Ermanno Olmi è un attore italiano, regista, produttore, co-produttore, scrittore, sceneggiatore, fotografo, montatore, scenografo, costumista, è nato il 24 luglio 1931 a Bergamo (Italia) ed è morto il 7 maggio 2018 all'età di 86 anni ad Asiago (Italia).
Trasferitosi giovanissimo a Milano, si impiegò presso la Società Elettrica Edison-Volta, al cui interno creò una sezione cinematografica, la Sezione Cinema Edison-Volta, per la quale realizzò, negli anni dal 1952 al 1961, una trentina di cortometraggi documentaristici, di carattere tecnico-industriale; fra questi si distinguono Manon: finestra due (1956), Tre fili fino a Milano (1958), Un metro è lungo cinque (1962). Il suo primo lungometraggio, nato anch'esso come documentario e poi trasformatosi in un film a soggetto, Il tempo si è fermato (1960), è la storia dell'amicizia fra uno studente e il vecchio guardiano di una diga, isolati nella solitudine e nel silenzio di una località di alta montagna. La storia, che presenta evidenti legami estetici e contenutistici con il cinema neorealistico, ha già in sé le principali componenti del cinema di Olmi: la tendenza ad evitare lo spettacolo fine a se stesso, privilegiando l'analisi della realtà quotidiana, attraverso l'approfondimento degli stati d'animo e delle problematiche esistenziali di gente comune, di individui che non hanno niente di eccezionale o di eroico, che vivono la propria esistenza a contatto con gli altri, ma senza riuscire a stabilire veri e profondi legami con i propri simili, così che, in ultima analisi, ciascuno rimane immerso nella propria solitudine. Tali caratteristiche emergono anche ne Il posto, un film diretto nel 1961, che confermò la capacità di Olmi nel tratteggiare con sensibilità personaggi e ambienti; in questo caso, attraverso la storia e le esperienze di un giovane di modesta famiglia, alla ricerca del suo primo posto di lavoro. Tali doti ricomparvero due anni dopo, approfondite, ne I fidanzati, un film in cui, pur con qualche discontinuità, Olmi delineò un ritratto di operaio tra i più autentici del cinema italiano. Notevoli anche, benché di più spiccato impianto documentaristico, due film prodotti dalla RAI: Un certo giorno (1969) e I recuperanti, girati entrambi nel 1969. Nel secondo di essi, il regista, fedele alle sue tematiche, presentava al pubblico la vita solitaria, durissima e pericolosa, di coloro che traevano i mezzi per sopravvivere dal recupero (di qui il titolo) dei residuati bellici di ogni genere, soprattutto in alta montagna. Olmi conservò immutati intenti e valori in tutta la sua filmografia; lo dimostra uno dei suoi film più impegnativi, L'albero degli zoccoli (1978), prodotto anch'esso dalla RAI, che lo trasmise sulla prima rete televisiva il 24 dicembre 1979; un grande affresco della civiltà contadina, ritratta fedelmente con i suoi profondi valori umani e morali, ma anche con le durissime sofferenze causate dalla miseria, dall'ignoranza, dall'incolmabile solco esistente fra coloni e proprietari terrieri (il protagonista viene cacciato dal podere in cui la sua famiglia ha lavorato per generazioni per aver tagliato, di nascosto al padrone, un alberello di pioppo con cui fabbricare un paio di zoccoli per il figlio più piccolo, così che non debba andare a scuola percorrendo chilometri di strada a piedi scalzi). Il film, che fu girato in bianco e nero e in dialetto bergamasco, vinse la Palma d'oro a Cannes. L'interesse di Olmi per il documentario traspare anche dai film da lui girati su personaggi particolarmente significativi della nostra storia contemporanea, come Alcide De Gasperi, Don Milani, Papa Giovanni XXIII; a quest'ultimo è dedicato il film ... e venne un uomo, girato nel 1965. Nel 1982, dopo avere superato una grave malattia, Olmi aprì a Bassano del Grappa una scuola di regia, Ipotesi Cinema, che ha ottenuto un notevole successo. Fra i prestigiosi riconoscimenti da lui ricevuti vanno ricordati anche il Leone d'argento al Festival di Venezia (1987; Lunga vita alla signora!) e, nel 1988, il Leone d'oro, con La leggenda del santo bevitore, un film di straordinario livello artistico. Olmi è apparso anche come attore in un ruolo di secondo piano in Una storia milanese (1962, Luchino Visconti).
