La premessa di Tre manifesti a Ebbing, Missouri è il filone di appartenenza al genere dei revenge films, ovvero quelle pellicole aventi come leitmotiv il torto subito da un padre o una madre a causa di un’efferata violenza che ha strappato alla vita il suo primario affetto, spesso un figlio o una figlia (in genere violentato/a brutalmente). Una vendetta conseguente perpetrata dalla straziata madre o dal disperato padre si traduce in un urlo violento nei confronti di un sistema legge incapace di tutelare in maniera adeguata i suoi cittadini, condannando al lassismo di una burocrazia lenta e spesso non decisiva un reato gravissimo che in molti casi, finisce sepolto senza che l’uccisore paghi per il torto subito.
Eppure se tanto cinema ha parlato di questo, Tre manifesti a Ebbing, Missouri rompe il pronostico iniziale e si rivela, dopo poche decise inquadrature, diverso da quel piattume che va gustato freddo di bronsoniana memoria, ovvero un film cupo, dalla solida sceneggiatura e dalla scelta degli ambienti azzeccata, funerea e quasi letale in cui si muove la bravissima Frances McDormand dallo sguardo livido, maschera di un dolore che si è fatta pietra.
L’inizio è coeniano: la protagonista è ripresa mentre guida in macchina, sulla musica di Carter Burwell, intenta a osservare dei cartelloni pubblicitari ormai scrostati dal tempo che danno il benvenuto a Ebbing nel Missouri, un tranquillo paese di provincia, molto twinpeaksiano negli atteggiamenti e nella ritrosia dei suoi abitanti, chiusi dietro una passiva indifferenza.
Una comunità denotata dal regista, Martin McDonagh, che non disdegna appunto di inserire in questa cornice, un efferato delitto, da un punto di vista insolito.
Infatti, se in molte altre pellicole, l’evento di stupro o violenza si svolge durante il film che in genere si concentra sull’indagine del protagonista alla ricerca di una vendetta privata, in Tre manifesti a Ebbing, Missouri, al contrario, l’orrore ha già trovato compimento ben sette mesi prima con lo stupro della figlia adolescente di Mildred Hayes (Frances Mc Dormand), il cui cadavere è stato trovato bruciato nelle vicinanze di quei tre cartelloni del titolo, al limite della città di Ebbing, Missouri, appunto.
Mildred è una donna divorziata, madre di due figli, sconvolta dal dolore, che non trova requie col passare del tempo, che innerva spirito e corpo, ma attenzione, non versa nemmeno una lacrima, lei. Sguardo duro da western, la donna decide di dar fondo ai risparmi di famiglia per affittare proprio quei tre cartelloni, allo scopo di affiggere su uno sfondo rosso sangue, velate accuse nei confronti della polizia, in particolare dello sceriffo Willoughby (l’asciutto Woody Harrellson), reo di non aver ancora trovato una pista da seguire e ancor più, di aver deciso di abbandonare le indagini, dopo mesi di vane ricerche.
L’esplicito linguaggio dei manifesti in merito all’omicidio (uno di questi categorico e terribile recita "stuprata mentre moriva"), è l’incipit del film di Mc Dormand, interessato a indagare sulle reazioni che un simile gesto porta nella cittadina, sconvolta da una parte per il gesto e dall’altra insicura nei confronti di forze dell’ordine difficilmente non disponibili.
Lo sceriffo Willoughby, infatti, a differenza di molte altre pellicole di genere, non è un uomo che esercita il pugno di ferro: la sfaccettatura che ne dà Harellson ce lo mostra benvoluto, gentile e fisicamente distrutto da un cancro al pancreas che lentamente lo sta portando alla morte, un segreto che molti conoscono e di cui lo stessa Mildred non ne rimane esentata dal pietismo.
In un crescendo di malumori in cui la donna verrà ostacolata da tutti: dall’ex marito violento e prevaricatore, dal dentista che cerca di minacciarla (con un esito tutt’altro che felice nei suoi confronti), dallo stesso sceriffo come era ovvio e infine dalla Chiesa cattolica, in uno dei dialoghi meglio riusciti del film che dalla predica del prete sull’accettazione della morte, si apre l’inquietante immagine di odio nei confronti dei preti pedofili, Tre manifesti a Ebbing Missouri non si concentra sui due poli della narrazione ovvero la madre piegata dal dolore che cerca di smuovere la falsità della comunità della provincia o la vicenda dello sceriffo malato di cancro dall’altro (il cui epilogo giunge breve appena a metà film), ma vive di personaggi secondari, che arricchiscono la narrazione, sino a renderla autonoma e ineccepibile.
E’ il caso dell’agente Dixon, che tiene testa con bravura ai due premi Oscar Harrellson e Mc Dormand. Interpretato da un riuscito Sam Rockwell, è il classico ottuso poliziotto, razzista stupido e infantile, con una madre alcolizzata, che sembrerà strano, diventerà uno personaggi più importanti del film, arrivando a maturare consapevolmente sino a un finale insaspettato e aperto.
McDonagh sotto l’involucro di una commedia nera, mascherata da thriller e western urbano con tante atmosfere che ricordano tanto le pellicole di Eastwood e di John Wayne (alle cui movenze l’attrice Mc Dormand su indicazione del regista si è volutamente ispirata) realizza un riuscito spaccato della società americana di provincia trumpista, affrontando temi universali, spesso causticamente e senza scampo. Ne sono esempio la chiesa, la politica, la polizia, ciascuna descritta secondo un ricercato stile e soprattutto sfruttando un intento “mai serio”, alternando un registro comico a uno dissacrante (vedi la scena di Dixon accusato di essere razzista torturatore di neri anzi “negri”) e critico.
Col pretesto dell’atto provocatorio di Mildred e della crociata che ne seguirà, McDonagh ci mostra le precarie condizioni del paese americano, intorpidito da un lato da un dolore inesprimibile, gradualmente violento nelle sue forme sino a diventare ossessione e mania (quella di Mildred nei confronti della polizia) e la cieca indifferenza dei meccanismi di potere cui la comunità cerca di aggrapparsi con tutte le forze per non cadere nel baratro della violenza, nell’infuriata ricerca di un colpevole da consegnare alla “giustizia”.
Colpa e redenzione. Come si fa a diventare migliori? Un’indicazione ce la mostra il personaggio di Willoughby nella sua toccante lettera di commiato e una speranza ce la dà proprio il poliziotto-bullo Dixon, in un film che non parla per “accumulazione” o per sanguinolente immagini come in Tarantino, che non esplode in gesti insensati di violenza come in certe commedie dark dei fratelli Coen, ma preserva una forza “posata”, controllata e asciutta nei dialoghi, suggestionando lo spettatore con atmosfere western, figlie di un Dio minore apolide e perennemente “sulla strada”. Una strada sterminata, estesa e aperta ai confini della grande America.
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