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Rassegna stampa di Marlon Brando

Marlon Brando è un attore statunitense, regista, è nato il 2 aprile 1924 ad Omaha, Nebraska (USA) ed è morto il 2 luglio 2004 all'età di 80 anni a Los Angeles, California (USA).

DANIELA AZZOLA
MYmovies.it

È tornato Marlon. Il fatto è importante. è tornato davvero, non in un «cameo» da un milione di dollari al minuto. È un «quasi» protagonista di The Score, accanto a Robert De Niro e all'emergente Edward Norton. Marlon Brando nel cinema ha rappresentato moltissimo, anzi, tutto, anzi, ancora di più. Brando è (non voglio ricorrere all'abusata, e sgradevole definizione «animale da...») la formula chimica certamente più funzionale al cinema: sta al cinema come l'ossigeno sta all'acqua. Anche il termine «leggenda» gli va stretto: Brando è un morto sempre resuscitato, è la roccia sulla roccia in quello spot visto tante volte. Nei decenni ha «costretto» i giovani a portare i capelli come lui, a indossare il «chiodo», a guidare la moto come lui. Nei film, e sul set, faceva impazzire tutti. Era geniale, viziato e mortalmente scomodo. In Giulio Cesare nel ruolo di Antonio, del tutto a digiuno di Shakespeare, surclassò John Gielgud, massimo specialista inglese. A Tahiti, sul set del Bounty conobbe la bella Tarita e lasciò la produzione per un anno. Danni per miliardi. Ebbene: attesero che tornasse. Gillo Pontecorvo lo diresse in Queimada e ne uscì distrutto. Bertolucci, in Ultimo tango, per salvarsi dovette lasciargli fare tutto quello che voleva e... ci guadagnò. In quel film Marlon dava un'immagine così efficace di una crisi, che per emulazione ci furono persino dei tentativi di suicidio dei quarantenni. Non solo: a Parigi nacque un club per sole donne dove le signore si lasciavano andare a tutte le fantasie davanti a un'immagine del divo. Dopo la solita, fisiologica, eclissi eccolo rivincere l'Oscar nel ruolo del Padrino Corleone. Naturalmente ci mise del suo: a ritirarlo mandò un'indiana. Altra eclissi. «Stavolta - disse l'ambiente e disse il mondo - è proprio finito». Eccolo invece resuscitare di nuovo nel ruolo di Curz, l'orrendo colonnello di Apocalypse Now. Siamo agli anni Ottanta. Da qui cominciano i camei e si ripropone la decadenza. E poi la vita privata è un disastro: disordine, violenze, persino un omicidio in famiglia. Ennesima «morte». Rieccolo, inaspettatamente in un film da (quasi) protagonista Don Juan De Marco. è la spalla di Johnny Depp, e sembra ormai un effetto speciale di 160 chili. Potrà mai rimettersi insieme? Adesso ha 77 anni e... rieccol

ALBERTO CRESPI
L'Unità

Il motivo dell'importanza di Brando è semplice: ha preso d´assalto Hollywood in un momento in cui Hollywood era in crisi e aveva bisogno di lui, e di quelli come lui. A differenza dei divi dell'età dell'oro (i Gable, i Wayne, i Cooper), Brando non nasceva con il cinema: nel ´50, quando interpretò Uomini per la regia di Fred Zinnemann, aveva già un notevole curriculum teatrale ed era il campionissimo del Metodo, la tecnica di recitazione codificata da Stanislavskij e importata in America dall'Actors'Studio di Lee Strasberg. In teatro era già un dio: si «abbassò» al cinema perché al cinema gli dei sono molto più pagati e raggiungono un numero infinitamente maggiore di fedeli.
Solo che lui, e quelli della sua generazione (i Clift, i Newman, i Dean) erano diversi dalle star di una volta: figli della Depressione (Marlon era nato a Omaha, Nebraska, il 3 aprile del 1924), cresciuti nell´America inquieta degli anni ´30, passati giovanissimi nel vortice della guerra, baciati giovani dall'euforia e dalle nuove libertà del dopoguerra, erano ragazzi indipendenti e volitivi. Non si sarebbero prestati al gioco degli studios, non si sarebbero fatti programmare la carriera da qualcuno: avrebbero fatto ciò che volevano, come volevano.
Con Marlon Brando l'attore, a Hollywood, prende il potere. Basta con le estenuanti gavette in ruoli di contorno, basta con i pericolosi lavori da stunt-man, basta con i film fatti in catena di montaggio (anche uno al mese). Comincia l´epoca dei divi che ottengono ruoli da protagonista all´esordio, si fanno strapagare e girano uno-due film all´anno, preparandoli con il tempo e la cura prima riservati ai registi.

IRENE BIGNARDI
La Repubblica

Sono tutti d'accordo, o quasi. Marlon Brando è stato il più grande, il più straordinario, il più bello. E adesso che il più grande e il più bello, chiuso nella sua casa di Los Angeles, compie la venerabile età di ottant’anni, adesso che lui e gli altri tirano i conti della sua vita, quei conti ci dicono che è stato anche il più tragico e il più infelice, di quella infelicità che nasce da un incontro malato tra la fortuna, il successo e il senso di inadeguatezza a quella stessa fortuna che ti ha nutrito la vita, la fama, la carriera.
Compie ottant’anni sui detriti della propria vita e della propria carriera, su un percorso fortunato e leggendario che è finito nella tragedia e nella distruzione - per arroganza, bisogno di denaro, incuranza - di un mito professionale. La fortuna di Marlon Brando è nata nel corso di una singola notte, quella del 3 dicembre 1947, quando il bel ragazzo dell'Illinois, ventitre anni, ribelle a ogni disciplina, compresa quella militare, approdato a New York per fare l'attore, comparve sul palcoscenico dell'Ethel Barrymore Theatre.

FABIO FERZETTI
Il Messaggero

E’stato l’attore più grande di tutti ed insieme il più imprevedibile e contraddittorio, pronto a buttarsi via in ruoli assurdi o in film senza storia pur di dare un calcio al cinema, che finì per detestare, e alla propria leggenda. Il massimo del divismo ma anche l’inventore dell’antidivismo, esercitato fino all’estremo limite dell’autodistruttività. Il sex-symbol più incandescente che abbia mai impressionato una pellicola e insieme il più ambiguo, il più “totale”, il primo ad esibire una sensualità così prepotente e assolutamente naturale da scavalcare d’un balzo ogni distinzione di genere (con molto anticipo sulle tante future rockstar che avrebbero fatto di una banale bisessualità la loro bandiera). Non si finiscono mai di fare i conti con Marlon Brando e il primo a non saperli fare forse fu proprio lui. Così dotato di tutto - talento, bellezza, magnetismo, intuito, sensibilità - da riversare in ogni ruolo, anche il più occasionale, i segni di un silenzioso corpo a corpo con se stesso. Con la sua memoria, i suoi fantasmi, il peso di un mito non solo cinematografico e generazionale ma culturale, perché nessun attore dopo di lui ebbe maggior peso e carisma. Anche i capolavori sono concentrati nei primi 10-15 anni, per poi diradarsi in rare impennate ( Il Padrino, Ultimo tango a Parigi) o magari in titanici ruoli da non protagonista come il Kurtz di Apocalypse now (ma qui torna in mente Orson Welles: non importa quanto tempo stai in scena, importa come entri in scena e da quanto tempo ti aspettano). Il primo a capire il suo genio fu Elia Kazan, che lo volle a teatro e poi al cinema nel ruolo del brutale Kowalski in Un tram che si chiama desiderio. Il personaggio e la commedia di Tennessee Williams oggi possono sembrare datati, ma la performance di Brando non ha preso una ruga. Un concentrato di estrema sofisticazione unito ad una crudeltà quasi animale, una scienza infinita dei tempi e dei toni (chi lo ha sempre sentito doppiato non sa nulla del suo celebre e inconfondibile mumbling ), e un’aggressività che sa di istinto e di magnetismo naturale. Avesse fatto solo quel film sarebbe entrato nella storia. Invece Brando ne girò molti altri, e ogni volta sentiva il bisogno di superarsi, di provare a se stesso e al mondo che poteva fare ben altro. Di qui il gusto per i trucchi esasperati, per i personaggi lontani in cui mettere alla prova il celebre Metodo dell’Actors’Studio (il rivoluzionario messicano di Viva Zapata , l’immigrato polacco di Fronte del porto , il giapponese de La casa da tè alla luna d’ag osto, ma volendo anche il don Vito Corleone del Padrino appartiene a questi ruoli). Con qualche predilezione, accentuatasi con l’età, per i personaggi alle prese con il potere, dal Napoleone di Désirée al maggiore texano e razzista di Sayonara ; dallo sceriffo de La caccia , altro grande film, all’ambiguo avventuriero di Queimada . Senza dimenticare l’ufficiale criptogay di Riflessi in un occhio d’oro e l’affettato ribelle degli Ammutinati del Bounty , che fu anche il vero e rovinoso banco di prova del suo strapotere contrattuale. Naturalmente una parabola come quella di Marlon Brando autorizza ogni interpretazione e nulla vieta di leggere l’insieme dei suoi film come una sorta di autobiografia mascherata, ovvero di vedere nella scelta talvolta men che discutibile dei ruoli un modo come un altro per confessarsi in pubblico, per nascondere qualcosa di sé anche nelle occasioni più insignificanti. Ma in questo senso il capolavoro del Brando moderno è e rimane il soccombente cui diede vita nel film che più avrebbe odiato, Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Mai forse un regista si era spinto più in là nel rubare anima e cuore ad un suo attore. Mai interprete e che interprete si era messo più pericolosamente a repentaglio. Una vera prova di coraggio. E, magari suo malgrado, un atto di fede in quel cinema che tanto gli aveva dato e tanto gli aveva tolto.

