Tre sole piccole cose mi hanno infastidito in questo film:
la scelta poco felice del titolo (frutto della scrittrice Anna Maria Ortese ma a mio avviso inadeguato sia nel significato etimologico, sia in quanto epiteto elogiativo), l’inserimento nella, peraltro bella, colonna sonora di un brano cantato in inglese (quantunque discreto e appena accennato) in un contesto che più italiano non si può, e infine quel bislacco manifesto ufficiale con foto sottosopra, una trovata di cui mi sfugge il significato.
Per il resto senza alcun dubbio “Il giovane favoloso” è da considerarsi un’opera fondamentale per il nostro cinema di qualità. Il primo pregio del regista Martone è stato non cercare tanto la somiglianza fisica fra il personaggio e l’interprete (come invece accade spesso nelle biografie filmiche, anche ai limiti del posticcio), quanto una valenza interpretativa adeguata all’importanza umana e artistica del protagonista. In questo senso la scelta di Elio Germano si è rivelata azzeccatissima. Elio, a mio avviso, figura oggi insieme a Kim Rossi Stuart e Pierfrancesco Favino fra i più versatili attori uomini dell’attuale panorama del nostro cinema. Anche Germano come gli altri due è un eccellente trasformista, è abilissimo nel riprodurre inflessioni dialettali ed è dotato di una gamma espressiva che ne fa densa e credibile la recitazione.
Il film in ordine cronologico racchiude molto della vita tormentata di Giacomo Leopardi.
Il racconto inizia dall’infanzia spensierata nell’amata-odiata Recanati, avamposto provinciale di una società chiusa e arretrata, imperniandosi e dipanandosi nell’estenuante intensissima acculturazione e produzione letteraria adolescenziale (nella storia dell’arte universale diversi sono stati gli enfant prodige, con un celeberrimo Mozart nella musica, ma sicuramente con un gigante come Leopardi nella poesia), un’adolescenza sorvegliata dall’inesorabile oppressiva invadenza dei genitori e più in generale ideologicamente schiacciata da un ambiente culturale reazionario e clericale (Giacomo ai tempi della Restaurazione del Congresso di Vienna, 1815, aveva 17 anni e Recanati apparteneva alla Stato Pontificio). La narrazione si snoda sul filo teso dell’ incontenibile spasimo di conoscenza di Leopardi, favorito anche dal suo estimatore Pietro Giordani, arrivando finalmente all’agognata apertura al mondo con la delusione di Roma - corte papale corrotta, nobiltà depravata, invasa da puttane – e in parte di Firenze, dove stringe una fortissima amicizia con l’esule Antonio Ranieri e in seguito con la di lui sorella Paulina (entrambe splendide persone che accudendolo affettuosamente non lo lasceranno più), a Firenze entra in contatto con letterati quali Capponi, Colletta, Manzoni (quest’ultimo ne ammira la cultura e la poesia ma ne aborrisce le idee) e il cattoliberale Tommaseo che, a lui fortemente avverso, lo attacca a più riprese in pubblico e sulla stampa (nel film non se ne fa menzione ma Leopardi, intervallando con brevi ritorni a Recanati, soggiornerà anche a Milano, Bologna e Pisa), fino ad arrivare, sempre più minato nel fisico, all’epilogo della sua breve martoriata esistenza, costellata di sofferti aneliti e amori infelici, che lo vede estinguersi, ancora ragazzo, nel dolce struggente notturno napoletano.
Da rifiutare senza mezzi termini l’etichetta di “film erudito”. E’ un film per tutti, e chi non riesce ad apprezzarlo, anche in difetto di grande cultura, è un insensibile.
La sceneggiatura, curata nei minimi particolari, è valorizzata da una scenografia filologicamente corretta. Efficace l’ambientazione nella discesa al purpureo ”inferno” prostitutorio partenopeo, in cui il Nostro, ancora “illibato”, avrebbe dovuto liberarsi ai piaceri del sesso mentre invece viene beffato e deriso da un’orda di impietosi scugnizzi, così come è ben resa la scena della baldoria nell’osteria in cui Leopardi riesce significativamente a liberare col popolo quel genuino trasporto affettivo che non trova nella mondanità aristocratica che lui, da nobile redento, malcelatamente detesta.
Un film intensamente emotivo, un toccante affresco amorevole nei confronti del più moderno e intellettualmente integro dei poeti italiani, un altissimo lucido pensiero, ai suoi tempi fastidiosa spina nel fianco, col suo classicismo laico-romantico e ateismo materialista, di un sistema socialmente aberrante e retrivo che ancora oggi fa proseliti. Un poeta, letterato e filosofo italiano, in assoluto fra i più apprezzati al mondo. Un vero “Cercante oltre la siepe”.
Ottimi gli attori, tutti. Oltre a Germano ho apprezzato in particolare Massimo Popolizio (Monaldo Leopardi, il padre) e Paolo Graziosi (il suo precettore, l’abate Sanchini).
Antonello Chichiricco
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angelo mandelli
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sabato 8 novembre 2014
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siamo in linea
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Concordo su tutto o quasi. Siamo in linea. Uno splendido film, di grande valore, che sarà bellissimo anche rivisto tra parecchi anni. Anche io non ho capito il pezzo musicale in inglese. Non ho capito cosa ci entrasse, intendo. Alla prossima recensione!
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jayan
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domenica 29 marzo 2015
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non sono d'accordo sui tre punti
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Sono d'accordo sull'elogio del film, al punto da dare 5 stelle, quante ne ho date io. Non sono d'accordo sui tre punti che la hanno infastidita. Il titolo, per me, è molto bello: Il "giovane", perché era in effetti giovane e morì giovane. "Favoloso" perché è un termine che indica un essere straordinario, in quanto riuscì a rendere non solo il dolore del mondo ma anche il suo grido perché si possa venirne fuori e vivere nell'armonia agognata, nonostante la sua sorte avversa e le sue condizioni precarie di salute. Il secondo punto, sul brano cantato in inglese, in mezzo a tanti altri in italiano, latino, classici e religiosi, secondo me fa parte prima di tutto del carattere estroso del regista, ma serve anche a spezzare una catena di brani altrimenti troppo monotematici.
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Sono d'accordo sull'elogio del film, al punto da dare 5 stelle, quante ne ho date io. Non sono d'accordo sui tre punti che la hanno infastidita. Il titolo, per me, è molto bello: Il "giovane", perché era in effetti giovane e morì giovane. "Favoloso" perché è un termine che indica un essere straordinario, in quanto riuscì a rendere non solo il dolore del mondo ma anche il suo grido perché si possa venirne fuori e vivere nell'armonia agognata, nonostante la sua sorte avversa e le sue condizioni precarie di salute. Il secondo punto, sul brano cantato in inglese, in mezzo a tanti altri in italiano, latino, classici e religiosi, secondo me fa parte prima di tutto del carattere estroso del regista, ma serve anche a spezzare una catena di brani altrimenti troppo monotematici. Il terzo punto, la locandina con Leopardi sottosopra, rappresenta chiaramente il suo essere rivoluzionario, il suo opporsi ai rigidi schemi che il padre e la gente di Recanati (ma anche persino quelli di Napoli e Roma) gli imponevano. La sua visione del mondo era sottosopra rispetto a quell'epoca. E' forse questo il punto fondamentale di tutto il film, e il regista ne parla in un'intervista, l'aver rappresentato Leopardi come un giovane ribelle.
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