Max Ophüls (Max Oppenheimer Ophüls) è un regista, produttore, sceneggiatore, scenografo, è nato il 6 maggio 1902 a Saarbrücken (Germania) ed è morto il 25 marzo 1957 all'età di 54 anni ad Amburgo (Germania).
Max Ophüls, come regista, possiede qualcosa di prodigioso e allo stesso tempo tragico rispetto a tutti gli altri registi. È il padre del melodramma cinematografico grazie alle sue pellicole ricche di personaggi suicidi. Un cinema fatto della spettacolarità del sentimento umano, dove si alternano, con impeccabile maestria, frivolezza e dramma, amor sacro e amor profano. Dove si calcano temi importanti per il cuore, senza però affondare nelle sdolcinatezze strappalacrime. E forse sta proprio in questo la sua maestria: nel mantenimento di un certo romanticismo che rimane orgoglioso e composto, anche di fronte alle bassezze della vita.
Tedesco, figlio di un commerciante ebreo, iniziò la sua carriera in teatro, formandosi come attore a soli 17 anni. Il padre, dalla mentalità retrograda, gli proibì l'uso del proprio nome, così Max scelse il cognome di Ophüls. Fra i 22 e i 30 anni, si fece notare anche come autore e regista, mettendo in scena poco meno di 200 spettacoli fra prosa e lirica e lavorando in città come Stuttgart, Dortmund, Wuppertal, Vienna, Francoforte, Braslau e Berlino. Nel 1929, diverrà padre di Marcel Ophüls, nato a Francoforte, il suo primo ammiratore e regista lui stesso.
Si avvicinò al cinema negli anni Trenta, come assistente regista di Anatole Litvak, poi esordì nella direzione di un cortometraggio per ragazzi nel 1931, al quale seguirono, ben presto, i primi film che cominciarono a dargli l'iniziale notorietà (È meglio l'olio di fegato di merluzzo e La ditta innamorata, entrambi del 1931).
Nel 1932, abbandona la Germania e, con la famiglia, andò a vivere a Parigi (in cui ottenne la cittadinanza solo nel 1937), dove continuò l'attività di regista con un successo inaspettato. A contribuire in modo particolare alla sua carriera fu la pellicola Amanti folli (1932), girato in lingua tedesca e francese, con la Magda Schneider (madre della ben più nota Romy) che interpreta una giovane innamorata di un ufficiale ucciso in duello dal marito di una sua ex amante. Lo sguardo disincantato e sofisticato, da vero e proprio osservatore della vita e del sentimento, colpisce l'occhio della critica e del pubblico che comprende da subito che il segreto di così tanta impagabile leggerezza è nello studio delle geometrie romantiche e malinconiche dell'animo umano.
Alterna la Francia all'Olanda e all'Italia, per circa otto anni e, per un breve periodo, lavora anche a Hollywood, presentando pellicole come: La signora di tutti (1934), La nostra compagnia (1936) e il melodramma riuscito parzialmente Tutto finisce all'alba (1940).
Il successo più clamoroso lo ottiene senza alcun dubbio con il lungometraggio La ronde, adattamento del capolavoro psicanalitico di Schnitzler, sulla vita amorosa di un gruppo di coppie viennesi (dalla prostituta alla signora borghese) con Simone Signoret, Isa Miranda e Serge Reggiani. La pellicola, raffinata e sensuale, ma soprattutto intimista venne candidata all'Oscar, senza però successo.
Continuò a mostrare sullo schermo ciò che non era possibile vedere altrove (né sulla scena, né sulla vita) con Lettere di una sconosciuta (1948), tratto da un racconto di Zweig e realizzato negli States con Joan Fontane, in una delle sue interpretazioni più belle e incisive. Seguono: Il piacere (1952), da alcune novelle di Guy de Maupassant e anche questo nominato all'Oscar, e I gioielli di Madame de... (1953). Gli attori italiani che si sono pregiati di averlo nella loro filmografia come regista sono stati: Vittorio De Sica, l'eterea Isa Miranda, Zoe Incrocci, Franco Coop e il caratterista Andrea Cecchi.
