La forma dell’acqua è un meraviglioso giocattolo vintage, un virtuosistico arabesco cinematografico simile ad un tappeto orientale, in cui il godimento consiste nello scoprire i particolari e i colori.
Veniamo innanzitutto catturati dalla scenografia e dalla raffinata predominante verde che si impone in ogni scena ed è impossibile non notare: il verde della creatura, della gelatina ritratta dall’amico pittore, del laboratorio e degli abiti, dell’auto nuova e della caramella succhiata dal colonnello Strickland (il bravissimo Michael Shannon) e, appunto come gustando una caramella, cerchiamo di far durare il più possibile il piacere della scoperta di questi minuti dettagli, in cui risiede la vera forza del film.
Poi ci sono le strizzate d’occhio ai cinefili, i riferimenti obbligati a Il mostro della laguna nera, i musical trasmessi dalla TV, perfino i passi di tip-tap; anche se l’origine di tutto sta forse in quel primordiale “cinema dei baracconi” che veniva proiettato nelle fiere agli albori della diffusione dell’invenzione dei Fratelli Lumière o anche prima, nello stupore suscitato dai mostri esibiti nelle fiere di paese (l’amico pittore ricorda di aver visto una sirena, che non era altro che una scimmia a cui avevano cucito una coda di pesce). Qui invece il mostro è “vero”, gli effetti speciali sono tanto perfetti da poter essere dimenticati, la tecnica si inchina al servizio dello spirito e trasforma l’essere anfibio da ripugnante in bellissimo.
È un film che va visto sul grande schermo per goderne appieno la bellezza visiva e, se ci fossero dubbi, è il regista stesso che ce lo suggerisce posizionando l’appartamento della protagonista letteralmente sopra una sontuosa sala cinematografica, da cui la divide solo il pavimento di assi, come una sottile e permeabile membrana.
Fin dall’inizio si capisce che non siamo davanti al classico film con il mostro “per tutta la famiglia”, la protagonista, Elisa, viene subito mostrata nella sua routine quotidiana che comprende, fuori fuoco, l’autoerotismo in immersione nella vasca da bagno. Del Toro ci tiene a disseminare il film di momenti disturbanti e spiazzanti, soprattutto nell’ultima parte, salvando il film dall’essere stucchevolmente politically correct.
Sally Hawkins riesce a rendere il personaggio senza rimanere intrappolata nel cliché dell’inserviente muta, la sua Elisa è forte e intelligente, ribelle e impavida, sotto l’abbigliamento punitivo cela un corpo fiorente e si rivela degna del semidio anfibio di cui si innamora. La sua forza sottopelle attrae in modo morboso perfino il crudele Strickland, caricatura dell’americano “alla Babbit”, così caparbio nel rifiutare di andare oltre l’apparenza, così terrorizzato dall’ammettere le proprie debolezze, da nascondere la cancrena alla dita con dosi sempre più massicce di antidolorifici.
Tutto intorno, un gruppo di ottimi attori a fare da spalla, da Octavia Spencer (Zelda) a Richard Jenkins (Gils) allo scienziato sensibile di Michael Stuhlbarg che completa l’opera di ribaltamento degli stereotipi (una spia russa simpatica in un film statunitense).
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