Titolo originale | Richard Linklater: Dream Is Destiny |
Anno | 2016 |
Genere | Documentario, |
Produzione | USA |
Durata | 86 minuti |
Regia di | Louis Black, Karen Bernstein |
Attori | Julie Delpy, Ethan Hawke, Richard Linklater, Sandra Adair, Patricia Arquette Michael Barker, Jack Black, Louis Black, Ellar Coltrane, Jonathan Demme, Kent Jones, Chuck Linklater, Jacque Linklater, Tricia Linklater, Matthew McConaughey, Tommy Pallotta, John Pierson (II), Jonathan Sehring, John Sloss, Kevin Smith, Clark Walker. |
Tag | Da vedere 2016 |
Distribuzione | Wanted |
MYmonetro | 3,59 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento mercoledì 19 ottobre 2016
Il film/ritratto di un regista originale e innovatore è la celebrazione di uno dei rari talenti cinematografici del Duemila.
CONSIGLIATO SÌ
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Chi ha seguito il percorso artistico di Richard Linklater probabilmente fatica a trovare il filo conduttore fra film apparentemente diversi come Boyhood e Newton Boys, la trilogia di Prima dell'alba e Bad News Bears, A Scanner Darkly e Tutti vogliono qualcosa. A riprova non solo della versatilità del regista, ma anche del suo essere sempre (per scelta) defilato, difficile da mettere a fuoco, e ancor più da etichettare.
Il documentario Richard Linklater: Dream is Destiny riesce nel piccolo miracolo di farci conoscere e capire meglio un autore davvero sui generis, e lo fa senza inventarsi una costruzione artisticamente ambiziosa, ma lasciando parlare lo stesso Linklater e a quanti hanno coltivato un rapporto umano e di lavoro con lui (perché è impossibile lavorare con il regista texano senza trovare con lui un'intesa che vada oltre quella professionale), da Ethan Hawke a Patricia Arquette, da Jack Black a Julie Delpy, da Jonathan Demme a Matthew McConaughey, in assoluto il più preciso ed eloquente.
Richard Linklater: Dream is Destiny non lavora sul linguaggio filmico ma sulla mole di ricerca, andando a stanare filmati, foto, documenti e reperti della vita del suo soggetto, tanto privata quanto professionale, che nel suo caso coincidono perfettamente: un primo segnale della coerenza artistica dell'uomo. I registi, Karen Bernstein e Louis Black, sono rispettivamente una documentarista indipendente e il co-direttore dell'"Austin Chronicle2, e combinano capacità di indagine giornalistica e di assemblaggio dei materiali raccolti piuttosto che il desiderio di colorare della loro visione artistica la narrazione. Questo non è dilettantismo: è umiltà, accettazione dei propri limiti, e volontà di mettersi al servizio di chi le cose le sa dire, e va semplicemente lasciato parlare.
"Richard è così buddista che non sa neanche di esserlo", afferma McConaughey, sintetizzando in un apparente paradosso la serendipity che caratterizza un autore assai poco preoccupato del ritorno economico dei suoi film ma totalmente devoto a condividere la sua visione del mondo. Il tema primario di Linklater è il passaggio del tempo, concepito come un'ellissi olistica che garantisce l'eterno ritorno su ciò che siamo e sempre saremo, continuando a doppiarci nelle nostre successive incarnazioni: geniale il soffermarsi della cinepresa di Bernstein e Black sull'enorme spirale che il regista ha fatto costruire nel suo giardino. I suoi film sono capsule del tempo, eppure vivono in un eterno presente di cui Linklater cattura il sovrapporsi e il divenire.
Al regista interessano le situazioni autentiche che si creano fra le persone (mai personaggi) protagonisti non di un film, ma della vita quotidiana. La sua determinazione, mai oppressiva nei confronti del prossimo ma sempre votata a coinvolgere, è inarrestabile, e prospera con le difficoltà, senza arrendersi. A Linklater interessa unicamente creare una connessione, che sia con il pubblico o con il suo cast e la sua troupe. Ed è un un dialogo intimo e onesto, costruttivo e generoso, mai biecamente opportunistico.
Quella sua sconnessione col mondo, quella sua deriva culturale permanente rispecchiano un comune sentire molto più di tante verità apertamente enunciate. I suoi eroi sono slacker e dropout che vivono ai margini di un mainstream cui, come il regista, non vorrebbero né saprebbero appartenere. Negli anni del reaganismo questo rifiuto era quasi una bestemmia: solo Linklater e Cameron Crowe facevano respingere ai loro antieroi l'etica del successo. Ma Richard Linklater: Dream is Destiny mostra anche l'energia inesauribile e l'etica del lavoro di un regista solo apparentemente sciallone.
Bernstein e Black sono così intelligenti da punteggiare la narrazione di recensioni video del duo Siskel & Ebert, sempre sintonizzati sul gusto popolare: un gusto che Linklater a volte intercetta, a volte manca completamente.
Ma il regista sa creare un mondo, una sorta di "bolla in cui vorremmo rimanere per sempre": il che, in sintesi, è il marchio di un artista, che di volta in volta individua la forma più consona al suo sentire, una forma che prima non c'era e dopo di lui non ci sarà uguale. Linklater sa vedere il dramma nel non dramma, tessendo una tela di cui siamo ragni inconsapevoli, finché non arriva quell'istante di profonda (e spesso dolorosa) identificazione che ci fa accorgere che si sta parlando (anche) di noi; e mette sullo schermo ciò che sembra impossibile raffigurare, rende visibili i rapporti fra gli uomini, trasforma in cinema ciò che intuiamo senza saper dargli un nome. Per questo i suoi film restano dentro, come un ovosodo che non va né in su né in giù, e per questo bisogna essergli grati.