Il suo ultimo e sicuramente più discusso film, tanto che andò incontro a un insuccesso clamoroso, fu Lola Montès (1955) con Peter Ustinov: storia dell'ascesa e della caduta di una ballerina e cortigiana dell'Ottocento.
Poi, dopo la parentesi americana e francese, torna nella sua patria, la Germania, dove riprende l'attività teatrale avvicendandola a quella radiofonica, fino alla morte che lo colpirà nel 1957 ad Amburgo, proprio mentre stava allestendo in teatro "Le nozze di Figaro" di Beaumarchais.
Riposa nel famoso cimitero di Père-Lachaise a Parigi, in Francia, una delle pietre miliari della romantica storia del cinema melodrammatico mondiale. Un regista e un narratore che con verve e fascino ha dichiarato, con ogni sua pellicola, l'amore per la finzione e le invenzioni sceniche, quasi in uno spazio sospeso, dove tutto è possibile, fra sogno e realtà... forse è lì che lo ritroveremo.
ANYONE prone to attacks of vertigo should approach the works of Max Ophuls (1902-57) with some caution. Watching an individual Ophuls picture, in which, typically, the camera is in perpetual motion, can be a dizzying enough experience, but attempting to take in the whole of his career — by, say, attending the 12-movie retrospective that begins Friday at the Brooklyn Academy of Music’s Rose Cinemas — could be more disorienting yet, because Ophuls did a fair amount of moving around himself.
After leaving his native Germany in 1933, he directed films in France, Italy and the Netherlands; in the ’40s he worked in Hollywood; in 1950 he returned to France (where he had been a citizen since 1938) and made his four most famous movies. Trying to track this odd itinerary feels a little like chasing someone up a spiral staircase in the Tower of Babel.
There are, in fact, quite a few spiral staircases in the films of Max Ophuls, and he always seems to negotiate them smoothly. And although the irregular, stop-and-start nature of his career would drive most artists crazy, none of Ophuls’s several dislocations appear to have fazed him much. The consistency of his themes and his visual motifs from the first movie in the series — the elegant romantic tragedy “Liebelei,” made in Germany in 1933 — to his last completed work, the elaborate picaresque called “Lola Montes” (1955), is striking. Echoes of “Liebelei” can be heard very clearly in the American “Letter From an Unknown Woman” (1948) and then again five years later in the French “Earrings of Madame de ...”; and “Lola Montes” seems, in its less felicitous moments, just a gaudier version of Ophuls’s 1934 Italian melodrama “La Signora di Tutti.”
In all these pictures, and in “La Ronde” (1950) and “Le Plaisir” (1952) as well, love and honor are tricky, maddeningly slippery things, and the camera, you often feel, has no choice but to remain in motion, framing and reframing the intimate moral geography of the characters’ constantly changing situations. And frequently the only way to resolve all that flux and uncertainty is with something abrupt, arbitrary, pointlessly formal: Sometimes there has to be a duel.
Ophuls was obliged to reframe himself more than once in the course of his moviemaking life, maybe most dramatically when he moved to the United States in the early ’40s. Hollywood’s optimism and Ophuls’s profoundly European fatalism were not, at least initially, an ideal match. He was fired from his first job, directing a costume picture called “Vendetta,” by the film’s producer, Howard Hughes. (Hughes gave the boot to three other directors, including Preston Sturges and himself, before the movie was completed.) And the first Hollywood movie Ophuls finished, and signed, was an amiable but rather silly Douglas Fairbanks Jr. swashbuckler, “The Exile” (1947). But after the end of World War II, American moviegoers began to warm to the doomier aspects of the European sensibility, and to go to the sorts of films we later learned (from the French) to call noir: movies in which fate, or plain bad luck, governs the lives of the characters, and control over one’s destiny is an illusion unsuitable for grown-ups.
This, for Max Ophuls, was more like it. “Letter From an Unknown Woman,” which kicks off the Brooklyn Academy’s series with a week’s run, isn’t a film noir, but its heroine, a young Viennese with a crippling lifelong crush on a caddish musician, is as helpless as any noir hero; and the lighting (by the great cinematographer Franz Planer, who had shot “Liebelei”) emphasizes, as noir does, the shadows that make cities feel so dangerous and look so beautiful.