MELANIA G. MAZZUCCO
Il Messaggero

Lo voglio ricordare così: una testa rasata, imponente e sinistra, che appare e scompare tra i fotogrammi, catturata dalla cinepresa visionaria e delirante di Coppola. Un cranio lucido del sudore dei tropici, imprigionato nel delirio sanguinario di una guerra coloniale. Il bagliore magnetico del suo sguardo che sembra trafiggere lo schermo - e, al di là del buio della sala, raggiungerci ovunque siamo. Nel film, noi stiamo cercando lui: ma, in realtà, è lui che sta cercando noi. E ci inchioda alla nostra delusione, alla nostra febbre. Non c’è mai stato nessuno - né mai forse ci sarà - divinamente bello come Marlon Brando e altrettanto divinamente indifferente alla sua bellezza. Mai nessuno dotato di maggior talento e altrettanto sprezzante nei confronti del successo che l'industria cinematografica - di cui pure imparò a sfruttare il potere e il denaro - poteva regalargli. L’attore geniale e virtuosistico capace di essere, con uguale credibilità, Gesù Cristo sul palcoscenico di un teatro d’avanguardia di New York e il reduce di guerra condannato a vita alla sedia a rotelle in Uomini di Fred Zinnemann, il rivoluzionario Emiliano Zapata e l'erotico Marco Antonio di Mankiewicz, l'impotente maggiore Penderton e don Vito Corleone, ci ha offerto la sua sconfitta professionale. Pochi divi del suo valore hanno interpretato fiaschi altrettanto colossali o film altrettanto insulsi come Brando, che sembrava scegliere, e inseguire caparbiamente, i progetti più sbagliati. Alcuni lo ricordano ancora con dolore nei panni di un improbabile Napoleone o travestito da giapponese, in kimono, nella Casa da tè alla luna d'agosto. Ma c'è di più. La bellezza che aveva fatto di lui un'icona (chi non ricorda i jeans e la canottiera del brutale e volgare Stanley Kowalski del Tram, o la giacca di pelle del Selvaggio teppista Johnny o i muscoli del portuale e pugile fallito Terry Malloy di Fronte del porto) Marlon Brando deve averla detestata, poiché metteva in ombra ciò che doveva sembrargli più importante: il lavoro, l'applicazione, le idee (e ne aveva, e le ha difese fino in fondo, o finché ne ha avuto voglia). E’risaputo che Brando detestava Kowalski, il personaggio che lo aveva reso celebre. E contro quella bellezza si è accanito, con ironia distruttrice. Niente trucchi né ritocchi. Il tempo è senza rimedio. L’uomo bello come un dio antico - il dio dei nostri giorni, che lo schermo rende immortale, eternamente giovane - ci ha inflitto la sua decadenza fisica, le rughe, l’adipe, la stazza sempre più mostruosa. Marlon Brando ha voluto essere un uomo, e la lezione che ci lascia è quella della sua - e nostra - desolante mortalità. E allora lo voglio ricordare nel suo film più memorabile, quello nel quale è, in effetti, letteralmente invisibile - un’assenza, un nome, un desiderio. Mister Kurtz. Per tutto il film - sto parlando di Apocalypse now - sentiamo parlare di lui, dobbiamo raggiungerlo, col protagonista Martin Sheen attraversiamo l'orrore della guerra, la distruzione del villaggio vietnamita, le piantagioni, risaliamo il fiume tra gli spari e le insidie. Ma lui, Marlon Brando, risulta irraggiungibile. E quando alla fine appare, in realtà ci sfugge, ci elude, ci irride. Di lui vediamo solo la testa lucida, il cranio che è già leggenda, e allude alla morte che lo aspetta. Da quella foresta in cui si è perduto, non lo riporterà indietro Martin Sheen, perché lui - questo ci è chiaro appena nel film Brando ci appare, o meglio non appare - non fa più parte del nostro mondo. Ci ha lasciato. Il suo nome, e il desiderio di ritrovarlo, sono tutto ciò che resta. Il suo personaggio, Kurtz, era una metafora della guerra, dell’occidente, di noi - ma anche di lui stesso. Così, nel film, Marlon Brando ha lasciato la sua assenza. Sullo schermo, solo l’ombra del suo corpo meraviglioso, divino e così dolorosamente umano - ormai inaccessibile.

RITA SALA
Il Messaggero

Tenebroso, animalesco, magnetico, ribelle. Altro non poteva desiderare, nel mondo degli aggettivi, Marlon Brando, soprattutto pensando alla sua innata vocazione teatrale. Innata perché la madre fu attrice filodrammatica, dilettante talentosa, capace di instillare in un paio dei tre figli, Jocelyn e l’inquieto Marlon, la passione della scena. Innata perché sin dalle prime esperienze, fatte all’Accademia militare Shattuck di Faribault, nel Minnesota (da lui chiamata manicomio militare ), seppe innervare di sé le vene e la psicologia del ragazzo anticonformista cui nulla riusciva, fin da allora, a sembrare un Destino. Prima di arrivare in alto, però, fino al talent-scout per eccellenza, il regista di origine greca Elia Kazan, Marlon sarebbe passato per la voglia matta di farsi prete, per il desiderio di incenerire l’adorata madre, purtroppo alcolizzata, per l’aspirazione ad affrancarsi dalla timidezza di cui solo un’eccellente insegnante di teatro, Stella Addler, lo avrebbe liberato. Alla fine, si allogò in casa della sorella Frances, sposata a New York, e riuscì a frequentare il Dramatic Work Shop della New School for Social Research, diretto dal grande regista Erwine Piscator. Si fece subito notare, Marlon. I critici scrissero bene di lui nella Dodicesima notte di William Shakespeare e non smisero di elogiarlo in lavori successivi, diretti dallo stesso Piscator, nei quali interpretò anche difficili ruoli di animale o di creatura fantastica. Così arrivò Broadway, in grande stile. Ebbe, per Brando il volto di una commedia “scandalosa”, I remember Mama , di Kathrin Forbes, capace di rivelare l’infermità, le nevrosi, la violenza implicita del giovane bellissimo attore. Eternamente diviso fra malattia, eccessivo pudore, sfacciataggine estrema e lo spiccato puritanesimo che mai abbandonò in tutta la sua vita, Brando saliva la scala della gloria, gradino dopo gradino. E tutto deflagrò, come un fuoco d’artificio, con la pièce Un tram che si chiama desiderio , di Tennessee Williams. Era il 1947. La commedia del sudista Tennessee, dove Marlon ha lasciato un segno indelebile nel ruolo di Kowalsky, sembrava fatta apposta per lui. Che mandava in bestia le attrici per la malagrazia alternata a seduzione con la quale le trattava. Che parlava con il corpo, fulminava con lo sguardo, autorizzava in silenzio ogni trasgressione semplicemente con un movimento delle spalle. Che guardava con attrazione mista a disprezzo ogni bella creatura attorno a lui. Che si dibatteva, esprimendosi con una fragile voce d’inferno, tra fede e peccato, perfetto discepolo del Metodo, cultore della battuta pronunciata dopo il gesto e viceversa. Da allora in poi fu l’Invidia del cinema, la cupidigia del set nei confronti del torvo attore destinato a Fronte del porto , ancora una volta nel segno di Kazan. Tanto che Brando, nel 1950, si lasciò adescare da Stanley Kramer, con un’offerta di quarantamila dollari, per interpretare Uomini . «Non ho la forza morale - dichiarò - per dire di no di fronte a una somma del genere. Sono stato povero». Fu la sua giustificazione per quella prima incursione nel mondo della celluloide. Assicurò tutti, comunque, che il cambiamento sarebbe stato una situazione temporanea. Avrebbe fatto il cinema soltanto occasionalmente, perché il suo futuro e la sua vita profonda erano comunque nel teatro. A Broadway disse solo arrivederci. Non sapeva e nemmeno immaginava che il distacco sarebbe stato lungo, anzi lunghissimo. Una vera espropriazione. Si lesse su un giornale il seguente titolo: “Marlon del cinema”. Una sentenza.

DIEGO GABUTTI
Il Tempo

Ma alcune di queste, tre in particolare, hanno cancellato il confine che separa il cinema dal costume e la fiction dalla realtà. C'è l'ex pugile in canottiera di Fronte del porto, il film d'Elia Kazan, che cova un suo segreto dolore da Actor's Studio e intanto alleva piccioni sui tetti di New York, un palmo sotto il cielo azzurro. C'è il capo della ghenga dei motociclisti che s'allunga mollemente, in costume sadomaso, sul bancone del bar ne Il selvaggio di Laszlo Benedek. E c'è poi la maschera dolente, smagata e machiavellica di don Vito Corleone, il boss della mafia di cui tutti vorrebbero essere picciotti, nel primo Padrino di Francis Ford Coppola. In ciascuna di queste locandine, ormai appassite e quasi consumate dal tempo, campeggia la maschera di cera di Marlon Brando, morto ieri a ottant'anni, dopo aver sollevato la bandiera dell'iperrealismo, della rivoluzione sessuale e delle grandi parabole sulla natura del potere negli studios di cartapesta hollywoodiani. Prima di lui quelle del cinema erano tempeste in un bicchier d'acqua. Grazie a lui e al suo cinema venne giù finalmente un vero diluvio. Al cinema propriamente detto, in realtà, Marlon Brando era morto già da molto tempo. Era un pezzo della storia del cinema ma non era più uno dei suoi protagonisti. Si dice che a tarpargli le ali siano state le sue quotazioni astronomiche. Costava troppo perché gli studios potessero permettersi qualcosa di più d'un "cammeo" di Marlon Brando. In realtà alla star di Bulli e pupi, della Casa da tè alla luna d'agosto e di Giulio Cesare doveva importare assai poco del cinema e, senza drammatizzare troppo, anche della propria reputazione cinematografica. Nessuna leggenda cinematografica, del resto, nemmeno la sua, esce incolume da film insensati e pomposi come Ultimo tango a Parigi, per citare solo uno degl'innumerevoli passi falsi in cui inciampò, verso la fine degli anni d'oro, per il colore dei soldi e, soprattutto, per indifferenza e disprezzo del cinema. Ma intanto il cinema moderno, senza di lui, sarebbe del tutto inimmaginabile. Fu lui a lanciare "il metodo" dell'Actor's Studio nella grande giostra hollywoodiana. Fu il primo degli attori a tinte forti, esagerati, sempre caricati come molle, che recitavano tutti nello stesso modo, a spallate e gomitate, e che uno dopo l'altro mimarono sulla scena il dottor Freud e i suoi complessi, le sue isterie, i padri da rinnegare, le mamme da invocare. Paul Newman, che all'inizio era soltanto la sua caricatura, col tempo diventò praticamente il suo sosia: stesse mossettine, stesse smanie, stessi sguardi liquidi e languorosi rivolti alla telecamera, stesso sentimentalismo dolciastro e aggressivo. Ma si vedeva benissimo che Paul Newman stava soltanto recitando una parte. Marlon Brando invece sembrava vero. Anzi più vero del vero. Soltanto uno dei suoi emuli, James Dean, seppe catapultarsi fuori dallo schermo e unirsi con un triplo salto mortale, come lui, alla platea vivente. Ma Brando l'aveva preceduto. Aveva camminato sull'acqua e radunato discepoli molto prima di lui. A volte grasso, a volte magro, un giorno bellissimo, un altro giorno mostruoso e repellente, Marlon Brando non è stato un attore ma un'icona. Non era un divo del cinema, come ce ne sono tanti, generalmente tutti eguali, ma una bandiera culturale e controculturale, come ce ne sono state poche, e raramente convocate alla cerimonia degli Oscar. Marlon Brando era "one of us", uno di noi, ma potenziato e con l'aureola. Era "umano e troppo umano" come l'Übermensch di Nietzsche. In Fronte del porto non si limitò a recitare le battute dell'ex pugile generoso e gentile. Incarnò le idee platoniche stesse della gentilezza e della generosità. Così ne Il selvaggio: con dieci anni d'anticipo sulle grandi manovre degli eserciti di liberazione esistenziale si trasformò nel monumento a cavallo (a cavallo, per la precisione, di un'Harley Davidson) degli anni Sessanta. Idem nel Padrino e più tardi in Apocalypse now: mai il nichilismo del Novecento ebbe una rappresentazione più esatta e più agghiacciante. Da Il Tempo, 3 luglio 2004

MARIUCCIA CIOTTA
Il Manifesto

Marlon Brando, il corpo del cinema, il segno della sua tragedia, quella del desiderio di essere realtà, anima della Storia e restare imprigionato nello schermo, ingranaggio della macchina, semplicemente divo. «Avrei voluto fare soltanto film con un alto contenuto sociale e in relazione alle lotte che ho intrapreso» diceva, ma la sua grandezza al di là dei titoli è in quello stato di in-sofferenza, di rabbia contenuta che sprigiona in ogni personaggio. Sempre fuori da sé, oltre i contorni dell'uomo che incantò gli anni Cinquanta, inafferrabile perché in transito tra i sessi, languido macho che provocava il fanatismo come Rodolfo Valentino, quando apparve nel 1952 con la famosa canottiera in Il tram chiamato desiderio, che segna il punto alto del sodalizio con Elia Kazan. Anche nell'andare via Marlon Brando ci ha lasciato incerti - non era la prima volta che arrivano «voci» sulla sua scomparsa - e forse si è fermato a metà del cammino, mortale e immortale. Ieri, a confermare la notizia è stato il suo avvocato da Los Angeles, e il buio è sceso sullo schermo di tutto il mondo. Aveva 80 anni. Era malato e da anni se ne stava recluso nella casa sulle colline di Los Angeles, dove accoglieva ogni tanto qualche caro amico come Bernardo Bertolucci, che aveva rilanciato il suo mito con Ultimo tango a Parigi. Era nato il 3 aprile 1924 a Omaha, Nebraska, figlio di un commerciante e dell'attrice Dorothy Pennebaker.

