François Ozon, al diciassettesimo lungometraggio, realizza un film sul desiderio femminile.
di Roy Menarini
Ci sono registi parchi e registi generosi. Autori laconici e autori fluenti. Creatori lenti, pignoli, e creatori svelti, inventivi. François Ozon fa certamente parte della linea "abbondante" del cinema internazionale. Non è il tipo che ci mette sei o sette anni a scrivere e dirigere un film. Nella sua carriera ha già realizzato ben 17 lungometraggi, ovvero quattro in più dell'intera filmografia di Stanley Kubrick, più del triplo di Léos Carax, tanti quanti Olivier Assayas (che però ha 12 anni in più), e solo Xavier Dolan (tra i registi francofoni di culto) lo minaccia per il futuro. Evidentemente Ozon - oltre ad avere la fiducia del pubblico e quindi dei produttori - possiede lo spirito Nouvelle Vague, quello che ha spinto Truffaut e Chabrol e tuttora spinge Godard ad accumulare film su film, perché non si può mai smettere di essere registi, finito un film se ne fa subito un altro, e un titolo smargina quasi dentro il successivo.
A differenza di Godard, che immagina le sue opere come testi aperti, Ozon ama le storie chiuse, anche se i meccanismi di identità, doppio, ribaltamento e inversione sono costanti talmente esibite da diventare qualcosa di più di un marchio di fabbrica: un'idea fissa, nel senso migliore del termine.
Queste storie chiuse (ma con finali spesso aperti) diventano a loro volta dei sosia, e c'è tutto un cinema contemporaneo che sta lavorando in maniera frontale e fantasmatica sul buon vecchio tema del doppio, che appariva esaurito e invece è ancora lì che offre spunti ed energia narrativa, come ha dimostrato il formidabile incontro tra Olivier Assayas (sceneggiatore) e Roman Polanski (regista) per un film paradossalmente "ozioniano" come Quello che non so di lei (guarda la video recensione). E sospettiamo che questo Doppio amore (guarda la video recensione) non dispiaccia a Polanski stesso.
Suona forse retorico, ma quanti registi oggi si pongono come obiettivo quello di "dire sempre la verità", come si ripromettevano Godard e Truffaut? Poi a un certo punto il primo accusò il secondo di aver cominciato a mentire attraverso i suoi film, ma questa è un'altra storia, meno piacevole.
Ozon, per quanti meccanismi metta in scena e per quanti sostrati disponga uno sopra l'altro provenienti dall'enciclopedia cinematografica di cui si nutre, sembra sempre ignorare il buon gusto e le regole sociali per arrivare al nocciolo della questione e osservare la nuda verità.
Doppio amore è dunque un film sul desiderio femminile, in qualche modo l'opposto di un altro film di questi tempi, L'amore secondo Isabelle (guarda la video recensione) di Claire Denis, dove si cerca di dare un senso alla ricerca della felicità di una cinquantenne da una prospettiva completamente "dicibile" e accettabile.
Ozon - che già aveva utilizzato Marine Vacth con grande autenticità in Giovane e bella - lavora ancora con la sua femminilità complicata per svelare il profondo "indicibile" del desiderio, e la speranza recondita di completare l'intimità con l'uomo che si ama attraverso copie e gemelli che esplorino interamente la gamma delle pulsioni di una donna. Fino a perdere anche se stessi e a sentirsi due in una. Il desiderio si moltiplica per gemmazione: non ne possiamo fare a meno ma non è consigliabile lasciarsene completamente occupare. Uno è sempre troppo poco, ma il due è drammaticamente moltiplicabile per quattro e poi per otto. Ozon lo sa e non ha intenzione di nasconderlo.