Sean Penn interpreta una ex stella della musica popolare moderna, "Cheyenne", compositore di canzoni dal fascino decadente, capaci di avere effetti negativi sulle fragili menti di piccoli ammiratori (tando da portare alcuni di essi a gesti estremi). Cheyenne è un pupazzo, i suoi tratti volutamente farseschi ricordano il trucco dei pagliacci da circo. Il pallore dei viso riempito di cipria, il rossetto, gli occhi turgidi e languidi, i capelli incolti scomposti dal vento, il fascino sinistro del clown assassino di Stephen King. Sean Penn incarna la degradazione di alcune tragiche subculture moderne, ma è anche l'immagine della crisi dell'uomo occidentale. Depresso, infelice, insoddisfatto, fatuo, scimmia di se stesso. Allettato dal denaro, brigato in operazioni finanziarie di dubbia natura, sempre alla ricerca dell'arricchimento, circondanto da un deserto morale sconfortante (l'amico donnaiolo, l'anziana con l'amante, il broker privo di scrupoli, figure deboli, confuse e farneticanti affollano ogni milieu). Di famglia ebrea, perde il padre senza essergli stato accanto neppure al capezzale; solo quando osserva il corpo esanime, bianco di un bianco di morte, rammenta di aver avuto un padre, un tempo. Ne osserva il codice impresso a fuoco su un braccio; scopre quindi la tragedia dell'olocausto (fino ad allore conosciuta -dice- "genericamente", a confermare la mediocrità e la superficilalità). Sorrentino muove un durissimo atto d'accusa contro le brutture della società occidentale, appagata ricca, ma soprattutto debole e vacua. Destinata alla decadenza. Si lancia alla caccia (poi con l'ausilio di un parodico epigono di Simon Wiesenthal) del criminale nazista per tanto tempo odiato dal padre e lungo l'itinerario sulle tracce dell'ormai anziano aguzzino il registra ci da una ancora più icastica prospettiva del triste declino americano. Sceglie i paesaggi, non a caso, più desolati d'america. Giunge in new mexico e scopre un'umanità sofferente, la tragedia degli orfani e delle vedove dei morti dei teatri di guerra americani, il trionfo dell'esteriorità insulsa e esasperata nelle donne (come negli uomini tatuati), il dramma delal ghettizzazione ancora non risolta dei nativi indios, la disoccuopazione, volti tristi, figure grottesche, dolorose e sconsolate, la voce di obama che promette un cambiamento che non arriverà, la solitudine degli anziani, le chiese vuote, le famose armerie attrezzate a purchessia diavoleria in grado di uccidere, il disorientamento di una società in uno stato preagonico. Il vecchio criminale nazista alla fine in una baracca al centro di una plaga artica (cerca assurde e autoconsolatorie giustificazioni ai propri crimini), solo, fuori dai confini del tempo e dello spazio, in uno scenario arido, freddo come l'indifferenza di una società interamente ripiegata sulle proprie afflizioni. Sorrentino non allestisce però un melodramma. Ci lascia infatti con un finale di speranza. Il pagliaccio, nella scena finale, è struccato, ripulito di quel candore simbolo di un deliquio della mente e del corpo, è redento. Torna alla vita, alla speranza in un avvenire positivo; tutto sta però è rimesso alla ferma volontà dell'individuo. E' un augurio rivolto a noi, agli avviliti ambulanti di una società smarrita.
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