ROBERTO SILVESTRI
Il Manifesto

Apparve all'inizio degli anni 50 una forza della natura, Marlon Brando. Un grande attore teatrale moderno in gigantografia schermica? No. Molto di più. Al di del Metodo, al di là degli opposti estremismi emotivi che maneggiava già come Pina Baush, con non chalance: la fragilità maschile e la forza imperiale femminile. La bellezza è il talento in più del cinema contemporaneo, Johnny Depp forse ne è l'erede (in The brave forse assistiamo al passaggio del testimone). Una bellezza impossibile da contenere nemmeno nel cinemascope, che avrebbe cambiato o finito la storia del cinema, a braccetto con Marilyn Monroe, spazzando via per sempre il «divismo vestito» e puritano, come, 30 anni prima, era successo con l'effimera meteora Rodolfo Valentino. E al di là dei film che ha fatto, che in fondo gli stanno tutti un po'stretti, a parte Fronte del porto, Ultimo tango, Un tram chiamato desiderio, Apocalypse now. Ricordiamo le acidità rivolte a Kazan in occasione dell'Oscar alla carriera. In fondo era sempre risentito quando recitava. Ma aveva decine di figli da mantenere. Però voleva mettere gli americani davanti allo specchio e farli atterrire di ciò che vedevano. Un po'quel che oggi fa Michael Moore. Le tenebre dentro di noi. L'orrore per il vuoto, per la fine della civiltà umana. «The end». Jim Morrison... Hollywood, all'inizio degli anni 50, stava cambiando pelle, lo studio system lanciava le produzioni indipendenti per rigenerarsi, nelle forme e nei temi, si sbarazzava del vecchio divismo costoso e non più redditizio, scosso nell'intimo dal neorealismo italiano e da quello tv delle inchieste sulla delinquenza giovanile e sulla rivoluzione del rock. Mgm e Wb investivano su corpi diversi di giovani rabbiosi e psicotici, su isterici e nevrotici, dall'erotismo inedito, statue poliritmiche e inebrianti, sudate e non più asettiche, capaci di compiere missioni psicofisiche impossibili. Lui, James Dean, Montgomery Cliff, Steve McQueen, Paul Newman...

GIULIA D'AGNOLO VALLAN
Il Manifesto

«Il Don è morto» proclamava il comunicato straordinario di Variety dopo che la notizia della morte di Marlon Brando era stata confermata dall'avvocato dell'attore. Mezz'ora prima, sulla Cnn, la trasmissione di un discorso di George Bush sull'economia veniva interrotta in nome della scomparsa di Brando. In attesa di necrologi più completi e elaborati, lo stesso lancio della Associated Press appariva sui siti dei grandi quotidiani - Los Angeles Times, New York Times... - e della Cnn. In televisione, intanto, sulle reti via cavo all news, critici convocati all'istante improvvisavano commenti poco originali e, dalle regie, si mandavano e rimandavano le immagini di Stanley Kowalski che chiama incessantemente Stella si piedi delle scale, in Un tram chiamato desiderio («A Streetcar Named Desire»), e di Vito Corelone che dispensa favori in un salotto tutto ombre mentre sua figlia Connie si sta sposando lì fuori, nel giardino pieno di sole. «Il più grande attore della sua generazione», «il talento che ha rivoluzionato la recitazione americana», «un uomo egualmente affascinante sullo schermo e fuori dallo schermo»... La magnifica, mai malevola, ironia che, specialmente negli ultimi anni, era così radicata nello sguardo di Marlon Brando avrebbe apprezzato come in tutto il coverage deferente organizzato in fretta alla notizia della sua morte, trasparisse un'emozione comune, una sorta di assoluta incredulità. Si trattava di un'incredulità visibilissima nello sguardo dei presentatori di telegiornali costretti a leggere in fretta i riassunti della sua biografia. Perché, in tempi di conformismo e consenso assoluti come quelli che stiamo attraversando, Brando rappresenta l'alterità totale di un marziano. Uno degli ultimissimi rimasti a Hollywood. Chi mai oggi mostrerebbe un disinteresse così radicale per le regole del gioco? Chi, invece di andare a ritirare il suo Oscar ci manderebbe una ragazza indiana a leggere un manifesto sui diritti dei nativi d'America come fece Brando nel 1973? Chi abuserebbe a forza di cibo un corpo e un volto cosi belli e, soprattutto, così preziosi?

SILVANA SILVESTRI
Il Manifesto

Il Mediterraneo stava per accogliere ancora una volta Marlon Brando a Tunisi, nel film che Ridha Behi, il regista tunisino di Le Soleil des hyènes, che ama lavorare con attori internazionali, che ha diretto Ben Gazzarra più di una volta, Patrick Bruel e Julie Christie (Champagne Amer), e stava per iniziare Brando and Brando, coproduzione franco anglo tunisina. «Fate presto» lo aveva esortato Brando, quasi sentisse di non avere più molto tempo. A Tunisi ancora la notizia non è arrivata, quando cerchiamo di raggiungerlo, lo stupore coglie il fratello di Behi, scenografo, una notizia da togliere il fiato, poiché tutto è pronto per le riprese «Era contento di questo film, voleva farlo e poi ritirarsi sulla sua isola». Due settimane di riprese a Los Angeles e poi in Tunisia. Raggiungiamo al telefono Ridha Behi che si trova a Londra per risolvere alcuni dettagli, con in tasca già il biglietto dell'aereo. Parla con il dolore nella voce, ma ci dice ugualmente dei suoi incontri con l'attore e di quello che sarebbe stato il suo ultimo film: «Racconta la storia di un giovane tunisino e della sua voglia di andare in America e di come il suo sogno americano si infrange, arrivando a toccare le conseguenze della politica di Bush. Il film è stato scritto insieme a Brando, lui lo considerava un proseguimento del suo impegno politico, è un film che rende omaggio a tutte le lotte che ha sostenuto: gli arabi e i musulmani sono i nuovi indiani del mondo. Una troupe americana arriva in Tunisia e trova un ragazzo che sembra proprio Brando, gli dicono. Lo utilizzano, lo illudono e poi partono lasciando il villaggio in uno stato disastroso, ma non finisce qui, perché il ragazzo si trova seguito dall'Fbi. Infine lui comprende che l'America è diversa da come l'aveva sognata». Sì, il film sarà fatto lo stesso, «Brando appartiene a tutti noi», ci dice. Prima di parlare con Ridha Behi, e sentire attraverso il tono basso della sua voce addolorata tutto il peso di una drammatica vicenda vissuta, pensavamo con un certo distacco critico storico a quanto Brando ha significato per tutta la generazione del dopoguerra, quella del sogno americano, di come negli anni cinquanta fosse servito alla moderna definizione del concetto stesso di «gioventù». La gioventù bruciata, si diceva allora, con i giubbotti di pelle e le moto potenti, con le lattine di birra e l'aria minacciosa. La sua voce, velocemente cambiata dal mondo del doppiaggio italiano (Giuseppe Rinaldi) con toni profondi da maschio latino, nascondeva le tonalità da nevrosi da ragazzo di Omaha, Nebraska.

VALERIO CAPRARA
Il Mattino

Una luce radiosa: il carisma. Poi mille chiaroscuri che scandiscono la vita e la carriera del più divino tra i divini di Hollywod. Infine, un cinereo, cupo finale che avvolge declino, autoesilio e morte dell’uomo che volle farsi attore. Tra il diluvio di parole e il magma d’emozioni che accompagnano l’ora dell’addio sui media del mondo, sceglieremmo la più semplice delle epigrafi: Marlon Brando, morto giovedì a Los Angeles, è riuscito davvero (e a sue spese) a incarnare l’illusione e la magia della finzione nel pathos di un corpo esuberante e di un’anima tormentosa. Se ha ancora senso parlare di un cinema «bigger than life», più grande della vita, bisogna per forza tornare all’ossessivo massimalismo che ha segnato le sue applicazioni e le sue apparizioni e ha procurato lo storico dissolvimento della «schizofrenia scenica» tra il sembrare e l’essere, il recitare e il reagire, l’eseguire e il creare. Emerso dalle tenebre di un dramma esistenziale, di una piaga psicologica e di una sensualità animalesca, Brando si è tanto identificato con i propri straordinari personaggi da trasfigurarli per sempre in quel misterioso riflesso, quell’impalpabile scambio che lo schermo opera a contatto dei suoi milioni di spettatori perfino attraverso le generazioni. Nato nel 1924 a Omaha, quando il cinema da poco s’era svincolato dal destino di fenomeno da baraccone, Brando cerca invano di disciplinare la nevrotica e introversa personalità iscrivendosi all’Accademia militare. Molto più congeniale, ma non meno impegnativa risulta l’adesione ai corsi della Scuola d’arte drammatica di New York e al magistero di Kazan e Strasberg presso il rivoluzionario Actors’Studio. L’esordio del ’47 in Un tram che si chiama desiderio potrebbe inchiodarlo a una tecnica e a una mimica esasperate in cui fa già capolino la maniera: eppure i critici dell’epoca percepiscono subito che la fisicità allarmante del giovane protagonista supera di prepotenza il canone della scuola. La forza comunicativa dell’attore, l’originalità delle sue espressioni ombrose, i «cattivi pensieri» che suscita nell’immaginario erotico ancora represso del pubblico, conferiscono al passaggio sullo schermo una qualità che coincide, per così dire, spontaneamente, con la mitografia. La quale, secondo noi anche in ragione di un percorso biografico disseminato di scandali e amori, genialità e sregolatezze, slanci democratici e progressisti e ascese superpagate nell’empireo del box-office, tocca i suoi vertici negli anni Cinquanta e nei Settanta: quando, cioè, i due premi Oscar sottolineano i primi e gli ultimi fuochi della filmografia. Quasi tutti i titoli della prima decade tramandano l’acme dell’inimitabile mistura di aggressività e tenerezza: dai torbidi inappagamenti di Il mio corpo ti appartiene al revanscismo patetico di Uomini; dallo spavaldo machismo del film Un tram che si chiama desiderio all’ambiguo militantismo di Viva Zapata!; dall’aulica maestosità di Giulio Cesare all’insolenza teppistica e sexy de Il selvaggio, dal sarcasmo coreografico di Bulli e pupe al poetico autolesionismo de I giovani leoni, uno dei film finti e quindi più spietati sull’implosione dell’etica nazista. Ma proprio in Fronte del porto, con cui vince la statuetta, raggiunge la perfezione: nella sua lotta per l’amore e la giustizia, da don Chisciotte dei tetti di New York, Brando diventa l’icona di un anticonformismo morale e di un ribellismo costituzionale che travalicano le angustie delle ideologie salvifiche. Nel corso dei Sessanta, al contrario, Brando è all’altezza della sua fama più sporadicamente: non convince l’unica prova da regista (I due volti della vendetta) e la grande versatilità non sempre verifica le intenzioni di spesso ottimi registi. In La caccia è una presenza inquietante che non si tramuta in carattere; in Riflessi in un occhio d’oro lavora bene sulle sfumature di un personaggio concepito e scritto secondo psicologismi un po’facili; in Gli Ammutinati del Bounty è finalmente tragico come vuole la logica dell’avventura per l’avventura; in La contessa di Hong Kong duetta con insolita civetteria con Sofia Loren, dimostrando soprattutto a se stesso di reggersi in equilibrio sulla delicata corda della commedia; in Queimada si trova a disagio dovendo mimare le stimmate di un americano come lo vedono gli anti-americani del cinema d’autore europeo. La grande svolta arriva quando pochi ancora se l’aspettano: prima di dedicarsi ai super-cammei molto concisi, molto costosi, molto autoiroici che eseguirà per il successo dei fantasmagorici Superman e compagnia, vince l’Oscar con Il Padrino e meriterebbe di stravincerlo per Ultimo tango a Parigi e Apocalypse Now. Sembrerebbero ruoli molto distanti tra loro, addirittura occasionali e incongrui: ma, a ben vedere, un filo rosso lega la cavernosa onniscienza del mafioso, l’iperattivismo sessuale del maturo amante parigino e la ieratica ritualità del profeta annidato nel cuore della jungla vietnamita. L’inclinazione al gesto mortifero dei reietti della società e il suicidio simbolico dei detentori dell’antica saggezza che coincide con il potere trovano nell’incedere monumentale e negli sguardi ancora più disperati, ancora più teneri del divo, la definitiva metafora cinematografica del tramonto dell’Occidente. La «verità» artistica di Brando non sta nelle scadenti biografie non autorizzate, bensì nei film che ne rivelano la lacerante autosufficienza. Per il pubblico e la peculiare cultura che ha espresso e continua a esprimere il cinema, una miniera che non potrà mai esaurirsi.