The movie is sleek, economical, exquisite, without a tracking shot out of place, and it features a remarkable performance by Louis Jourdan as the heroine’s unworthy object of desire. His charm is terrifyingly empty and, to his sorrow, he knows it. “Letter From an Unknown Woman” lacks the dark humor of Ophuls’s very best work, but it’s a thrilling piece of movie craftsmanship, and it certainly isn’t Hollywood-European; it is, unmistakably, the real thing. This picture has weltschmerz to burn.
But in Ophuls’s last two American movies, the Old World feels far away, barely a memory. “Caught” and “The Reckless Moment” (both 1949) take place in the present, in the United States, and in the untamed territory of full-blown noir. In “Caught” Barbara Bel Geddes plays a perky working girl who puts herself through charm school and is rewarded, with marriage to an extremely rich and borderline psychotic man, played by the reliably alarming Robert Ryan. (The character is said to have been based in large part on the director’s former boss, Howard Hughes.) The union is poisonous — to call this paranoiac millionaire a control freak would be to understate the case pretty drastically — and the luckless bride wants out. But for a variety of reasons, which include her own flaws and vulnerabilities, she can never manage to escape cleanly; hence the title.
What makes “Caught” one of the most interesting Hollywood movies of its unusually interesting time is, as in “Letter From an Unknown Woman,” the performance of the actor cast in the villain’s role. It’s possible that no screen actor has ever been better than Mr. Ryan at portraying bad men tormented by their badness. He shows us, with surprising delicacy, the pure panic that is sometimes the secret source of cruelty.
There’s yet another troubled villain in “The Reckless Moment,” an Irish-born blackmailer named Donnelly (James Mason). He tries to put the squeeze on a California housewife (Joan Bennett) whose daughter had been involved with an unsavory character who has turned up dead, but poor Donnelly finds himself, unexpectedly, recoiling from his task, even identifying with the intended victim of his extortion. It’s a deeply paradoxical identification: He senses (or imagines) that she’s as inextricably trapped in her good, happy life as he is in his shady, messy one.
Ophuls’s gliding camera is ideally suited to capture the small gestures and shifts of feeling of all these complicated noirish lives; in “Caught” and “The Reckless Moment” its movement feels so natural that it’s almost unobtrusive. And those sinuous tracking shots always promise at least a little bit of freedom within our various confinements. Max Ophuls succeeded in locating that valuable portion of freedom, some way of remaining himself, in transferring his European fatalism to American film noir, and it’s kind of inspiring. Ophuls, as we say here in the New World, knew how to roll with the punches. He rolled on tracks.
Da The New York Times, 25 Novembre 2007
Max Ophüls è morto. Lo si credeva guarito dall’infiammazione reumatica al cuore che lo aveva colpito all’inizio dell’anno mentre dirigeva allo Schauspiel Theater di Amburgo Le nozze di Figaro da lui stesso tradotto e adattato. Un critico tedesco dichiarò che attraverso Beaumarchais è essenzialmente lo spirito di Mozart e della Commedia dell’Arte che Ophüls aveva resuscitato in questo spettacolo al quale la sua abituale frenesia aveva impresso un ritmo strabiliante; le sue Nozze di Figaro comportavano infatti una trentina di quadri vertiginosi. La prova generale ebbe luogo il 6 gennaio e Max Ophüls, inchiodato al suo letto d’ospedale dall’altra parte della città, non poté assistere al suo trionfo: la folla in delirio, con i suoi applausi, pretese quarantatre chiamate degli attori!
Max Ophüls è morto il 26 marzo 1957, di mattina.
Nato a Sarrebrück il 6 maggio 1902, Max Ophüls, dopo la guerra 1914-18, dopo il plebiscito della Saar, optò per la nazionalità francese; in genere non si conosceva questo particolare e si parlava di lui come di un “viennese che lavorava da noi”. Di fatto, Ophüls visse a Vienna per non più di dieci mesi nel 1926.
