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Sindrome americana

Il cinema di denuncia e Promised Land.
di Roy Menarini

In foto Matt Damon, protagonista del film Promised Land.

domenica 17 febbraio 2013 - Approfondimenti

Prescindiamo per un attimo dalla stanca riflessione intorno all'autorialità di Van Sant, che ad ogni pellicola sembra dover essere giudicato in base a quanto sono ostici e personali i suoi film. Si tratta di un problema che abita esclusivamente nella testa dei critici e che non aiuta a far luce su Promised Land il quale, pur con tutti i suoi difetti, rinverdisce senza sfigurare la lunga tradizione del cinema liberal militante.
Il cinema hollywoodiano, specialmente nella sua ala più progressista, non ha mai smesso di criticare le degenerazioni del capitalismo. Anzi, divenuto un vero e proprio genere (che da noi in Italia viene definito "cinema di denuncia", in mancanza di categorie più efficaci), è tra i pochi ad essere sopravvissuto indenne al traumatico passaggio tra New Hollywood e Hollywood contemporanea. Da Silkwood a Michael Clayton, da Sindrome cinese a Erin Brokovich, il sottofilone dedicato ai problemi dell'ambiente e al cinismo delle multinazionali segue poi da tempo codici assai riconoscibili. Di solito, reso molesto da un messaggio non di rado esplicato in maniera fastidiosamente pedagogica (e Promised Land in questo senso non fa molto per distaccarsi dall'intento), questo cinema rischia di oscurare ciò per cui più intriga: l'analisi dei luoghi molecolari degli Stati Uniti d'America. La provincia, la piccola industria, il mondo agrario, sono considerati spesso - e qui soprattutto - i nuclei basilari della nazione, lo stato allentato, liquido della civiltà individuale americana che circonda e protegge idealmente le grandi metropoli (lo stato solido). I farmers statunitensi, strozzati dalla crisi più dei colletti bianchi da ufficio urbano, ridiventano narrativamente spina dorsale della nazione, esattamente come nelle campagne elettorali, dove stati come l'Ohio (ad altissima densità agricola) diventano decisivi per il risultato finale. Visto che spesso i politici riducono a stereotipo l'elettore potenziale, il cinema si incarica di ridare corpo e paesaggio a questa terra promessa e talvolta mantenuta, che non vive di solo country e di birre bevute in veranda. Ecco, se film come Promised Land sembrano tutti uguali tra di loro (pur continuando fieramente a far imbestialire le lobby della grande industria), si potrebbe consigliare una modalità di visione alternativa. Non preoccuparsi più di tanto della storia e dei colpi di scena, ma concentrarsi sulla sensibilità - e qui Van Sant torna in primo piano - nel mostrare un tessuto sociale e geopolitico: le case con il granaio, gli alti silos, il pub del paese, i negozi commerciali e i minimarket, i motel con parcheggio, e poi ancora i volti proletari, le camicie a quadri, gli sguardi fieri e le logiche (non sempre emancipative) della piccola comunità... Una sorta di film nel film, una ritrattistica e una paesaggistica che chi ama l'America profonda e la sua originalità storica non può che apprezzare, indipendentemente dai cliché nascosti in sceneggiatura.

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