Attraverso i film si riscrive la storia, quella con la S ( "Bastardi Senza Gloria" e " Django Unchained") e quella con la s ( il massacro Tate ad opera di Manson e dei suoi accoliti). Una " catarsi" che permette di realizzare una fiaba, ambientata nella L.A del'69, composta di microuniversi paralleli: quello dello stuntman Cliff Booth ( ispirato al grande Hal Needham?), sodale dell' attore televisivo e di B Movie italiani, Rick Dalton (un Burt Reynolds alternativo ?), della comune hippie che figlia mostri antisistema di Charles Manson, tutto narrato dalla voce ( v.o Kurt Russell), che oscilla tra produzioni televisive western e la fiorente industria cinematografica hollywoodiana ( fantastica la sfida tra Bruce Lee e Cliff). In definitiva non esiste un film di Tarantino che non mi abbia attratto, ma poi resto sempre " spiazzato" dalla visione, che non riesce mai a convincermi del tutto. Qui la narrazione è più lineare del solito, ma pur essendo un film esteticamente bellissimo, ci sono comunque troppe scene di viaggi in auto " interminabili" e dilatazioni temporali " disturbanti",ad esempio la lunga scena nel ranch che fa incontrare Brad Pitt e Bruce Dern. Le dissertazioni verbali non sono così ingombranti come in altri film di Tarantino, però riecheggia spesso un certo riverbero misogino e fors anche destrorso : la comunità hippie viene subito etichettata come straniante, sbagliata, fuori luogo, moralmente non adeguata, tramite un machismo esagerato. Sharon Tate/Margot Robbie che va al cinema a vedersi (realmente) in un film della serie di Matt Helm con Dean Martin è una metacontestualizzazione che Tarantino usa con consapevolezza, come le feste nella Playboy Mansion con la presenza di Roman Polansky e Steve McQueen, così come la capacità filologica di rappresentare il periodo italiano di Dalton creando film ad hoc (non reali in questo universo), perfettamente inseribili nel tessuto produttivo anni '70 del cinema di genere italiano, citando non ha caso Antonio Margheriti e Sergio Corbucci. Si rimane affascinati dalla mis en scene, specie con corpi attoriali come quelli di Pitt e della Robbie, ma il senso (se non la verbalizzazione personale delle immagini che divengono, appunto, storie) mi sfugge, ma certamente è un limite del tutto personale.
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