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Marlon Brando era bellissimo nel 1951 nel suo secondo film, Un tram che si chiama Desiderio, che Elia Kazan aveva tratto dal testo teatrale di Tennessee Williams: i lineamenti perfetti da statua classica, le labbra gonfie, il leggero strabismo, la fronte convessa, le spalle e il petto molto più muscolosi di quanto usasse all’epoca per gli attori, gli occhi vellutati, un tocco esotico dato dalle origini francesi del padre, il cui cognome era Brandeau. Era giovane. Era bravissimo, il primo attore del metodo Stanislavski, il primo allievo di Stella Adler e dell’Actor’s Studio, il primo a diventare una star del cinema. Era molto sexy, anzi bi-sexy, amato da uomini e donne per il forte, intenso fascino sessuale, che non era certo frequente tra i legnosi divi americani. Era ribelle, cattivo, emblema di personaggi rivoltosi. Folgorò gli Anni Cinquanta e soggiogò per sempre il cinema. Come avrebbe potuto non essere adorato, soprattutto dai giovani? Nel periodo iniziale di costruzione della sua grande bravura e fama d’attore, gli elementi che caratterizzarono Marlon Brando furono tre: bellezza, Actor’s Studio, danza. Prima ancora di studiare recitazione, aveva frequentato a New York corsi di danza con Katharina Dunhard: questo aveva dato al suo modo di muoversi qualcosa di leggero e flessuoso che, sommandosi alla forza fisica, rappresentava una caratteristica speciale. L’incontro con l’Actor’s Studio e con il regista Elia Kazan (che lo diresse poi anche in Fronte del porto) fu fondamentale, suggerì agli spettatori le più diverse reazioni (allarme, timore, trasporto) e identificazioni comportamentali (aggressività, freddezza, virilità, rabbia). I suoi grandi successi, il vertice della sua bravura e popolarità, appartengono soprattutto agli Anni Cinquanta: Il tram che si chiama Desiderio, Il selvaggio, Fronte del porto, Bulli e pupe, Giulio Cesare, I giovani leoni, Pelle di serpente. Più tardi vennero Il padrino, Ultimo tango a Parigi, Apocalypse Now, eccetera. E’stato il condottiero, il maestro, il sacerdote di un periodo in cui il cinema rispecchiava come nessun’altra arte l’aria del tempo, esprimeva l’anima e la realtà di società desiderose di essere migliori, creava idoli quotidiani: in questa sintonia, nessuno è stato come lui. Ma anche più tardi, quando il cinema ha cominciato a perdersi nelle velleità o nel commercio senza passione, che interpretazioni memorabili: nel dramma torbido di Riflessi in un occhio d’oro di John Huston dal testo di Carson McCullers, 1967, era un maggiore dell’esercito americano innamorato di un soldato innamorato di sua moglie Liz Taylor; nel Padrino di Francis Ford Coppola dal romanzo di Mario Puzo, 1971, il suo personaggio di don Vito Corleone fu tale da creare una nuova leggenda in una carriera già leggendaria; in Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, 1973, recitava un vedovo americano alla deriva che a Parigi si innamorava di Maria Schneider con furia carnale e disperazione struggente. Marlon Brando ha quasi sempre avuto rapporti difficili con i suoi registi (per realizzare Gli Ammutinati del Bounty ci vollero due registi, Carol Reed e Lewis Milestone, e due anni e mezzo di lavorazione), era ipersensibile (per evitare il contatto delle mani altrui aveva imparato a truccarsi da solo, per rifugiarsi nel silenzio infilava i tappi di cera nelle orecchie, quando cominciava a recitare tutta la troupe doveva voltargli le spalle). Il risvolto negativo della sensibilità erano un temperamento molto instabile, ombroso, chiuso e una forte paura di sbagliare. Alla fine, del cinema gli importava davvero poco. Un mestiere da stupidi, diceva. Entri, esci, invochi urlando «Stella! Stella, amore! Stellaaa!», sali in motocicletta, smonti da cavallo, commemori Giulio Cesare, scateni la Rivoluzione messicana, rompi il Fronte del porto, frusti un’istitutrice inglese e non sai mai perché, né cosa stai facendo. A recitare sono capaci tutti, diceva: si adoperano gli attori soltanto perché sono animali ormai addomesticati, con loro non si corrono rischi di dispersiva emotività o di spontaneità costosa, non si perde tempo. Il successo, diceva, è soltanto una insicura branca del commercio: e fare il cinema significa offrire agli altri la possibilità di manipolarti, di venderti, di monetizzare la tua personalità. Civetteria. Però la sua carriera sarebbe stata da allora saltuaria, fatta di eclissi e riapparizioni, con lunghe pause di silenzio, troppi chili accumulati sul corpo, troppi guai finanziari, giudiziari, familiari. La stella luminosa di Marlon Brando s’era offuscata molto prima della sua morte: ma resta grande, grande. Da La Stampa, 3 luglio 2004

ANDREA CASALEGNO
Il Sole-24 Ore

Ieri, in un ospedale di Los Angeles, è morto Marlon Brando: non solo un grande attore, per molti il più grande, ma - la frase fatta è vera, per lui, alla lettera - un mito vivente. Ottant’anni, due Oscar (1954: Fronte del portò, 1972: Il padrino), una carriera che ha segnato la storia del cinema e il nostro immaginario, quindi la nostra vita.
Uomo colto, come ogni grande attore, che un regista colto come Gillo Pontecorvo ha giudicato ieri «il migliore con cui io abbia mai lavorato», Brando è stato più di ogni altro un attore che recitava con tutto se stesso: con la mente, con il volto ma anche e soprattutto con il corpo. La sua fisicità è stata senza pari, tanto bella negli occhi, nei muscoli, nella bocca sensuale degli anni giovanili quanto sfatta e straripante in quelli della vecchiaia.
Fu quella fisicità a farlo diventare subito un’icona dell’immaginario maschile e femminile, un modello invidiato o adorato, un oggetto del desiderio, una proiezione delle nostre fantasie: insomma, un divo. Fondendosi con una propensione all’eccesso che era dell’uomo, prima che dell’attore, e con la tecnica di recitazione caricata, nevrotica, per nulla istintiva ma tutta di cervello dell’Actor’s Studio, che dopo di lui apparirà nei tic, nelle smorfie, nell’andatura a sbalzi di James Dean, quella fisicità ha creato un interprete capace di incatenare a sé per tutta la vita lo spasmodico interesse del pubblico mondiale.

FABIO FERZETTI
Il Messaggero

Era il più grande e ora che non c’è più partono le geremiadi di rito. Era il più dotato, il più bello, il più maledetto, e adesso che se ne è andato ognuno nel vuole un pezzetto. Naturalmente è inutile chiedersi chi sarà il nuovo Brando o perché nessuno avrà più la sua aura e il suo carisma. Non ci sarà un altro Brando e che non c’è più l’America del secondo dopoguerra, non ci sarà un’altra generazione come quella di James Dean e Montgomery Clift, né un paese che dopo aver combattuto (tardi) e vinto una guerra giusta, si troverà di colpo davanti alle mille contraddizioni di casa propria. E poi è cambiata per sempre anche la fabbrica dei sogni.

Nessuno oggi ha il potere, simbolico e reale, che aveva un divo negli anni 50, perché molti e diversi sono i canali dell’industria culturale (non solo cinema ma tivù, rock, mondi virtuali). Nessuno avrà la statura di Brando perché dietro ad ogni divo oggi ci sono eserciti di strateghi che pianificano gesti, ruoli, apparizioni, interviste, fino a consumare per intero, letteralmente, la star di turno. Fino a farne un’immagine pura, senza resti, un’icona dietro cui non c’è nulla.

GIAN LUIGI RONDI

Era figlio di un’attrice, del resto, Dorothy Pennebaker, e dopo aver tentato vari mestieri, dal muratore al «liftier» in un albergo, si era iscritto a New York in una scuola di recitazione inducendo presto la sua insegnante a dichiarare: «A quel giovanotto dalle spalle da facchino ma dal cuore di bimbo, io non concedo più di un anno per diventare il migliore attore giovane di tutta Broadway».
Facile profezia. Sulle scene di New York regnava incontrastato in quel periodo Elia Kazan che, intuite, con la sua esperienza, le possibilità di Brando, gli affidò la parte selvatica e dura di Stanley Kowalski nel «Tram che si chiama desiderio» di Tennessee Williams. Un successo, con quasi mille repliche e le lodi incondizionate della critica.
Brando, però, non ne colse subito i risultati. Con i soldi guadagnati se ne andò a Parigi mescolandosi con adesione totale ai circoli esistenzialisti di Saint-Germain del Prés, che comunque non lo trattennero molto perché da Hollywood gli arrivarono presto le prime proposte per dei film. Partì per la California dicendo, con il disprezzo cinico di cui cominciava a dar prova: «Ho accettato di andare a Hollywood perché non ho ancora il coraggio morale di rifiutare il denaro che mi offrono».
Kazan, però, oltre a farlo esordire sulle scene, gli aveva anche trasmesso molti segreti di recitazione fecendogli seguire i corsi del famoso Actor’s Studio, dove allora insegnava, e se lo si rivede oggi quel primo film interpretato da Brando nel Cinquanta per la regia di Fred Zinnemann, «Uomini», vi si possono subito rilevare — nei suoi silenzi, nella sua gestualità brusca e quasi aspra e nel gioco ben dosato degli sguardi — i frutti di quella scuola e di un insegnamento che avrebbe poi guidato tutti i suoi passi successivi. Specie quando Kazan, avendo deciso di portare sullo schermo «Un tram che si chiama desiderio», tornò ad affidare a Brando la parte che aveva già recitato in teatro, affidandogliene più in là una analoga in «Viva Zapata».