Attore di teatro, poi regista, arrivò al cinema per amore di una attrice che seguì fino a Berlino. Diventato sonoro, il cinema reclutava i suoi nuovi registi tra la gente di teatro e fu così che tra il 1930 e il ‘32 diresse quattro film di lingua tedesca di cui non si sa niente o quasi. Nel 1932 fu la volta di Der verkaufte braut (La sposa venduta) dall’opera di Smetana e soprattutto Liebelei (Amanti folli, 1933) dalla commedia di Arthur Schnitzler, il suo film più celebre e anche il suo preferito. Quando Madame de... (I gioielli di Madame de..., 1953), girato quattro anni fa, uscì a Parigi nessuno notò che Max Ophüls aveva adattato il romanzo breve di Louise de Vilmorin fino a fargli assumere la costruzione esatta di Liebelei; l’ultima mezz’ora, il duello, il finale era un remake puro e semplice. Fuggito dalla Germania dopo l’avvento del nazismo, il suo nome scomparve dai titoli di testa di Liebelei; subito dopo la sua partenza, un anno e mezzo fa, ebbe occasione di rivedere questo film per la prima volta dopo venticinque anni in non so quale città della Germania; prima della proiezione prese la parola una personalità del luogo e spiegò che non era il caso di andare fieri dei titoli di testa monchi: ci fu un minuto di silenzio, poi il film fu proiettato e lungamente acclamato.
La Cinémathèque Française ci fa vedere a volte il graziosissimo film girato dopo Liebelei, La signora di tutti girato nel 1934 in Italia, che è tratto da un feuilleton e che preannuncia curiosamente Lola Montès (1955); è il dramma di un’attrice stremata che, dopo un tentativo di suicidio, sul letto d’ospedale rivede, mentre le praticano l’anestesia, i momenti più dolorosi della sua vita sentimentale. Isa Miranda, vent’anni prima di Martine Carol, fu l’eroina patetica di questo dramma ammirevolmente condotto.
Della mezza dozzina di film che Max Ophüls girò in Francia, prima della guerra, Divine (1936) è forse il migliore; ispirato a Colette – una ragazza di campagna viene a Parigi e sarà inghiottita dal music-hall – ecco un primo affresco travolgente dell’universo del teatro. Se già si è indotti a pensare a Lola Montès è perché Ophüls, costretto a usare Simone Berriau come vedette, la lascia in ombra a vantaggio dei ruoli secondari, a vantaggio di un’accumulazione di dettagli insieme comici e realisti. Con Le plaisir (Il piacere, 1951), Divine è il film in cui Ophüls si trova più vicino a Jean Renoir.
Meno riuscito, La tendre ennemie (La nostra compagna, 1936), che racconta una storia di fantasmi, sempre con Simone Berriau, ha gli arbitrii delle pochades a trucchi di René Clair, ma c’è posto anche per la tenerezza in questa favola.
Ophüls girò in seguito Yoshiwara (Y., il quartiere delle geishe, 1937) che non gli piaceva per niente, Le roman de Werther (Werther, 1938) che un po’ gli piaceva e, nel 1939, De Mayerling à Sarajevo che terminò in uniforme, arruolato nei fucilieri algerini.
Smobilitato, cominciò a Ginevra le riprese di L’école des femmes con Louis Jouvet e Madeleine Ozeray; dopo tre giorni, il produttore prese paura. La prima inquadratura mostrava una sala teatrale con il sipario ancora abbassato; Jouvet scendeva dal soffitto incontro alla cinepresa, atterrava sulla scena e la rappresentazione cominciava; la cinepresa di Ophüls seguiva gli attori alla loro uscita dalla scena, tra le quinte, nella soffitta ecc. Si ritroverà questo pirandellismo in La ronde (Il piacere e l’amore, 1950), Le plaisir e soprattutto Lola Montès.
Poco desideroso nel 1940 esattamente come nel ‘32 di incontrare i nazisti, Max Ophüls, accompagnato dalla moglie e dal figlio, sbarca a New York, acquista un’auto per risparmiare sul denaro del treno e punta su Hollywood, dove arriva senza il becco di un quattrino. Per quattro anni visse sperando ogni giorno di cominciare a lavorare il giorno dopo; nel 1947 gira finalmente un film, prodotto e interpretato da Douglas Fairbanks junior, The exile (Re in esilio, 1947) che è eccellente. Seguirono Letter from an unknown Woman (Lettera da una sconosciuta, 1948) bellissimo adattamento da Stefan Zwieg, e Caught (1949) inedito da noi.
