis Jouvet conosceva i suoi limiti e, riflessivo e critico, si studiava di approfondire i doni che aveva ricevuto invece di seguire l’andazzo di altri colleghi arrivati, che si credevano tutto lecito e perdevano il contatto coi testi.
Dalla riflessione, da uno studio costante e amoroso, dall’intuizione finissima di ciò che è teatro e di ciò che è poesia teatrale, nacque la classica rappresentazione di Jouvet di «L’école des femmes» molieresca. Il regista Jouvet ebbe modo di pareggiare e forse di superare l’interprete. Egli svincolò il capolavoro dalla gessosa interpretazione della Comédie allo stesso modo che un restauratore accorto toglie da un antico quadro, offuscato dal tempo, le ombre che ne celano ai profani i nascosti splendori. I ritrovati tecnici: il cortile che si apre e si chiude a seconda del bisogno, il «concertato» degli attori, gli epiloghi in guisa di balletto, furono trovate altissime, punte di estrosa fantasia nel rigore geometrico dell’assieme.
Ma il teatro, pur con tutte le sue possibilità, poteva isolare Jouvet nel consenso degli spettatori di Parigi o delle capitali straniere che l’ospitavano di tanto in tanto. Da nome francese Jouvet diventò nome universale col cinema. Attraverso il cinema ciò che si diceva in principio sull’intelligenza critica di Jouvet diventa lampante. Gli attori istintivi, gli attori tradizionali, rimangono schiacciati dalla macchina da presa. Emotivi, non sentendo la presenza degli spettatori si innervosiscono, perdono il controllo, caricano le tinte. Abituati alle luci del palcoscenico, nati per il teatro e legati a filo doppio con ciò che del teatro è la parte meno pura, essi accettano il cinema soltanto per i denari che esso arreca. Sono nella stessa posizione dei rampolli di antico casato che sposano ereditiere americane per rinverdire il blasone.
Jouvet no. Non era figlio d’arte, era un borghese; aveva fatto studi umanistici; adorava la letteratura; era un uomo moderno. Son tutte cose che portano al cinema, nel quale egli entrò da padrone, avendo riflettuto lungamente sulla tecnica e sui modi di espressione che sono peculiari alla recentissima arte e affascinato dal nuovo potere che la macchina da presa poteva donare.
Il cinema ebbe la virtù, tra l’altro, di liberare il Jouvet più nascosto, il Jouvet doloroso. Ciò che gli spettatori han soltanto indovinato sotto la risata gorgogliante di tacchino ne «L’école des femmes», il cinema io rivela anche allo spettatore più sprovveduto. Non per nulla nel cinema a Jouvet toccarono ruoli sacrificati di poliziotto, di uomo in margine, di amante innamorato e incompreso.
Il rigore con cui Jouvet entrava in scena dilatando i limiti dello spazio e dando concretezza e vigore a povere parole sono le ragioni per cui la sua partecipazione al cinematografo non risultò, come quella di altri attori di prosa, accessoria e marginale, ma fondamentale e addirittura categorica.
In Alibi, Jouvet figura un agente di polizia alla ricerca di un bandito megalomane e astutissimo. In Entrée des artistes, egli, con umanità ed umorismo, rifà in un certo senso se stesso in una parte di insegnante di conservatorio. In Hotel du Nord è il mascalzone innamorato, che a un certo punto è costretto a scegliere; in Quai des Orfèvres, il capolavoro, in cui il genio geometrico di Jouvet si è incontrato col genio matematico dei regista Clouzot, egli ritorna, ma come approfondendoli, gli antichi ruoli di poliziotto.
In quel film Jouvet era proprio solo. Egli doveva lottare non soltanto contro i delinquenti ma contro la stupidaggine, l’idiozia, l’indifferenza morale della gente per bene. Resisteva a star zitto, ma poi gli uscivano gridi rivelatori. Sono scene di altissima arte, in cui la sofferta umanità dell’uomo vince la scorza dell’intelligenza e del mestiere. Lontano dalle classiche buffonate dell’«École», Jouvet scoprì la fondamentale solitudine dell’uomo sulla terra. Scoprì ciò che uno scrittore che gli doveva esser caro, François Mauriac, ha definito «il deserto dell’amore». Da cui ci si salva soltanto con la fede nell’ineffabile, con l’arte liberatrice, & con la fuga nel nulla.