NATALIA ASPESI
La Repubblica

Marlon Brando arrivò finalmente a saziare, almeno sullo schermo, il segreto masochismo femminile, negli anni del cinema per famiglie, della società perbenista e delle ragazze sacerdotesse della loro verginità; luceva di giovinezza e di brutalità, era un attore sofisticato, un uomo tormentato.
E per la prima volta forse nella storia del divismo, un corpo, uno sguardo, un broncio, una canottiera, dilagarono con lo stesso imperio nella fantasia di donne e uomini: già dal suo secondo film, Un tram chiamato desiderio: uomini e donne si innamorarono di lui, il maschio predatore e intrattabile, il sadico capace di dolcezza, l’afasico collerico: non era bello e sembrava bellissimo, pareva persino che dallo schermo in bianco e nero emanasse un suo sconvolgente odore. Sapeva far correre la fantasia nel baratro dei sesso, anche se i suoi baci non erano così penetranti e le sue carezze così ardite, non si poteva allora in un film. Eppure, finalmente, un attore, un personaggio, suggeriva alle donne la violenza bruciante dell’erotismo senza amore, faceva rabbrividire i gay per la sua ambiguità sprezzante, dava agli etero l’inquietudine della loro fisicità inespressa, che mai una maglietta sudata avrebbe reso peccaminosa. Del resto il personaggio di Kowalski l’aveva inventato uno che se ne intendeva, Tennessee Williams, che nella banalità trasgressiva di allora gli aveva messo vicino la moglie

SILVIA KRAMAR
Il Giornale

«Nessuno mi può giudicare» era solito dire Marlon Brando. «Io sarò sempre me stesso. La gente e il mondo di Hollywood non mi cambieranno, le mie disgrazie personali non mi faranno cambiare. Sono quello che sono e se anche dovessi sbattere la testa in un muro di mattoni per riuscire a rimanere fedele a me stesso, lo farei». Adesso che a ottant’anni l’attore più leggendario della vita meno che centenaria dei cinema è scomparso, Hollywood rispetta la sua volontà. Nessuno si fa avanti per vantarsi di averlo conosciuto, nessuno cerca di farsi pubblicità con questa morte improvvisa. Le televisioni americane ieri hanno annunciato la sua scomparsa senza le solite «teste parlanti» disposte a descrivere un uomo che, forse, nessuno veramente ha mai conosciuto.

MAURIZIO CABONA
Il Giornale

Ossessionato dalla sua privacy, il grande attore ha girato il suo ultimo film The score nel 2001. Sin dall’anno scorso aveva confidato agli amici di vedere ormai la morte come una liberazione, in una recente intervista a un settimanale americano aveva detto: «Ho cercato di essere un buon padre».
Non sempre il tempo è galantuomo. Morire vecchio e brutto è più triste quando, come Marlon Brando, si è vissuti da eroe: giovane e bello. Nella memoria collettiva, almeno.
Fra la comparsa sullo schermo, oltre mezzo secolo fa, e la scomparsa nella realtà, ieri all’età di ottant’anni, ha prevalso l’immagine legata alla prima: perfino paraplegico, in Uomini di Fred Zinnemann, Brando suscitava desideri impuri. Non sono stati i vari, finali e marginali, ruoli di obeso, gorgogliante e incapace di camminare, a cancellare il ricordo dei profilo romano, del sorriso crudele, dei pettorali turgidi, degli sguardi obliqui. Fra ascesa e declino dell’impero brandiano, il culmine: grande attore Brando, certo, ma non erano da meno Alec Guinness o Karl Maiden, però la loro inestetica bravura non ha condizionato l’epoca. Difficile, quindi scindere la gloria dall’aspetto di Brando, con le conseguenze del caso.

MARIAROSA MANCUSO
Vanity Fair

La prima biancheria promossa da sotto a sopra, da indumento nascosto ad abbigliamento sexy non è stat la sottoveste, né il corsetto. Era fa canotta che fasciava torace e bicipiti (il Marlon Brando in Un trami che si chiama desiderio, girato da Ella Kazan nel 1951. L'alchimia tra canottiera, volto di rara bellezza, broncio, muscoli e grande bravura rubarono un attore al teatro per farne un divo del cinema. Venti anni dopo, arrivò il cappotto di cammello con il bavero rialzato di Ultimo tango a Parigi. In mezzo, c'era stato il cuoio nero con cerniere del Selvaggio, il giubbotto a scacchi di Fronte del Porto, la divisa con profili e bottoni dorati degli Ammutinati del Bounty (giacca e capelli schiariti dal sole saranno copiati pari pari dal capitano Aubrey di Russell Crowe, in Master and Commander). Nel cinema puritano di un'epoca puritana, Marion Brando non aveva solo una faccia ma anche un corpo. Per questo ricordiamo com'era vestito, come si appoggiava alla moto, come teneva le braccia e come saliva le scale, Quando ancora imbruttirsi non era di gran moda, recitò nel Padrino con le guance riempite di kleenex e il mento ombreggiato con il nero fumo. Da qualche anno lo vediamo ingrassato e sformato, in piccole parti pagate moltissimo. Spesso fa inserire nei contratto che reciterà solo seduto. Per questo Robert De Niro, che lo sostituì Angeli-Heat Ascensore per l'inferno, sta tutto il tempo fermo e si limita a scorticare un uovo. Nell'ultimo film, The Score, esibisce una mostruosa vestaglia arabescata, con l'aria di chi ormai può concedersi qualunque cosa.

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

[…] A Parigi sul set di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, 1972, tirava un'aria strana. Brando non avrebbe potuto essere più affascinante: il viso pallido e affinato, i capelli biondo bianchi, gli occhi tristi e consapevoli gli davano un pathos struggente, una nobile innocenza degradata. Parlava dei figli con affètto trepidante di chioccia, il pensiero di loro lo occupava molto più del gran successo del Padrino, il film che dopo anni di e disse lo aveva riportato sulle copertine come il miglior attore americano. Lo preoccupava soprattutto Christian, il primo, figlio di Anna Kashfi e suo, che aveva portato con sé a Parigi: il bambino rifiutava di mangiare, raccontava. Lui non lo costringeva, non insisteva: però gli preparava diversi piattini di cibo disposti sui mobili, e ogni tanto si accorgeva con gioia che il ragazzino aveva assaggiato qualcosa. Lavorava a Ultimo tango a Parigi con qualche disagio: gli attori della sua generazione non abituati al nudo avevano ritegni persino buffi, Bran-do si stringeva nella vestaglia sino all'estremo animo, esigeva che tutti abbandonassero il set, vietava le fotografie, era restio alle ripetizioni. Da tre mesi quasi non mangiava: ingrassato di parecchi chili per il Padrino, aveva dovuto dimagrire molto, ma in fretta, e il digiuno gli dava sfinimenti, languori.

JEREMY MCCARTER
The New York Times

On the night “A Streetcar Named Desire” opened on Broadway, Tennessee Williams sent his young leading man a rapturous telegram: “From the greasy Polack you will someday arrive at the gloomy Dane for you have something that makes the theater a world of great possibilities.” Looking back now, you might describe that as, word for word, the most poignant couple of lines Williams ever wrote. For one thing, “greasy Polack” reflects a pinched view of what Marlon Brando achieved. Stanley Ko­walski is a brute, a vulgarian and a rapist, but Brando also gave him a canny intelligence and enough charm that the play’s audiences joined him in laughing at Williams’s heroine, Blanche DuBois, every night. Brando’s looks also helped: thanks to the poetic face he carried atop his muscled body, his loutish Stanley could have passed for a slumming demigod.
In the end, of course, Brando never played Hamlet, nor did he exhaust the “great possibilities” that Williams and so many others detected. Though he liberated generations of actors when he brought a fresh vulnerability to his early film roles — a majestic four-year run culminating in his 1954 portrayal of Terry Malloy, the anguished ex-boxer in “On the Waterfront” — Brando had barely reached his 30s before he entered his ­Elvis-in-the-jumpsuit phase. He picked bad projects and gave indifferent performances, however speckled they might be with astonishing ­flashes. His weight ballooned, and he refused to learn his lines. Acting itself seemed ridiculous to him: “a bum’s life,” useful primarily as a way to pay his shrink’s bills. After more than a decade of this dud work, Brando made an astounding comeback, putting out “The Godfather” and “Last Tango in Paris” in 1972. But the eccentric decay soon resumed. Nobody needed to see his lip-lock with Larry King, or his various family tragedies, or “The Island of Dr. Moreau.”

ALBERTO CRESPI
L'Unità

In internei c'è anche la sua calla natale. Al sito www.dominantstai.com. Se vi interessa, dategli un'occhiata. Ha tutti i pianeti in Venere e questo, secondo gli astrologi, spiegherebbe l'improvviso amore sbocciato fra lui e le isole della Polinesia nel 1962, quando girò il Bounty. Marlon e Talbergo di Tetiaroa è tristemente chiuso, dicono le agenzie. C'é una brutta voce che corre in rete: Mlarlon Brando sta male e non ha più una lira. Pesa 100 chili, vive con il sussidio e dorme con Ia bombola ad ossigeno accanto al letto. Speriamo siano leggende: le ennesime. Brando è vissuto nella leggenda, anche perché è sempre stato un tipo ritroso. che concedeva poche interviste. snobbava il prossimo e non raccontava nulla della propria vita. L'unica cosa certa è che Brando ha avuto un sacco di guai familiari e non fa un bel film dal 1979, l'anno di Apocalypse Now. Sua figlia Cheyenne si è suicida-tu e suo figlio Christian è stato accusato di omicidio. Due anni fa una ex cameriera, Maria (Cristina Ruiz, gli ha tutto causa per 100 milioni di dollari sostenendo di essere la madre di tre suoi tigli (ne avrebbe almeno sei illegittimi, oltre ai cinque «ufficiali»). Lui se l'è cavata esibendo in tribunale la dichiarazione dei redditi, dalla quale risultava una pensione da 6.000 dollari al mese integrata da un assegno mensile, della sussistenza sociale, per la somma di 1.856 dollari. E tutti i soldi che ha guadagnato, direte voi? Alimenti alle varie mogli, parcelle di avvocati e dottori, e investimenti sbagliati in quel di Tetiaroa, l'atollo vicino a Tahiti che si era comprato quando era il più grande, il più ricco, il più pagato.

PAOLO MASTROLILLI
La Stampa

«Sofia Coppola ha girato Lost in translation in 27 giorni. A suo padre quello stesso tempo bastava appena per svegliare Marlon Brando, e ci riusciva con tre piccole parole: «Key lime pie», cioè la prelibata torta al limone cucinata nelle isole della Florida. Solo così l'ex selvaggio è riapparso sul palco degli Oscar, il 29 febbraio scorso: con una battuta svergognata del presentatore Billy Crystal. Dunque l'America sfotte Brando? Alla vigilia del suo ottantesimo compleanno, che cadrà il tre aprile, è diventato un tale fenomeno da baraccone, che merita un po'di spazio solo per riderci sopra? A parziale scusa del Nuovo Continente, bisogna avvertire in anticipo che gli Stati Uniti non sono mai andati pazzi per le celebrazioni degli anniversari. Guardano al futuro per natura, e soffermarsi sul compleanno di una persona significa dare importanza a quei luoghi comuni che poi diventano limitazioni, come l'arruginito pregiudizio secondo cui uno a ottant'anni sarebbe vecchio. Se Marlon Brando volesse davvero le prime pagine dei giornali, dovrebbe conquistarle con qualcosa proiettato nel presente, tipo l'Henry Fonda di Sul lago dorato. Ma non è roba per lui e forse non gli interessa nemmeno, dopo aver flirtato per anni con L'autunno del patriarca di Garcia Marquez. Finora qualche notizia del suo compleanno è apparsa nelle brevi delle rubriche sui pettegolezzi, mentre qualche sito internet di fans ostinati promette celebrazioni, e magari qualche televisione specializzata in vecchi classici rimanderà in onda Un tram che si chiama desiderio, Fronte del porto, oppure Il padrino e Apocalypse Now, che rimbalzano ancora in parecchi palinsesti. Forse alle fine un grande giornale romperà il silenzio, ma fino a domenica scorsa l'articolo più lungo dedicato a Brando parlava della decadenza di Tetiaroa, il suo paradiso terrestre a venti minuti da Tahiti. Il patriarca non ci vive più e la Air Moorea ha sospeso i voli, perchè lui ha un debito da quasi mezzo milione di dollari in charter non pagati e non ripara la pista d'atterraggio corrosa. L'avvocato David Seeley smentisce che Marlon abbia finito i quattrini, ma comunque lui è tornato a Los Angels da quando la figlia Cheyenne si tolse la vita proprio a Tetiaroa, dopo che il fratello Christian le aveva ammazzato il marito Dag Drollet. O forse era stato il padre? Una vita come un film, insomma, che gli americani faticano a seguire ancora, con tutte le altre celebrità matte a disposizione. Tipo Courtney Love, ad esempio, che si è inventata di essere la nipote di Brando, presunto padre naturale di sua madre Linda Carroll. Dire che gli Usa hanno dimenticato il loro mito, però, sarebbe ingiusto. Forse è solo che hanno sentito già tutto su di lui. L'ultima biografia, intitolata «Marlon Brando» e scritta dal critico del New York Times David Thomson, è uscita l'anno scorso, in un mercato che evidentemente assorbe ancora libri del genere dopo la doppia sfida del 1994, quando proprio l'ex selvaggio firmò la storia della sua vita chiamandola «The songs my mother taught me», per contrastare quella non autorizzata e pruriginosa pubblicata da Peter Manso. Il settimanale «Time», poi, ha inscritto per sempre Brando nella lista delle cento persone più influenti del secolo scorso, insieme a pochissimi attori come Charlie Chaplin. I suoi due Oscar, infatti, rimangono nella storia, compreso quello che rifiutò nel 1972 per Il padrino, mandando invece sul palco l'indiano Sasheen Littlefeather a criticare le ingiustizie commesse dagli americani contro i pellerossa. Proprio Marlon, del resto, ha scritto così nella propria autobiografia: «Io ho sempre considerato la mia vita un affare privato, che non riguardava nessuno oltre la mia famiglia e coloro che amo. Fatta eccezione per le questioni politiche e sociali che hanno suscitato in me il desiderio di parlare, mi sono impegnato molto nel corso della mia esistenza, per il bene dei miei figli e mio, a restare in silenzio». Forse adesso, all'età di ottant'anni, l'America è disposta ad accontentarlo.

