Regista statunitense, Joshua Oppenheimer è uno dei più significativi autori cinematografici contemporanei.
Candidato due volte all'Oscar e pluripremiato all'interno di altri festival internazionali, è considerato uno dei documentaristi più importanti della sua generazione, per aver rivoluzionato il genere con un approccio unico sulla narrazione visiva e sulla rappresentazione della memoria storica.
Il suo stile distintivo si basa su una grammatica che sfida le convenzioni del documentario tradizionale, creando un'esperienza immersiva e spesso disturbante per lo spettatore, che segue una combinazione di mise en scène teatrali, ricostruzioni performative e interviste, entrando nella psicologia dei protagonisti.
Focalizzato sulla denuncia di crimini contro l'umanità, Oppenheimer trasforma l'espressione comunicativa in un inquietante gioco di autorappresentazione, dove gli intervistati diventano attori delle loro stesse memorie, replicandole in maniera anche surreale. Fondamentale, in questo caso, è l'uso del montaggio che fonde passato e presente, creando un senso di disorientamento sulla stratificazione temporale, tale da costringere lo spettatore a confrontarsi con la realtà nuda e cruda della violenza.
Lunghe inquadrature statiche, l'uso del controcampo e piani fissi permettono poi ai soggetti di rivelare le proprie emozioni senza interruzioni, aumentando il senso di tensione e creando un dialogo visivo che amplifica il peso del racconto. A impreziosire il tutto, c'è l'uso dell'illuminazione e del colore per enfatizzare la realtà e la finzione, creando atmosfere oniriche e inquietanti.
Un lavoro di ridefinimento del genere che Oppenheimer rende strumento di indagine storica, portando alla luce eventi dimenticati e costringendo i carnefici a confrontarsi con le loro azioni.
Studi
Nato in una famiglia di religione ebraica a Austin, in Texas, nel 1974, cresce tra Washington D.C. e Santa Fe, studiando e laureandosi con lode in Arti prima ad Harvard e poi al Central Saint Martins di Londra.
Diventato professore di cinema presso la University of Westminster, firma i suoi primi cortometraggi a partire dal 1995.
Hugh (1995), These Places We've Learned to Call Home (1996), The Challenge of Manufacturing (1997), The Entire History of the Louisiana Purchase (1997), The Globalisation Tapes (2003), A Brief History of Paradise as Told by the Cockroaches (2003), Market Update (2003), Postcard from Sun City, Arizona (2004), Muzak: a tool of management (2004) diventano opere fondamentali per comprendere l'evoluzione del suo stile e dei temi che sceglierà di esplorare anche nella sua produzione futura, mostrando già il suo interesse per la memoria collettiva, la rappresentazione della violenza e il potere della narrazione visiva.
Affinando un approccio cinematografico sperimentale, Oppenheimer imprime su questi titoli una forte componente meta-narrativa, dove i protagonisti rievocano eventi traumatici, e getta le basi per l'innovativa concezione del documentario, che non deve più limitarsi a raccontare la realtà, ma interrogarla, reinventarla, sfidarla, costringendo lo spettatore a seguire la complessità della storia e a sentire il peso della propria responsabilità morale.
Le due candidature agli Oscar
Nel 2012, firma il suo primo lungometraggio di genere documentaristico, L'atto di uccidere, che pone sotto la lente d'ingrandimento gli anni successivi al colpo di stato militare indonesiano del 1965, quando i paramilitari della Gioventù Pancasila, che appoggiavano il regime e aiutati da sadici criminali, uccisero più di un milione di presunti comunisti, rimanendo impuniti e, anzi, diventando persone influenti della politica asiatica.
Grazie a quest'opera si assiste non alla negazione dello sterminio da parte degli autori, ma alla sua esaltazione da parte degli stessi. Oppenheimer penetra dentro una nuova scellerata porta della crudeltà umana e sui crimini che questa arriva a compiere. Incontri agghiaccianti che rivelano gli oscuri impulsi dei primi e, soprattutto, la loro riluttanza ad affrontare le azioni di cui si sono macchiati.
Non poteva mancare una candidatura all'Oscar per il miglior documentario nel 2014, ma anche il Premio Ecumenico della Giuria al Festival di Berlino, un BAFTA, un European Film Award e un Gotham nella stessa categoria.
Due anni più tardi, risfiora l'Oscar con The Look of Silence, sempre incentrato sul genocidio indonesiano tra il 1965 e il 1966, all'interno del quale una famiglia scopre, attraverso il lavoro compiuto durante la realizzazione di L'atto di uccidere, l'identità dell'assassino di uno dei loro figli. Oppenheimer seguirà uno dei parenti della vittima che incontra l'omicida, cominciando a dialogare con lui.
Questa sorta di sequel di L'atto di uccidere, bellissimo da un punto di vista estetico e ancora più tagliente del precedente, rimesta nel sangue in cerca di un possibile balsamo che possa quietare la rabbia di chi ha visto i propri familiari ammazzati atrocemente, ma vi trova solo l'orrore di un Male arendtiano.
Il film partecipa alla Mostra del Cinema di Venezia e vince il Gran Premio della Giuria e viene esaltato dalla critica del settore come uno dei documentari più grandi e potenti che siano mai stati girati, perché intenso commento senza fiato alla condizione umana.
Il primo film di finzione
Staccatosi dal genere documentaristico, insolitamente, sceglie il genere del musical per il suo primo lungometraggio di finzione con The End, del 2024.
Ambientato in un mondo post-apocalittico, nel quale una famiglia altolocata vive in un bunker sotterraneo, arredato come una casa di lusso, Oppenheimer racconta a suon di canzoni gli squilibri familiari, conseguenti all'arrivo di una sconosciuta che rompe l'idillio. Un titolo che è lo specchio dei nostri tempi e che si concentra sul tema dell'autoinganno, un meccanismo che mettiamo in moto ogni volta che ci rifiutiamo di guardare in faccia la realtà.
Vita privata
Joshua Oppenheimer è il marito dello sceneggiatore Shusaku Harada. La coppia vive a Copenhagen, in Danimarca.