Lo stereotipo, che quasi sempre si ferma alla prima facile lettura, vuole che sia Pier Paolo Pasolini il padre spirituale della Famiglia Citti, Franco e Sergio, attore feticcio il primo e aiuto assistente e cineasta il secondo di una poetica borgatara che fulminò le degradate ma vitalissime periferie romane negli anni ‘50 e ‘6o. L’assioma è vero solo in parte, perché se Citti è diventato regista dopo gli incontri e le esperienze pasoliniane, Pasolini ha cominciato a occuparsi di quel mondo dopo gli incontri e le esperienze cittiane. Un’osmosi dunque, partita dalla curiosità che i due universi, così vicini e così lontani, ricercarono con spavalda allegria, tra una riflessione sui destini sottoproletari e una grande abbuffata di cibo e di sesso, tra sensibilità poetiche e un naturalismo mai forzato, purissimo e oggettivo. Quando si pensa al cinema di Pasolini vengono subito in mente tre figure, tre emblemi, tre simboli, tre punti fermi: Franco e Sergio Citti e Ninetto Davoli. I corpi e le anime del Pasolini che con Accattone chiuse la trilogia sulle borgate romane cominciata con il romanzo Ragazzi di vita e proseguita con Una vita violenta, aprendo i suoi occhi su un pianeta che diventerà patria ragione e sentimento e finanche morte. Sergio Citti, in questa formazione fu fondamentale. La sua primordiale saggezza si mischiò con la profondissima consapevolezza del suo maestro. E il primo risultato si chiama Ostia (1970), folgorante esordio nella regia di Sergio Citti, un film che riesce - ancora oggi - a non farsi plagiare dall’ingombrante peso del pensiero pasoliniano. Tre anni dopo fu la volta di Storie scellerate, che pare una sorta di post scriptum/integrazione della “trilogia della vita” di Pasolini. Del 1977 è invece Casotto, il film più conosciuto di Citti, non foss’altro per un cast che a rileggerlo mette sempre i brividi: Jodie Foster (!) e Michele Placido, Gigi Proietti e Paolo Stoppa, Anna e Mariangela Melato, Catherine Deneuve e l’immancabile Ninetto. Una pellicola incredibile, che guarda la vita, il mondo e il cinema da una cabina di una spiaggia libera. Tra le virtù di Citti c’era senz’altro quella di trasformare il cronico poverismo causato da budget vergognosi in creatività e poesia. Per questo i grandi attori non respingevano mai le sue proposte. E così, dopo il fragoroso cast di Casotto, ecco Vittorio Gassman e Philippe Noiret suonatori ambulanti in Due pezzi di pane (1978), Roberto Benigni e Giorgio Gaber nella cinica parabola sulla fame intitolata Il minestrone (1981) e ancora un altro cast ricco e variegato (di nuovo Gassman e la Melato e Malcolm McDowell, Alvaro Vitali, Andy Luotto, Carol Alt; Nino Frassica, Aldo Giuffré...) per Mortaci (1989), ovvero i morti che guardano l’aldilà da una terra notturna e lunatica, che ha mal di denti e che si lamenta, ma solo per dar fastidio ai vivi. Nacque da un soggetto di Pasolini (Pomo Teo Kolossal) un altro capolavoro cittiano, Magi randagi (1986), con Silvio Orlando e Patrick Bauchau, Gastone Moschin e i fedelissimi Davoli, Franco Citti e Laura Betti, storia di saltimbanchi (e) circensi che seguono una cometa, la solita e necessaria utopia. L’ultima parte del percorso cinematografico di Sergio è quasi inedito, nel senso che sia l’episodio girato per Esercizi di stile (Anche i cani ci guardano, 1996), sia Cartoni animati (1998), sia Vipera (2001), sia Fratella e sordo (2004) sono stati mal distribuiti o non distribuiti affatto. Senza dimenticare lo straordinario Sogni e bisogni televisivo (1985), i dialoghi di Brutti, sporchi e cattivi (i~6) di Scola e le co-sceneggiature di Salò e Accattone per Pasolini e La commare secca per Bernardo Bertolucci. Poesie in forma di (p)rose ruvide eppure capaci di distillare gocce d’infinita dolcezza. Sergio Citti, insomma, è stato un autore senza la volontà di esserlo, un antitaliano vero, un fratello di un altro pianeta, un cittadino del (suo) mondo. Che guardava e fumava. Fumava e s’incazzava. Scrutando gli orizzonti senza vantarsi. Se non della sua orgogliosa disparità d’intenti.
Da Film Tv, n. 43, 25 ottobre 2005