E, a proposito di antropologi e poeti, un altro grandissimo regalo della collana «Real Cinema », della Feltrinelli, riguarda Ermanno Olmi. Anche in questo caso dvd+ libro: Gli anni Edison-Documentari e cortometraggi 1954-1958. Chi è Olmi lo sanno tutti, ma questi brevi film, anche loro "ufo" provienienti dagli anni 50, sono stati per lungo tempo "invisibili". Gustiamoci con religiosa attenzione, dunque, La pattuglia del Passo San Giacomo, La diga del ghiacciaio, Manon finestra 2, Tre fili fino a Milano. E poi i saggi del libro, dal decano Morando Morandini a Tullio Kezich, da Adriano Aprà a un lungo brano di Giovanni Testori (Far la serva a Milano) tratto da La Gilda del Mac Mahon.
Da Il Sole-24 Ore, 28 dicembre 2008
«Mi piacerebbe che la politica ritrovasse il gusto del progetto e fosse capace di scrivere una promessa credibile per il futuro. Tante volte mi hanno chiesto di candidarmi, di schierarmi: mi sono sempre rifiutato. Se dovessi definirmi, direi di essere stato sempre un uomo libero, un cinematografaro – come mi piace questa parola, com’è brutto dire cineasta – senza un impegno politico. L’accusa più ricorrente, contro di me, è sintetizzata in una critica: “Si nota il limite cattolico dell’autore” dissero di un mio lavoro, tanti anni fa, mentre io non ho mai neppure sottoscritto il cattolicesimo. Sono soltanto un aspirante cristiano e penso che la migliore ideologia consista nel non essere schiavi dell’ideologia. Pratico l’ideologia del dubbio: mi spaventano quelli che pensano di aver capito tutto. Quando ho cominciato a girare, c’era, eccome, un’egemonia di sinistra. Chi stava di là poteva raccontare quel che voleva, gli altri faticavano. Con Goffredo Lombardo, gran signore napoletano che regnava sulla Titanus, prima casa di produzione nazionale, provammo a fare un film sulla ritirata di Russia, raccontata nei suoi libri da Mario Rigoni Sterni Andai a cercare i luoghi adatti, partii prima per Mosca e poi per la Cecoslovacchia, finalmente trovai il paesaggio giusto. Eppure, dopo tanti incontri, sempre con le stesse persone, non riuscivo a capire perché mancasse sempre l’autorizzazione finale. Dopo un anno di tentativi, il mio intermediario del Pci mi disse: “Ma ancora non hai capito? Tu non sei affidabile, non ci garantisci”. E l’anno dopo, il 1964, Giuseppe De Santis, iscritto al partito, girò Italiani brava gente, lui era in linea. Io no. Rimasi addolorato, allora. Adesso sorrido.»
E il sorriso – di una dolcezza assoluta – la forza di questo maestro del cinema che ha prima vissuto e poi raccontato storie diverse da quelle di tutti gli altri. Scomponendo e allentando tempi e ritmi, movimenti e sguardi, girando lui stesso come operatore molte delle sequenze dei suoi capolavori, Ermanno Olmi ci ha costretto a fermarci – anche se soltanto da spettatori – sul massacro della civiltà rurale e contadina imposto dalla modernizzazione violenta del dopoguerra. E lo ha fatto in modo naturale: c’era la sua vita, c erano i suoi valori, c’era il suo quadernino immaginario di ragazzino trasferito dalla campagna bergamasca alla Bovisa, il quartiere della sua adolescenza, nella scena finale dell’Albero degli zoccoli. Lo raggiungo in riva al mare, in una sorta di eremo, lontanissimo dai tragici eventi che sconvolgono il pianeta. Qui, nel mondo magico costruito da Camillo Guerra – imprenditore e artista-antiquario del turismo, proprietario della masseria Il Melograno e della Peschiera, sette stanze sugli scogli che ti fanno sentire sospeso sull’acqua – la violenza dell’universo non arriva. C’è solo quella delle onde. Siamo in Puglia, sulla costa, a metà strada fra Bari e Brindisi. Da trent’anni, il Maestro – così lo chiamano tutti, in un sussurro che mi accompagna da lui – passa alcuni giorni in vacanza qui. «La prima volta arrivai con la roulotte, per accontentare i figli. Da allora, torno ogni estate. Mi fa bene guardare questo cielo infinito, come ho scritto nella frase che accoglie gli ospiti di Camillo: “Sei qui seduto a non far nulla, ma ti accorgi di non perdere tempo”.»