MICHIKO KAKUTANI
The New York Times

He was famous for wearing a T-shirt and jeans decades before it became the default uniform of every Hollywood and Silicon Valley worker bee.
He mumbled a lot and was often silent when you expected him to talk, but there was a drama to those pauses and a raw, animal physicality to his every move. When he was young, his beauty was a magnet to women and men alike, but it was his willingness to expose his own tortured conflicts in his work — his vulnerability and anger, his naïveté and brooding melancholy — that made millions of strangers enshrine him as a symbol of a new, rebellious generation, sick of the correct poses and posturings of the past and committed to an unvarnished authenticity and emotional truth.
He was hailed as the “Byron from Brooklyn” (though he was from Nebraska, not New York), a “genius hunk,” “the Valentino of the bop generation” and the essence of “the primitive modern male.” John Huston said he was “like a furnace door opening” — so powerful was the heat he gave off. Eva Marie Saint said he had the ability “to see through you” and make you feel “like glass.” Jack Nicholson said he had a gift that “was enormous and flawless, like Picasso”: he “was the beginning and end of his own revolution.” Of course, Marlon Brando was not the end of the revolution he brought to acting. Mr. Nicholson, along with James Dean, Paul Newman, Robert De Niro, Al Pacino, Sean Penn, Johnny Depp and Leonardo DiCaprio are all his heirs, and to watch the movies made before and after such iconic Brando films as “A Streetcar Named Desire” and “On the Waterfront” is to see a paradigm shift from the heightened, stylized theatricality of old-time Hollywood to the immediate, intimate and gut-churning world of the Method.

VITTORIO ZUCCONI
La Repubblica

S'è spenta un'altra luce sul palcoscenico America e il teatro dei nostri desideri americani si fa un poco più buio. Marlon Brando aveva 80 anni e non era neanche più tanto obeso, dopo la solita lunga malattia, gli sperperi e la inutile degenza in un ospedale di Los Angeles. Nessuno lo avrebbe più chiamato, dietro le spalle, the Godfather of Bellies, "il Padrino delle Trippe", come lo avevano soprannominato dopo avergli visto consumare sul set due polli interi, mezza cheesecake, un chilo di gelato e poi scappare via nascosto sotto un sombrero per farsi otto salsicciotti con crauti e senape in un fast food aperto tutta la notte. Del suo corpo spropositato era rimasto poco, alla fine, ma del suo talento mostruoso è rimasto tutto quello che vediamo oggi sugli schermi in teatro, anche nel più piccolo degli attori. È rimasto quello che Jack Nicholson riassunse così, in due parole: "Bud - lo chiamavano così da bambino in Nebraska, Bud - ci ha dato freedom, libertà".
L'attore che liberò gli attori dai canoni della recitazione, aveva sciolto molto più che una professione e un'arte. Aveva scosso una nazione, e una cultura, dal torpore perbenistico e frigido degli "Eisenhower Years", quella decade fra i '40 e i '50, nei quali i censori proibivano a Lucille Ball e Desi Arnaz, pur sposati nel copione di Lucy e io e anche nella vita, di dormire in un letto matrimoniale, imponendo lettini gemelli.

GLORIA SATTA
Ciak

Marlon Brando, che se n'è andato a ottant'anni da solo in un ospedale di Los Angeles, sformato nel corpo e prostrato nello spirito, si porta via l'ultima leggenda di un secolo che aveva affidato al cinema i suoi sogni. Bellissimo e trasgressivo negli anni d'oro, nella vecchiaia obeso e malato al termine di un lungo percorso autodistruttivo, un tempo ricchissimo e poi finito sul lastrico, l'attore rimarrà per sempre il divo per eccellenza. E'stato l'idolo di generazioni, il simbolo della seduzione ma anche della sregolatezza, massima espressione di talento e al tempo stesso campione di eccessi. La sua vita risulta costellata di successi e tragedie, dai trionfi nel cinema fino al suicidio della figlia Cheyenne. L'attore ha collezionato riconoscimenti e dissipatezze, passioni e rancori, amori etero e omosessuali e un numero imprecisato di figli (undici accertati, ma c'è chi parla di quindici), due Oscar e la ricchezza. Ha posseduto un'isola polinesiana, Tetiaroa, e sei delle sue amanti si sono uccise. Ha reso immortale il metodo di recitazione basato sull'immedesimazione nel personaggio, ma negli ultimi anni della sua carriera è stato capace, per soldi, di accettare perfino filmacci e ruoli indecorosi. O di prestarsi, per le stesse ragioni, a interpretare spot pubblicitari. Brando resterà nella leggenda perché è stato un gigante anche nelle contraddizioni. E non lascia eredi sebbene periodicamente quanto incongruamente il suo nome venga accostato a quello di attori “arrabbiati”, tenebrosi o ribelli, da Sean Penn a Johnny Depp, da James Dean a Leonardo Di Caprio. Nell'era dei miti “fast food” creati dalla televisione, e mentre il mondo intero rinuncia a sognare, è impossibile replicare la parabola umana e artistica di un personaggio che è stato un prototipo. Tutto, nella lunga e tumultuosa esistenza di Marlon, ha avuto i contorni delle tragedie classiche e la dimensione epica delle grandi storie americane nelle quali «non è previsto il secondo atto». Brando era nato il 3 aprile del 1924 a Omaha, nel Nebraska. Padre commerciante bacchettone, madre attrice di secondo piano, depressa, dedita all'alcool e all'adulterio: non appaiono rosee le prospettive del futuro divo che si arruola nell'Accademia militare di Shattuck ma viene presto espulso per cattiva condotta. Approdato a New York, Brando intraprende una nuova vita sotto il segno della trasgressione che diventerà per lui una seconda pelle, la garanzia stessa della sua leggenda. Stella Adler, la celebre insegnante di recitazione, gli fa scoprire il mestiere ma ne diventa anche l'amante matura e dissoluta. Sono gli anni in cui l'attore vive alla giornata, abbandonandosi all'istinto: uomini e donne si avvicendano nel suo letto, le notti brave non hanno mai fine, mentre i successi si moltiplicano e la fama di divo maledetto si consolida: «In quei tempi», confiderà Marlon nell'autobiografia, scritta nel '94 per un compenso miliardario, «vivevo in uno stato di erezione perenne». L'attore è rimasto nascosto agli occhi del mondo fino alla fine. Gli ultimi mesi li ha trascorsi da solo, nella villa sulle colline di Santa Monica, attaccato in permanenza alla bombola di ossigeno e, raccontano a Hollywood, concentrato sull'organizzazione maniacale del proprio funerale. Aveva accettato, dicono ancora, di tornare al cinema diretto da un regista esordiente. Era finanziariamente rovinato. Gli ultimi dollari li aveva spesi per pagare i diciassette avvocati che dieci anni fa salvarono suo figlio Christian dalla sedia elettrica. Tragedia nella tragedia: il ragazzo era accusato di aver ucciso l'amante della sorella Cheyenne, che nel '95 si sarebbe impiccata accusando il padre di aver commissionato l'omicidio. Da allora in poi, il mondo si sentì autorizzato a parlare della “maledizione dei Brando”. Tante donne amarono Marlon (qualcuno ha incluso nella lista anche Jackie Kennedy), ma nessuna gli è rimasta vicina. L'ultima, una governante messicana, gli ha fatto causa due anni fa per cento milioni di dollari, sostenendo di essere la madre di due suoi figli. Egocentrico e consapevole del proprio mito, l'attore rimarrà nella storia anche per le litigate con i registi, come Gillo Pontecorvo che lo diresse in Queimada. Bernardo Bertolucci, che nel '72 lo sottrasse all'esilio volontario chiamandolo a interpretare Ultimo tango a Parigi , lo venerava. Ma all'epoca di The score , il vecchio divo si presentava sul set senza mutande per evitare inquadrature della sua obesità. In una vita esagerata come quella di Marlon, innumerevoli sono gli aneddoti, gli exploit, i colpi di teatro. Nel '72, in segno di solidarietà con i pellerossa, l'attore non ritira l'Oscar vinto con Il padrino. Nel '99 si rifiuta di consegnarlo a Elia Kazan, «spia del maccartismo». Attacca gli ebrei per il loro potere a Hollywood. A un concerto di Michael Jackson si fa fischiare per aver pronunciato un pistolotto contro gli abusi sui minori. Ogni volta che appare, parla, si schiera, il mondo reagisce, si sorprende, critica, contrattacca. E riconosce che, nel bene e nel male, tra successi e contraddizioni, Brando è una leggenda, una figura grandiosa e tragica del secolo che grazie al cinema e ai suoi idoli ha imparato a sognare.