Nel 1950 Ophüls rientra in Francia per girarvi La ronde che, fischiato la sera della prima, divenne uno dei più grandi successi mondiali del dopoguerra. Poi Le plaisir, da tre racconti di Maupassant, il più misconosciuto dei suoi film, Madame de.. . e, infine, Lola Montès sul quale tutto è stato detto, tutto è stato scritto. Questi quattro film testimoniano della capacità di Max Ophüls di salvaguardare la sua libertà di espressione all’interno di un genere di film tra i più pericolosi, vale a dire la grande produzione europea con mire mondiali.
Il gusto del lusso in Max Ophüls mascherava in realtà un grande pudore; ciò che cercava – un tempo, una curva – era così fragile e tuttavia così preciso che occorreva proteggerlo in un imballaggio sproporzionato come un gioiello prezioso che venga nascosto in quindici scrigni sempre più grandi, rinserrati gli uni negli altri.
Max Ophüls, nella tasca interna del suo vestito conservava gelosamente una piccola scheda di cartone sulla quale erano scritti i titoli dei film che sognava di girare; un giorno me la mostrò e vi lessi: Egmont di Goethe, Adolphe di Benjamin Constant, La belle Hélène da Offenbach, L’ amore dei quattro colonnelli di Peter Ustinov, una vita di Caterina di Russia (per Ingrid Bergman), Sei personaggi in cerca d’autore e qualche titolo che non ricordo.
Per contratto, si riservava sempre il diritto di abbandonare un film fino alla vigilia delle riprese se non lo si lasciava lavorare “a modo suo”, per esempio Mam’ zelle Nitouche (Santarellina, 1954) rifilato a una settimana dal primo giro di manovella a Yves Allegret. Il principale problema con il quale si scontrava era l’elaborazione dei soggetti. Ophüls si interessava, più che alle cose, ai loro riflessi, non gli interessava filmare la vita che indirettamente, di riflesso. Per esempio, il primo trattamento di Madame de, rifiutato dalla produzione, prevedeva che il racconto, quello che conosciamo, fosse interamente visto su specchi ai muri e ai soffitti.
È per questo che, dovendo trattare per Lola Montès con dei produttori irresponsabili, preoccupati solo di coprire gli assegni che emettevano, Max Ophüls ebbe, per la prima volta dopo molto tempo, carta bianca per concretizzare i suoi vecchi sogni: lo spettacolo nello spettacolo, la vita di Lola in flashes-back non cronologici o in frammenti ricostituiti in uno spettacolo da circo a tre piste...
Ophüls viveva da tempo in intimità con tutte queste idee che non sospettava neppure che Lola Montés sarebbe esploso come una bomba, mettendolo al bando dalla professione, ma procurandogli nuovi insospettati ammiratori, Jean Genet, Audiberti, Rossellini...
Gli scoppi di riso di Ophüls, gioiosi e contagiosi, erano celebri; la sua conversazione era straordinaria, generosa, entusiasta, ricca di riferimenti musicali; il ritmo era la sua preoccupazione dominante, il ritmo di un film, di un romanzo, il ritmo di un’andatura, della recitazione di un attore, il ritmo di una vita, quella di Lola, trafelata. Sognava tappe, fermate, riposo. Dopo l’uscita di Lola Montès, per liberarsi del telefono dal quale gli provenivano in continuazione ingiurie ed elogi, partì per Baden-Baden per “pensare”.
Prima della sua partenza, aveva rifiutato categoricamente di modificare il montaggio del suo film. Gli telegrafai a Baden che, approfittando della sua assenza, stavano saccheggiando Lola in un laboratorio parigino. Mi rispose subito: “Non posso immaginare dei tecnici francesi che si mettono in tali lavori all’insaputa del regista. Ci deve essere un malinteso. Tento senza successo di liberarmi di questa Lola che in Germania affronta le stesse tempeste che in Francia, paure, disperazioni, entusiasmi, speranze...”. Si conosce il seguito.
