Artista eccentrico, strumentista senza pari, folletto megalomane, precursore di tutte le ibridazioni, Prince ha segnato il pop dagli anni Ottanta. Per sempre.
di Marzia Gandolfi
"My name is Prince and I am funky. My name is Prince the one and only" canta nell'album Love Symbol afferrando (e condensando) la sua essenza. E Prince funky lo era davvero. Lo è diventato presto, durante le assenze del padre, intonacatore di giorno e pianista jazz di notte, e davanti a un pianoforte che compensava qualche cosa che gli sfuggiva costantemente.
Aggrappato al piano, alla chitarra, al basso, alla batteria, al sassofono e a qualsiasi altro strumento assecondi la sua visionarietà perfezionista e paranoica, Prince diventa grande e maggiore negli anni Ottanta e nel cuore di un decennio che lo incontra e scontra con altre stelle blasonate del pantheon pop.
Due anni dopo "Thriller" di Michael Jackson (1982) e un anno dopo "Let's Dance" di David Bowie (1983), il 1984 è segnato (e graffiato) dalla colonna sonora di "Purple Rain", il cui eroe è un cantante e musicista 'travestito' da Jimi Hendrix mai troppo timido per imporsi, combattere e vincere. La notorietà di Prince è già considerevole negli Stati Uniti ma questo disco segna la sua impresa mondiale.
Dal 1984 al 1987 fa la sua revolution e regna sovrano alla testa della sua band mitica e archetipale: le saffiche Wendy Melvoin, alla chitarra, e Lisa Coleman, alle tastiere, l'ardente Sheila E. alle percussioni, il jazzista Eric Leeds al sassofono con cappa e cappuccio...
Precursore di tutte le ibridazioni della nostra epoca (nero, bianco, meticcio, latino, bambino, donna, aristocratico, mascalzone, etero, gay, felino) e musicista che ha osato tutte le ibridazioni, Prince è fatto della materia di cui sono fatte le note e di cui è fatto Bowie, con cui condivide il medesimo gusto per il rischio e lo stesso disprezzo per le regole.
Sessualmente ambigui ma accanitamente sessuali, infilano abiti femminili, mescolano musica black e white, 'rieducano' il pop, tracciano piste con le rispettive discografie, traducendo nella loro lingua fluida e accessibile gli idiomi delle avanguardie come del pop, del funk e della new wave, dello psichedelismo e del jazz, dell'hip hop e del rock. Troppe volte comparato a Michael Jackson, come solo il pianeta pop sa fare nutrendo rivalità presunte o reali, Prince perfeziona incessantemente la sua musica, rigenerando linguaggi agonizzanti e ricreando l'eccitazione del primo passo sulla luna, mentre Jackson lima performance e immagine per congelarsi nel firmamento della sua superba giovinezza. Contro o in alternativa alle coreografie perfette e la precisione maniacale del rivale, l'artista di Minneapolis rilancia coi suoni e la vita fino ad 'abdicare' negli anni Novanta la sua identità d'artista.
E gli studi di Paisley Park sono la terra sacra, il luogo di creazione dove il personaggio Prince governa e l'artista Prince crea, scrive, arrangia, suona, registra, produce, difendendo la propria privacy e i propri 'diritti', entrambi 'ritirati' dai servizi in streaming e dall'esposizione mediatica senza tregua.
Nell'epoca della spettacolarizzazione generalizzata, in cui prevale il voyeurismo televisivo, la fiction si insinua nella realtà sotto l'occhio onnipresente delle telecamere e il verbo dominante diventa 'apparire', il ragazzo di Minneapolis sceglie la riservatezza e la hometown in cui è cresciuto e dove i genitori si stabilirono fuggendo nel Minnesota freddo e liberale il soffocante clima del Sud razzista.
Abbracciato alla sua chitarra, Prince non si limita a comporre musica ma la diffonde, la mette in scena, la visualizza. Costantemente aggiornato sui suoni come sulle nuove tecnologie, parte mille volte per il fronte con le sue camicie à jabot, le collane, le catene e gli anelli molto prima del bling-bling del rap. Delle conquiste e delle vittorie in trincea sull'abitudine, l'inerzia e l'istituzionalizzato beneficiano oggi i nuovi artisti tra cui è ancora difficile individuare il discendente diretto dell'impudenza che caratterizza il suo gesto artistico.