Riccardo Freda è un caso a parte. un po' come Melville in Francia. Individualista, solitario, anticonformista, controcorrente per vocazione e non per vezzo. Non è un caso che il regista italiano abbia sempre rivendicato la sua amicizia, oltre che una sorta di sintonia politica, con Leo Longanesi, feroce dissacratore di Mussolini durante il ventennio e altrettanto risoluto fustigatore della retorica antifascista nel dopoguerra. Freda non fu da meno, nel suo campo. Primo e unico a gridare al mondo culturale molto “organico” del nostro paese che il re, in verità, era nudo. Ovvero che il neoralismo fu (anche) un bluff colpevole di aver assegnato a registi incapaci e privi di talento una sorta di patentino ideologico buono per tutte le stagioni, che ne faceva d'ufficio dei “grandi autori”. Il suo furore lo portò a generalizzare indistintamente, se è vero che di Vittorio De Sica disse cose dure smontando pezzo per pezzo la sua opera: «Gira sempre lo stesso film, prende un fatto storico, epico e terribile sul cui sfondo ambienta la storia di qualche poveraccio con il cuore in mano e con la mamma che lo aspetta piangendo di giorno e pregando di sera». Era la natura di un personaggio scorbutico che aveva, del cinema italiano, un'idea personale: arte sì, ma popolare, della quale era necessario, obbligatorio, esaltare lo specifico, quindi le potenzialità spettacolari. Non in senso americano, benché il cineasta guardasse con rispetto alla Hollywood classica. Anzi il cinema, per Freda, era il linguaggio adatto a recuperare il coté squisitamente europeo dei generi, quello che ha appassionato i nomi principali della nostra letteratura offrendosi loro come “mezzo di trasporto” di poetiche e storie. Victor Hugo (I miserabili, 1994 con Gino Cervi indimenticabile Jean Valjean); Alexander Puskin (Aquila nera, 1946, avventuroso con Rossano Brazzi); Shakespeare (Giulietta e Romeo, 1964, interessante trasposizione che ha il respiro del cappa e spada e qualche risvolto horror); Adolphe D'Ennery (Le due orfanelle, 1966). Ma il suo capolavoro, Il conte Ugolino del 1949, con uno straordinario Carlo Ninchi nei panni dei nobile della Gherardesca, cita addirittura Dante Alighieri e il “fiero pasto”, in un finale di grande impatto emotivo.
È questo, in particolare, il film che fa capire lo stile di Freda: nonostante un budget ridotto la biografia del conte ha lo spessore dei migliori cappa e spada. Le scene di combattimento, le cavalcare, le battute di caccia, sono vissute non come riempitivi o semplici momenti di intrattenimento ma come situazioni che spiegano, senza troppe parole, il carattere avventuroso, avventato e vendicativo del protagonista. il regista preferisce definire psicologicamente i personaggi attraverso le azioni, invece di ricorrere alla verbosità di stampo teatrale tipica dei film in costume dell'epoca. Fino a trasformare l'attenzione per le sequenze spettacolari, di massa, girate in esterni, in una specie di ossessione, la sola cosa fondamentale nell'economia dei film. Con buona pace degli attori, per Freda meno importanti e rispettabili dei cavalli. Il. vecchio amico Bertrand Tavernier fu costretto a protestarlo proprio perché sul set di Elise La figlia di D'Artagnan (1994) si preoccupava dei quadrupedi e sopportava appena la presenza della diva di turno, Sophie Marceau.
Con I vampiri 1966), invece, realizzato quasi per scommessa in pochi giorni, Freda inaugura il filone gotico italiano, un sapiente miscuglio di atmosfere horror e situazioni melodrammatiche che troverà poi il suo apice con le opere di Mario Bava, in questo caso autore degli effetti speciali e operatore alla macchina. Anche migliori le sue successive incursioni nel genere, da L'orrobile segreto del dr. Hichcock (1964, dove si affronta con a stile visionario un tema scomodo come la necrofilia, a Lo spettro, entrambi interpretati dalla dark lady gotica per eccellenza, Barbara Steele.
Impossibile comunque relegare il cineasta in una casella precisa, seguendo canoni o stereotipi. Ha diretto notevoli spy story (Fermati, Coplan!, 1966), western (La morte non conta i dollari, 1967), gialli (Trappola per l'assassino, 1967), peplum (Teodora imperatrice di Bisanzio, 1953, Maciste alla corte del Gran Kahn, 1961, Maciste all'inferno 1962) o fiammeggianti melo in costume come Beatrice Cenci 1956) dove il tema dell'attrazione morbosa di un padre per una figlia viene trattato senza reticenze e con la solita, prorompente e inimitabile forza visiva
Da Film Tv, 21 dicembre 2003