LORENZO SORIA
La Stampa

Marlon Brando, il leggendario attore che ci ha regalato film come Fronte del porto, Il padrino e Ultimo tango a Parigi e la cui figura è diventata sinonimo di ribellione, di eccentricità e anche di tragedia personale, è morto ieri in un ospedale di Los Angeles per un enfisema polmonare. Aveva ottant'anni e da vari anni, da solo nella sua grande villa a Mulholland Drive, sulle colline di Los Angeles, si trascinava appresso una macchinetta per l'ossigeno. Negli ultimi mesi, però, aveva passato più tempo in ospedale che a casa, vittima di vari problemi fisici esacerbati dall'obesità. Nonostante ciò stava lavorando a un film autobiografico Brando and Brando, il regista franco tunisino Ridha Behi dice: lo finirò in suo onore. «Marlon avrebbe detestato l'idea di gente che corre a dire la sua sulla sua morte e tutto quello che posso dire è che sono triste che se ne è andato», ha dichiarato Francis Ford Coppola. Ha aggiunto James Caan, che nella saga de Il padrino aveva recitato la parte di Sonny, uno dei figli di Brando-Vito Corleone: «Ha influenzato più attori della mia generazione di chiunque altro». Quando si parla di divi del cinema, la parola leggenda viene spesso abusata. Brando è stato davvero legendario, una presenza rivoluzionaria che ha imposto un modello di recitazione che è stato seguito da generazioni di attori, da Paul Newman e Robert De Niro a Leonardo DiCaprio e Johnny Depp. E infatti, a quasi sessant'anni da quando Brando si impose all'attenzione del pubblico recitando con una sensualità e una crudezza senza precedenti la parte di Stanley Kowalsky in Un tram chiamato desiderio e a 25 anni dal suo ultimo film di un certo rilievo, Apocalypse Now, ancora adesso quando emerge un nuovo attore che non segue le convenzioni di Hollywood e che si presenta come un ribelle, il paragone è immediato: è nato un nuovo Marlon Brando, si dice, anche se nessun allievo ha saputo raggiungere la grandezza del maestro. Un attore ammirato e riverito che non ha mai nascosto la sua indifferenza, se non il disprezzo, per il suo mestiere. A volte diceva che recitare era l'espressione di un «impulso nevrotico», altre che se gli studios lo avessero pagato lo stesso denaro per pulire i cessi lui lo avrebbe fatto ben volentieri. «Non c'è altro mestiere che ti paga altrettanto bene mentre non sai che cosa diavolo fare della tua vita», ripeteva. Il Selvaggio, divenne il ribelle, l'iconoclasta, il fuorilegge, l'anti-sociale, contribuendo in questo modo, inconsciamente o forse no, alla sua leggenda. Ma col passare degli anni, Brando è diventato soprattutto una figura tragica. E così è morto, annegato nella solitudine, nei ricordi e nei debiti: 20 milioni di dollari, si dice, al punto che per paura che se lo portassero via i creditori aveva nascosto quell'Oscar per Il padrino che nel 1972 aveva sdegnosamente rifiutato di accettare. Sopraffatto dai problemi finanziari, Brando era stato costretto a vedere anche il suo atollo polinesiano, dove però verranno sparse le sue ceneri. In attesa, in segno di omaggio, tutti i teatri di Broadway, venerdì sera, hanno tenuto le luci spente per un minuto. Da La Stampa, 3 luglio 2004

LORENZO SORIA
La Stampa

«La sola cosa che dobbiamo al nostro pubblico è quella di non annoiarlo» aveva detto Marlon Brando in una recente intervista. Negli 80 anni della sua vita, il protagonista di Fronte del porto ne ha viste di tutti i colori. Un padre autoritario e violento che continuava ripetergli che non avrebbe mai combinato niente di buono e una madre alcolizzata che aveva più tempo per le bottiglie che per i figli. Il primo trionfo a soli 23 anni, nel 1947, quando con Un tram chiamato desiderio a Broadway e poi diretto da Elia Kazan elettrizzò il pubblico imponendo un nuovo modello di recitazione e divismo e il rifiuto dell'Oscar, nel ‘72, in segno di protesta per il trattamento degli indiani d'America. Un modello di sensualità e virilità diventato un armadio di oltre 150 chili incapace di resistere a creme e gelati e che camminava trascinadosi dietro un respiratore. Il primo attore a superare la barriera del milione di dollari e che per tre minuti in Superman riuscì a raccoglierne quattro e la morte in povertà, con un debito di venti milioni di dollari e la sopravvivenza quotidiana garantita dalla pensione di attore. Ma una cosa è certa, ed è che in oltre mezzo secolo sotto gli occhi del pubblico, Brando non ha mai annoiato, offrendo una vita fatta di trionfi e sconfitte, di imprevisti e contraddizioni, di amori e divorzi, di una covata di figli legittimi e non e di profonda solitudine. Una vita tragica, che ha raggiunto il suo momento più doloroso quando il figlio Christian uccise l'amante della sorellastra, Cheyenne, che quindi dieci anni fa scelse la via del suicidio. In queste ore, si legge che Brando ha cambiato gli standard del cinema, che è stato il caposcuola di quel «Method acting» che voleva che gli attori non recitassero ma si limitassero a «comportarsi», che fossero crudi, naturalistici e privi di vanità. Il «New York Times» scrive che la storia del cinema andrà divisa in due ere, il pre e il dopo Brando. Ed è tutto vero, assieme con il fatto che nessun altro attore ha avuto così tanti ammiratori generazione dopo generazione. Ma sin dai giorni di Fronte del porto, quando alle quattro in punto, ogni giorno, lasciava il set per andare a condividere i suoi demoni interni con l'analista, Brando è stato soprattutto complesso, difficile, scomodo. E, nonostante innumerevoli mogli, amanti e undici figli riconosciuti, profondamente solo. Dopo avere girato Gli Ammutinati del Bounty, Brando si innamorò della Polinesia e comprò un atollo. Pensava avrebbe costituito una sua comunità, con i figli, gli amici, gli indigeni. Ma anche quello è stato un sogno durato poco, e presto tornò nella sua villa su Mulholland Drive, sopra Beverly Hills, dove aveva come vicini Jack Nicholson e Warren Beatty e dove è morto solo, con la compagnia di una cameriera. È stato qui, nel salotto di questa casa, che il figlio maggiore, Christian, uccise in una serata del maggio ‘90 Dag Drollet, amante della sorella Cheyenne. Christian raccontò alla polizia che voleva solo spaventare Drollet, ma nonostante sette milioni di dollari in avvocati si beccò dieci anni di galera. E la tragedia non fini lì. Cheyenne era incinta, ma il piccolo Tuki, nato con difetti congeniti perché la mamma era drogata, le venne portato via. Cinque anni dopo, in preda a una profonda crisi depresiva, Cheyenne si suicidò, in quello stesso atollo che al padre era sembrato il paradiso in terra. Da allora, Brando ha vissuto in solitudine, ingrassando come se volesse inconsciamente spogliarsi della sua bellezza fisica, comparendo ogni tanto in un film dimenticabile, lasciandosi andare a dichiarazioni provocatorie come quando si lasciò scappare che «Hollywood è posseduta dagli ebrei». L'ultima sua avventura è stata un video di recitazione, che aveva voluto chiamare «Lying for a living». Tradotto, suona come raccontare bugie per sopravvivere. Ma se la sua vita personale è stata segnata da tragedie e contraddizioni, quella professionale verrà ricordata come la vita di un uomo che ha saputo portare la recitazione sulla strada della verità.

EMANUELA MARTINI
Il Sole-24 Ore

Nella sera dei 27 marzo dei 1973, quando alla cerimonia degli Oscar fu annunciato il nome del vincitore maschile, tutta la Hollywood che conta scoppiò in un lungo applauso: Marion Brando, già vincitore a trent'anni (nel 1954) per Fronte del porto, considerato uno degli attori chiave della generazione dei dopoguerra, ma intemperante, polemico e rompiscatole, più interessato ai movimenti dei diritti civili che alla carriera, già abbastanza ricco e star da potersi fare i fatti suoi, era tramontato per Hollywood da almeno una decina d'anni.

LUCA FONTANA
Diario

Di 41 film, forse solo cinque si salvano per qualità, e rimarranno. Sembrerebbe un bilancio disastroso, e invece questa è l'arida aritmetica di una delle più gloriose e influenti carriere d'attore che, teatro prima - i tre anni magici dal 1944 aI 1941 - e cinema poi, ricordino. MarlonBrando con cinque interpretazioni, tre di fresca, giovanile, geniale invenzione - (lu tram chiamato desiderio, Fronte del porto e i/selvaggio - e due di sublime e altissimo manierismo-I/Padrino i e Ultimo tango a Parigi -ha cambiato la nostra idea dell'attore e di che cosa debba essere recitazione al cinema. In questi giorni, con la minuta, quasi maniacale attenzione concessa dalla visione di un dvd sul computer - studiando i film sequenza per sequenza, usando del fermo immagine, della visione a ritroso etc. smontando in sezioni minute quella grandissima arte, sono andato alla ricerca del suo segreto. Sì, method acting, certo. Stanislavskij applicato a un'idea americana di naturalismo, tutto quel che è stato sempre detto. Ma è poi vero?

GIACOMO PAPI
Diario

Il suo fascino spirava da un dubbio. Indossava ancora la maschera o se l'era sfilata in un momento di distrazione generale? Quando, era vero? E lo stesso dubbio descritto, con un'altra metafora, da Truman Capote: «Era come se la testa di ori estraneo fosse stata attaccata al corpo del ginnasta, come in certi fotomontaggi». In questo modo, Brando costringeva interlocutori e spettatori a cercare dietro a ciò che lui sceglieva di mostrare. La strategia di aggiramento messa in arto da Capote fu molto precisa, «Il piccolo bastardo ha passato metà della nottata a parlare dei suoi guai», commentò Brando, anni dopo. «Pensai che fosse educato raccontargliene qualcuno dei miei… Se potessi lo ucciderei frustandolo con uno spaghetto bagnato», I guai che Marlon aveva rivelato riguardavano soprattutto sua madre: «Mia madre andò in pezzi come un oggetto di porcellana» Un copione che avrebbbe ripetuto nel 1971, improvvisando un monologo in Ultimo tango a Parigi. Poi, nel 1994, nella sua autobiografia Songs my mother taught me «Quando mia madre beveva, il suo alito aveva una dolcezza che nessuna parola del vocabolario potrebbe descrivere, Era uno strano connubio: la dolcezza del suo alito e il mio odio perché beveva... Da graride, di tanto in tanto, mi è capitato di trovarmi con donne il cui alito aveva la stessa dolcezza che ancora non riesco a definire. Quell'odore mi ha sempre eccitato sessualmente».

GLORIA SATTA
Il Manifesto

A volte nel cinema l'émpito autobiografico può giocare brutti scherzi. L'amore di Màrja, ad esempio, sconta un'eccessiva voglia di comunicare - quasi utilizzando il film come veicolo terapeutico - conflitti irrisolti e sensazioni sepolte dell'autrice Anne Riitta Ciccone. Di padre italiano e madre scandinava, la regista racconta con una, a tratti fastidiosa, superfetazione narrativa la vicenda della finlandese Màrja sposata con il siciliano Fortunato da quando giovanissima diventò madre, alla maturità. La bella bionda nordica si vede costretta per motivi economici a seguire il bruno mediterraneo compagno (Vincenzo Peluso) nel suo paese d'origine con le due figlie, le piccole Alicia e Sonia. Siamo nei primi anni '70 e la donna e le bambine avvertono presto il gap socioculturale tra due realtà distanti anni luce. La famiglia siculo-finnica cresce in un clima di ostilità claustrofobico e oppressivo in stridente contrasto con quello atmosferico meraviglioso del paese marino assolato e seducente. Con un marito assente (Fortunato trova un buon lavoro all'estero), l'ex hippie Màrja diventa nervosa, ipocondriaca e nostalgica del suo paese e deve ricorrere alle cure di uno psichiatra, mentre la figlia più grande Alice abbandonato il mondo delle favole, picchia un compagno di scuola, protegge la sorellina e porta avanti la casa. Piuttosto che metabolizzare il cinema degli anni '70, la Ciccone sovraccarica il dramma di piccole tragedie e non riesce a dare corpo all'interfaccia esistenziale di due mondi incompatibili. Da Il Mattino, 3 aprile 2004

