Carnage, trasposizione cinematografica di un’opera teatrale di Yasmine Reza, è un film complesso, scandito e ritmato da dialoghi a tratti alleniani, nevrotici e ironici allo stesso tempo.
A partire da un incontro formale tra due coppie, i Cowan e i Longstreet, i cui rispettivi figli, Ethan e Zackary, avevano avuto un battibecco sfociato in violenza fisica, prende forma un mosaico delle personalità umane, dei rapporti interpersonali al cui interno ritroviamo tutto il nostro mondo: la solidarietà maschile (che può scaturire semplicemente da una bottiglia di Single Malt e un sigaro) e quella femminile, il lavoro come espressione della propria persona e le differenze sociali, l’uomo dominante e quello sottomesso, l’accondiscendenza e la strafottenza, la buona e cattiva educazione.
Le numerose opposizioni innescano meccanismi automatici che sfociano ancora una volta nella violenza, seppur verbale. I “grandi” poi non sono cosi diversi dai piccoli. La differenza è che i grandi hanno accumulato e assunto infinite maschere e hanno modi di rapportarsi con gli altri più complessi e sofisticati (tanto da essere degni di essere raccontati): sanno come ferire, rabbonire o infastidire l’Altro in modo meno diretto ma non per questo inefficace.
Nel claustrofobico microcosmo della sala dei Longstreet assistiamo alle nostre battaglie quotidiane tra persone sì dotate di intelligenza e cultura ma prive di libertà: gli scontri e i non-scontri sembrano inevitabili e dettati da istanze ultra-umane nonché dall’istinto più che dalla razionalità.
Polansky sembra rappresentare la prigionia metaforica in cui viviamo, forte probabilmente dei suoi anni di reclusione in Svizzera. La sala-prigione dei Longstreet dove viene girata la quasi totalità del film, rappresenta insieme una limitazione geografica e il giusto luogo dove scovare l’estrema difficoltà di una convivenza civile.
Infine la carneficina del titolo da una parte è il risultato naturale di una conciliazione impossibile tra le persone, dall’altra allude ad un annientamento progressivo delle infinite maschere che ogni uomo indossa nella cosiddetta società “civile”.
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