Allusioni politiche nel terzo capitolo di Hunger Games.
di Roy Menarini
Il rischio dell'ultimo capitolo - diviso in due parti - di Hunger Games, sui tavoli degli executive hollywoodiani, aveva un nome ben preciso: Matrix Revolutions. Quando si abbandona lo schema per cui il film è entrato nell'immaginario (là le avventure nella Matrice, qui il talent show con omicidi, in entrambi i casi la lotta in un mondo virtuale), e si entra nel war movie, tutte le dominanti fino a quel momento affidabili possono franare. Il terzo capitolo della saga dei Wachowski è tuttora il meno amato, meno ricordato, meno analizzato, proprio per il suo impasto di fantascienza bellica e avventura insurrezionale.
Ma Suzanne Collins, Francis Lawrence e gli sceneggiatori avevano ben presente il problema. E compreso che il campo di battaglia simbolica di Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte I è rappresentato dai media. Ecco che - come dice a un certo punto il Presidente Snow - la partita a scacchi per la vittoria si gioca su "mosse e contromosse", in gran parte mediatiche, piuttosto che su uno scenario contrapposto ai primi due capitoli. Da una parte bisogna cioè unire i rivoltosi, di per sé divisi anche geograficamente e frustrati; dall'altra battere la grancassa della propaganda patriottica, alternata a repressioni sanguinose. Il tutto servito da media in conflitto tra loro: il broadcast principale (il Potere) diffonde e dirama il proprio discorso alla Nazione in maniera univoca; la comunicazione virale dei ribelli si insinua nelle reti e raggiunge gli spettatori potenziali. Non è più lo scontro tra una retorica e una verità, ma tra due strategie comunicative, la seconda delle quali è pur sempre in grado - grazie a Katniss - di rifiutare le finzioni troppo smaccate e scegliere invece le immagini più drammatiche allo scopo di scatenare la rivoluzione.
Ecco perché la saga è così popolare tra gli young adults. In un Occidente sempre più (fortunatamente) pacificato e dominato da logiche economiche prima che politiche, la sola idea di una distopia americana in cui i giovani vadano a combattere la guerra contro un tiranno eccita le fantasie come qualcosa di lontano e al contempo ammirevole. Tuttavia, se non ci fosse il discorso sui media, toccherebbe a Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte I risultare troppo retorico.
Il tema della manipolazione dei media è d'altra parte molto sentito negli Stati Uniti, dove fin dagli avvenimenti dell'11 settembre 2001 le teorie del complotto si sprecano su qualsiasi prova audiovisiva, e Obama non ha certo aiutato la trasparenza, inciampando nei casi ermetici dell'uccisione di Bin Laden, di Wikileaks, di Snowden, e dello spionaggio NSA ai danni dei cittadini e dei leader internazionali. Certo, viene difficile pensare che i film hollywoodiani invitino al dissenso e corteggino le frange radicali dei movimenti giovanili, e infatti il discorso anti-tirannico rimane generico, e può essere letto facilmente da destra e da sinistra senza troppi problemi. Pur tuttavia, ricordiamo la riappropriazione mediatica - da parte di Anonymous e di altri gruppi di "guerriglia mediatica" - di un film tutto sommato minore come V per Vendetta. E già altri blockbuster come Il cavaliere oscuro - Il ritorno avevano cavalcato le fantasie di Occupy Wall Street con una certa sagacia.
Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte I insomma conferma la saga tratta dai volumi della Collins come quella più efficace nell'intuire sentimenti e linguaggi giovanili, grazie a un rapporto molto stretto con l'universo dei media, la serialità, la letteratura di genere, il fumetto, e persino (molto attentamente) con la moda e il femminismo contemporaneo. Prendere tutto questo troppo sul serio può essere fuorviante, ma fare spallucce e fingere che sia uno dei tanti prodotti di massa del cinema americano è altrettanto sproporzionato.