IRENE ALISON

Omaha è una città piccola, perduta negli spazi immensi del Nebraska. Arrivava da lì Marlon Brando, dalla terra delle praterie e dei Sioux, dove nasce il 3 aprile 1924. Sua madre Dorothy Pennebaker è un attrice che non diventerà famosa, suo padre è un commesso viaggiatore dal carattere duro. Lui prova con la carriera militare, ma insofferente alle gerarchie, viene espulso dall'Accademia del Minnesota. Negli anni `40, sulle orme della sorella Jocelyn, tenta la strada del palcoscenico a New York, dove debutta nel 1944. Tre anni più tardi, è già trionfo: il suo Stanley Kowalski, ruvido protagonista di Un tram chiamato desiderio di Tennessee Williams, fa impazzire Broadway. Nel 1950 gli si aprono le porte dell'Actor's studio di Lee Strasberg, dove Brando incontra Elia Kazan e il «metodo Stanislavsky». L'esordio al cinema è con Uomini di Fred Zinnemann (1950), nel quale interpreta un reduce di guerra paraplegico. L'anno dopo, è di nuovo Kowalski per la versione cinematografica di Un tram chiamato desiderio di Kazan. Ancora ribelle, ancora irresistibile, nel `53 è Il selvaggio per Laszlo Benedek, simbolo in giubbotto di pelle di una generazione di disillusi. Nel `54 - dopo quattro nomination consecutive- bicipiti, canottiera e una straordinaria interpretazione gli valgono l'Oscar da protagonista ( e il premio come miglior attore a Cannes) per il ruolo di Terry Malloy in Fronte del porto di Elia Kazan. Negli anni `60 si consolida l'icona di Brando divo dal carattere difficile: sono gli anni di Gli Ammutinati del Bounty (1962) durante le cui riprese Brando (reduce da due divorzi - Anna Kashfi, sua moglie dal 1957 al `59 e Movita Castenada, dal `60 al `62 - e dal suicidio di una ex fidanzata, Pina Pellicier, nel 1961) s'innamora della terza moglie Tarita Teriipia, gli anni delle liti furibonde con Pontecorvo sul set di Queimada (1969), ma anche gli anni della sua prima, e unica, regia, I due volti della vendetta, di cui Brando è anche protagonista, nella parte di ex bandito in cerca di vendetta. Nel `72 Brando «incontra» Vito Corleone, un personaggio - il capofamiglia della stirpe mafiosa del Il padrino di Francis Ford Coppola - che l'attore, ingrassato, invecchiato e con la bocca piena di kleenex, si cuce addosso con una prestazione da Oscar. Ma Brando non lo ritirerà, mandando al suo posto, per protesta contro il governo americano, una giovane Sioux. Quel 1972 - in cui Brando sarà anche sensuale e inafferabile amante di Maria Schneider in Ultimo tango a Parigi di Bertolucci - è anche l'anno in cui la ex moglie Anna Kashfi rapisce il primo figlio dell'attore, nato nel `58, fuggendo in Messico. Nel 1979 Brando incontra un altro ruolo fondamentale: è il colonnello Kurz in Apocalypse now di Francis Ford Coppola. Da allora si susseguono pochi ruoli importanti e molte difficoltà - economiche (il suo patrimonio si è sgetolato tra processi per alimenti a ex mogli e amanti e lui dichiarerà di vivere con un assegno della sussistenza sociale di 1.856$ al mese) e personali (l'arresto, nel `90, del figlio Christian, per aver ucciso l'amante della sorella Cheienne, poi suicidatasi nell''96). Il cuore trabballante, l'eccesso di peso e i polmoni stanchi lo hanno portato alla morte ieri, all'età di 80 anni.

GIANNI RIOTTA

Muore con Marlon Brando il Novecento che abbiamo conosciuto, aperto dal lampo di Hiroshima nel 1945, chiuso dal lampo del World Trade Center a New York nel 2001. La vita di Marlon Brando è durata ottant'anni, ma la carriera premiata con due Oscar ha illustrato la sensualità, la disperazione, le utopie e i rovesci di cinquanta anni tra desiderio e orrore. Un tram che si chiama desiderio e Apocalypse Now, i due film ai capi dell'arte di Brando, hanno lo stesso tema, la società che schiaccia l'individuo, lo aliena, ne massacra pulsioni e istinti. Il singolo però non scende nel gorgo muto, come temeva Cesare Pavese. Si ribella, si rivolta, come predicava Albert Camus. A tutti coloro che hanno avuto la forza di ribellarsi ai gorghi del conformismo e ribadire la propria originalità, Brando offre la sua maschera. Il ghigno, il silenzio, le righe del copione mormorate e non pronunciate, come a vergognarsi dell'arte di recitare. «Fare l'attore - disse in una rara intervista al New Yorker in cui non se la prese con il reporter ma accettò il dialogo - è l'arte più sopravvalutata. Ognuno di noi recita, ogni giorno, quando vuole qualcosa, e prova ad ottenerla parlando». E'vero, ma Brando aveva la forza di assumere sul suo corpaccione, che la mano del tempo aveva deformato dal fascinoso giovane in maglietta bianca e blue jeans al vecchio calvo e obeso, tutti i tentativi di seduzione, compromesso, corruzione, preghiera, solitudine e silenzio che ognuno di noi conosce un giorno nella vita. Era il corpo del Novecento chiuso nella Guerra Fredda. Voleva dimostrare che non tutto si esauriva nel fronteggiarsi nucleare di nemici, che l'orrore, la cui ubiquità aveva narrato chiudendo Apocalypse Now con le righe di Conrad da «Cuore di tenebre», non è esito senza scampo. La criminalità sanguinosa del Padrino, la naturalezza di Stanley Kowalski del Tram chiamato desiderio fino all'erotismo ossessivo di Ultimo tango a Parigi, capolavoro di Bernardo Bertolucci: in ogni parte Marlon Brando recita un capitolo diverso della stessa epopea. Non era un bravo attore, ma il più bravo degli attori. Quello che tutti gli altri hanno imitato, non per piaggeria, ma come gli artigiani rifacevano i modi nobili di Michelangelo e i vezzi di Bernini. Da Paul Newman a Leonardo Di Caprio, Brando è stato il maestro di tutti. Oggi leggerete nei necrologi di ricordi del metodo Stanislavsky, dell'Actors'Studio con Lee Strasberg. Verissimo, Brando attinse a quelle scuole. Solo però per corroborare la sua personalità e il suo metodo privato. Far vedere come l'uomo solitario si batte con il potere, le vittorie effimere, la frustrazione perenne che ne risulta. Brando conobbe nella vita la tragedia, il figlio coinvolto nella morte di un amico della figlia, drammi familiari, un patrimonio a rischio. Accettò parti che i critici ricordano con sdegno, ma che lui prese come croci leggere, che non richiedevano davvero un sacrificio. Erano danni alla sua reputazione da attore, sporcavano la voce che le enciclopedie dedicheranno alla sua vita. Non intaccano il corpus che Brando andava delineando. Un'opera nitida, manuale di resistenza contro l'omologazione. Dal Fronte del porto al Vietnam di Coppola, gli eroi perduti di Brando trovano, come Sisifo, la loro identità non nell'esito della battaglia, vinta o perduta, ma nell'accettare di combatterla. Alla nascita del Novecento ideologico, nella grande tela Guernica di Pablo Picasso, sta quella spada spezzata del guerriero spagnolo vinto, al vertice in basso del quadro. Ogni volta che Brando è apparso davanti a una cinepresa non per raccattare il soldo di giornata, ma per recitare, quella spada è stata impugnata ancora, ancora ha combattuto e ancora s'è spezzata nel suo sorriso infelice - Tornate a quella cinica frase, che sembra tratta dal grande Luigi Pirandello: «Non è fatica recitare, tutti noi lo facciamo ogni giorno». Disprezzando l'arte, Brando l'affermava. Perché la sua vita era il personaggio, il cuore lacerato dell'esistenza. Solo Orson Welles ebbe la sua coerenza e la sua dialettica nel recitare, mutare ruolo e confermarsi persona. Welles però tenne fermo il sorriso, un ghigno che poteva essere diabolico, ma che forse dissimulava una speranza. Non Brando: a Brando si addiceva l'aggettivo di «virile», perché non dava alternative, vivere la propria condizione senza scarti, essere se stessi senza lasciarsi modificare dalla realtà. Sopraffare sì, dall'assurdo intorno a se, ma senza rinunciar alla propria umanità. Il conformismo che la sicurezza richiede, ieri con l'America nucleare di Eisenhower oggi con la lotta al terrorismo di George W. Bush veniva alle mani con la virilità di Brando e con la forza dei suoi personaggi. La Parigi a tinte violente che Bertolucci costruisce per lui e la ninfa Maria Schneider, è l'ultimo campo di battaglia della resistenza all'ordine del caos. Il regista italiano propone, in chiusura dell'esplosione anni Sessanta, uno scontro risolutiva tra Eros e Tanatos, amore e morte. L'ossessione erotica può guarire dall'assurdità di un Occidente dove i ruoli sono ormai scanditi per tutti? L'esito stesso del film mostra la verità che ogni lettore di Casanova e ogni ascoltatore di Don Giovanni conosce: non c'è salvezza nell'Eros, ma una brevissima, bruciante felicità, identità che altrimenti non si ottiene. Brando assunse su di sé il peso di far da coscienza al pubblico, di non coltivarne vizi e passioni, ma di richiamarlo sempre a uno sforzo di maturazione. Vanitoso denunciava con una smorfia il narcisismo. Egoista mostrava con un brontolio la povertà dell'egoismo. Solitario implorava con i silenzi solidarietà. Se ne è andato, ha chiuso il guardaroba con le t-shirt, i jeans a borchie, le robe del Selvaggio, il doppiopetto e le camicie del Padrino, il paletot cammello dell'Ultimo Tango. Il novecento è finito, e nel XXI secolo non c'è nessuno che ci incoraggi con un ghigno, incalzandoci verso un futuro drammatico, illudendoci giorno dopo giorno che «come se l'è cavata Brando sullo schermo me la caverò io oggi nella vita».

FERNANDA PIVANO

Un giorno, una bella, dolce giornata di sole come ci sono solo a Roma, ero sul terrazzino della mia casa, e improvvisamente c'è stato in cortile un gran trambusto. Bernardo Bertolucci, mio vicino di casa, stava girando il suo glorioso Ultimo tango a Parigi e riceveva spesso, molto spesso Maria Schneider, con quel suo charme che le attirava attenzione, e anche qualcosa di più, sempre con una gran folla che cercava di avvicinarla. Ho pensato che fosse Maria Schneider, ma poi avevo capito che c'era qualcosa di diverso, e mi ero affacciata dal mio terrazzino fiorito, sul profumo del cortile fiorito, già gremito delle mie fiorite, bellissime vicine di casa. E mentre guardavo tutto quel chiasso, eccolo lì, nel mezzo del cortile, imbronciato come sempre, fascinoso come sempre, pericoloso come sempre; eccolo lì il Marlon Brando supermaliardo, che ancora una volta non sembrava vero. L'idea che fosse venuto a trovare il suo regista lo rendeva vero; ma con lui, tra i fiori e i profumi di quel cortile, s'erano raccolti i nostri sogni, la nostra incredulità per una civetteria che rendeva leggendario un ragazzo nato qualunque, la nostra incantata ammirazione per il personaggio di se stesso che aveva inventato prima di tutti quelli recitati sullo schermo. Chissà perché quando è passato davanti al mio cortile ha alzato lo sguardo; così mi ha visto lì a guardarlo, e ha capito tutto, si è fermato perché scendessi. Naturalmente i suoi accompagnatori non me lo hanno permesso. Ma oggi a pensarlo bloccato su una sedia a rotelle con i suoi spietati 160 chili mi ha restituito quello sguardo di invito, gentile, fascinoso, ignaro di arroganza o di violenza, consapevole solo della libertà per cui si era battuto tutta la vita. Forse la libertà l'ha finalmente raggiunta, aiutato da Cristo, Buddha, Maometto, Krishna, tutti gli dei, per ringraziarlo di quello che ha fatto per il Pianeta con la sua onestà e il suo esempio.

News

Prosegue il focus sui titoli che si contesero l'Oscar nel '53: è la volta di Giulio Cesare, il dramma...
Brian Oliver porterà al cinema il libro sulla vita dell'attore: The Way It's Never Been Done Before.
La censura al film è frutto di un'isteria istituzionale, di una reazione sproporzionata e (con gli occhi di oggi)...
Tormenti e scandali nel film ultrapopolare di Bertolucci. La versione restaurata torna al cinema il 21-22-23 maggio.
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