Ci sono due tipi di registi: quelli che affermano: “Vi accorgerete, il cinema è molto difficile” e gli altri che sostengono: “È molto facile, basta fare quello che passa per la testa e divertirsi’”. Max Ophüls apparteneva a questa seconda categoria. E poiché parlava più volentieri di Mozart e di Goethe che di sé, le sue intenzioni rimasero sempre misteriose e il suo stile mal compreso.
Non era il virtuoso, l’esteta, il cineasta decorativo che si diceva; non è per strafare che accumulava dieci o undici inquadrature in un solo movimento di macchina che attraversava tutta la scena e non è per sbalordire qualcuno che la sua cinepresa correva sulle scale, lungo le facciate, su un marciapiede di stazione, attraverso i cespugli. Max Ophüls come il suo amico Jean Renoir sacrificava sempre la tecnica alla recitazione dell’attore; Ophüls aveva notato che un attore è necessariamente buono, necessariamente antiteatrale se è costretto a uno sforzo fisico: salire le scale, correre nella campagna, danzare durante tutta una ripresa. Quando un attore in un film di Ophüls è immobile, cosa del resto rara, in piedi o seduto, potete star sicuri che un oggetto, tubo di una stufa, cortina trasparente, sedia, è messo in mezzo, tra lui e l’obiettivo; non è che Ophüls disconosca la nobiltà del volto umano; si tratta invece che l’attore, sapendo che il suo volto è parzialmente nascosto all’obiettivo, si sforzerà di compensare e di affermarsi con l’intonazione; sarà più vero, più giusto, perché Max Ophüls era desideroso di verità, di esattezza; era, chi l’avrebbe detto, un cineasta realista, e persino nel caso di Lola Montès, neo-realista.
Nella vita non si percepiscono allo stesso modo tutti i suoni, tutte le frasi; è per questo che i film di Ophüls indignavano a tal punto tutti i tecnici del suono: non si distingueva nettamente che un terzo della colonna sonora, il resto era percepito vagamente, come nella vita. I dialoghi erano dei brusii.
La donna è il personaggio principale nell’opera di Ophüls; la donna iper-femminile, vittima di ogni tipo di uomo: militari inflessibili, diplomatici affascinanti, artisti tirannici, giovanotti esaltati ecc. È perché Ophüls non trattava che soggetti eterni che lo si diceva inattuale, anacronistico. Mostrava nei suoi film la crudeltà del piacere, i drammi dell’amore, le trappole del desiderio, era il cineasta del “triste indomani che segue al ballo gioioso”(Victor Hugo).
Se, dopo Lola Montès, ricevette tante lettere di giovani cinéphiles , se in quel momento il cine-club lo riscoprirono, è che per la prima volta, al suo tema abituale della donna sciupata prematuramente, aveva sovrapposto preoccupazioni del tutto attuali: la crudeltà delle moderne forme di spettacolo, lo sfruttamento abusivo delle biografie romanzate, i giochi indiscreti, parata di amanti, giornalismo scandalistico, affaticamento, depressioni nervose. Mi confidò che aveva scritto la sceneggiatura di Lola Montès integrandola quasi sistematicamente di tutto ciò che di inquieto, torbido c’era nei giornali degli ultimi tre mesi: divorzi hollywoodiani, tentativo di suicidio di Judy Garland, l’avventura di Rita Hayworth, i circhi americani a tre piste, l’avvento del cinemascope e del cinerama, il dilagare della pubblicità, le iperboli della vita moderna.
Lola Montès è il più grande film di derisione mai girato, ma invece di presentarsi come un’opera di laboratorio, come Le sedie di Ionesco per esempio, è una superproduzione alla portata di tutti, e Peter Ustinov in un articolo spiega bene questo fenomeno di sproporzione: «Era il più introspettivo dei registi, un orologiaio che non ha altra ambizione che quella di fabbricare il più piccolo orologio del mondo e se ne va poi in un improvviso lampo di perversità a posarlo in cima a una cattedrale”.
Inquieto per l’insuccesso di Lola Montès, il produttore che preparava Modigliani (il film che assunse il titolo definitivo di Montparnasse 19, fu diretto da Jacques Becker) impose a Max Ophüls la collaborazione di uno sceneggiatore un tempo prestigioso, dal mestiere consumato, Henri Jeanson; era lui che doveva frenare l’entusiasmo di Ophüls, incanalarlo. Ciò che è più straordinario e commovente in questa avventura è che, a contatto con il vulcano Ophüls, Henri Jeanson ritrovò la sua vecchia verve: la bella sceneggiatura di Modigliani è il risultato di una collaborazione inattesa ma effettiva, la moltiplicazione di due entusiasmi meno contraddittori di quanto non si fosse creduto in un primo momento.
Max Ophüls calcolava che il successo di Modigliani gli avrebbe fruttato una cifra grazie alla quale avrebbe potuto fondare – in società con Danielle Darrieux – una casa di produzione indipendente. Il loro primo film avrebbe dovuto essere Histoire d’aimer dal romanzo di Louise de Vilmorin.
Max Ophüls era per alcuni di noi il migliore cineasta francese assieme a Jean Renoir. È una perdita immensa, di un artista balzacchiano che era diventato l’avvocato delle sue eroine, il complice delle donne, il nostro cineasta de chevet.
Da I film della mia vita, Milano, Edizioni CDE, 1975
Amanti folli (1933) è il Liebelei di Arthur Schnitzler, storia romantica di una ragazza del popolo che, nella Vienna gloriosa dell'Impero (la commedia è del 1894), si uccide per amore. Il regista, qui alla prima prova impegnativa (ha fatto molto teatro, è stato direttore del Burgtheater, ha affrontato seriamente il cinema all'alba del sonoro), si abbandona al piacere della –forma.
È un altro Stemberg, raffinato come lui, ossessionato dal tentativo di comunicare allo spettatore l'emozione che la luce e movimenti di macchina sinuosi suscitano nel seguire le mosse degli attori. Si tratti di una tenera storiella d'amore che si conclude tragicamente (l'innamorato, bell'ufficiale fatuo, ama un'altra al punto da morire per lei in duello), o si tratti di un melodramma ricavato da Salvator Gotta (La signora di tutti, 1934, girato in Italia con l'esordiente, «fatale» e impacciata Isa Miranda), Ophüls si accanisce in una esplorazione dei segreti del linguaggio. In La signora di tutti c'è la (interessante) complicazione strutturale, dovuta alla serie di flashback in cui si articola la vita d'una diva del cinema che, sul tavolo operatorio, ha le dolorose visioni di quanto le accadde e la premonizione dell'esito infausto dell'intervento.
La mano del regista è leggerà. Ama gli orpelli ma rispetta i personaggi, soprattutto - a differenza del misogino Sternberg - quelli femminili.
Nel suo vagabondare fra Italia, Francia e poi Stati Uniti per sfuggire a Hitler, oscilla fra sentimentalismo (il goethiano Werther,1938, adattato al cinema senza alcun timore reverenziale), melodramma (Tutto finisce all'alba, 1939, con una appassionata Edwige Feuillière che per lui interpreterà anche Da Mayerling a Sarajevo, 1940), commedia (i suoi gioielli più brillanti, pieni di arguzia e di cinismo: la schnitzleriana Ronde di Il piacere e l'amore, 1950, il maupassantiano Il piacere, 1952, sospeso fra riso e orrore). Ma dove più compiutamente si esprime, questo anti-Sternberg che tanto assomiglia al rivale, è nel dolce ritratto di donna infelice che gira negli Stati Uniti con Joan Fontaine e Louis Jourdan (Lettera da una sconosciuta, 1948), un ricamo di flashback più morbido di quello di La signora di tutti, e in quell'ultimo omaggio a un'altra «signora di tutti» che era stata la ballerina cui si dovettero clamorosi scandali nell'Ottocento e che Martine Carol cerca malamente di far rivivere in un film ridondante, follemente sternberghiano, solcato da movimenti di macchina vertiginosi e occultato da trine, tende e grate; il tutto valorizzato dal colore usato per la prima volta (Lola Montez). Un film che i produttori massacrarono mentre il regista moriva.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995