Il tempo di Olmi è un tesoro che il regista custodisce con cura. Quarant’anni dopo le critiche e le difficoltà che allora bruciarono e oggi gli sembrano medaglie, i milanesi fanno a gara per riscoprire «gli odori, i colori, le stagioni. Hanno capito che il prezzo pagato per il salto nella cosiddetta società del benessere è stato molto alto: l’immagine vincente dell’uomo sempre indaffarato si è sfocata. Tutti si sono accorti di aver perso l’immediatezza dei rapporti umani, anche quelli che negavano l’esistenza stessa di una cultura contadina, provinciale, lontana e diversa da quella delle metropoli di allora. Mia nonna, Maddalena Teresa Ronchi – si chiamava così perché suo padre, ubriaco dalla felicità, dette due nomi diversi all’anagrafe e in chiesa – si rifiutava di mangiare con la forchetta, diceva: “Io ho cinque dita, lei solo quattro”. Eppure, sapeva della natura umana più di tanti scienziati. Mio padre Giambattista, ferroviere socialista, era stato esonerato dal fascismo e, dopo due anni di disoccupazione, fu assunto dalla Edison. A quei tempi si diceva: “Chi volta il culo a Milano, volta il culo al pane”, un detto che forse vale anche oggi e, mi scuso, in dialetto è meno volgare. Arrivati in città, mi stupirono gli odori: il gas di cucina, il ferrigno sapore del tram, il grasso di macchina che sentivo addosso a mio padre. A quindici anni, entrai anche io alla Edison, come dipendente. Ricordo che anche altissimi dirigenti come Giorgio Valerio e Vittorio De Biase, quando incontravano un impiegato, lo salutavano togliendosi il cappello. Al dopolavoro aziendale, misi su una compagnia che portava in giro gli spettacoli di moda allora nei teatrini degli oratori delle nostre valli, ci accoglievano come i divi di Hollywood. Non avevano mai visto un attore. Vedi, a quel tempo, nella nostra bergamasca, le donne erano più o meno come le islamiche che oggi ci danno scandalo:tutte vestite di nero, sedevano in chiesa separate dagli uomini, tutte davanti». I dirigenti premiano l’impegno del giovane impiegato con un regalo. Una macchina da presa, «il mio sogno». Documentari, film e caroselli. Ermanno Olmi girò, «per il bilancio familiare», gli spot per «Cinzano, Caffè Hag, Grappa Piave, la cintura del Dr. Gibaud, che allora ero troppo giovane per apprezzare. Il mio non era un cinema facile e così, fino al 1978, accettai volentieri – insieme a tanti altri colleghi – la pubblicità per la tv. Era anche un modo per non aver bisogno di favori politici. Ho avuto un solo amico, vero, nella Democrazia cristiana. Era Mariano Rumor, una persona semplice: ci trovavamo sull’altopiano di Asiago, fu ingiustamente accusato. Non ha mai preso una lira per sé, aveva due stanzette, fu vittima di una lotta sleale, morì più povero di come era nato. D’altra parte, anche De Gasperi fu diffamato per una villa in Trentino, che era di proprietà di sua moglie. Lo scoprii quando girai, nel 1974, un film su di lui per la Rai. Film che fu censurato, a mia insaputa: tagliarono le scene in cui lui consegnava alla moglie la lista dei nomi degli amici che lo avevano tradito. È stata l’unica censura: con Ettore Bernabei riuscii persino a mettere in scena un sant’Antonio irriverente, che tuonava contro la vanità dei vescovi: “Pensano di essere dei pavoni, e invece mostrano alla folla soltanto il loro deretano” gridava il santo di Padova. E Bernabei, vedendolo, mi abbracciò: “Dio bono, ci vuole coraggio, sono proprio queste le cose che dobbiamo far vedere! ». La religione di Olmi «non dev’essere scolpita nel granito», deve accompagnare chi sa essere attento a cogliere «quei segnali che danno speranza all’uomo». Difficili da trovare, «eppure, se migliaia di persone ascoltano Vittorio Sermonti che legge Dante, vuoi dire che la cultura del nulla non ha ancora vinto». Il Maestro ha un progetto quasi scandaloso, «vorrei raccontare in tv la storia di Giangiacomo Feltrinelli, mi ha molto colpito il libro del figlio Carlo, Senior Service, ha quasi un andamento manzoniano. Nella vita tragica del ribelle Giangiacomo, esponente della solida e ricca borghesia milanese che si scontra con la spinta culturale dei nuovi arrivati, nella sua scelta di far pubblicare in Italia libri, parole e linguaggi che hanno cambiato la società, c’è qualcosa di profondamente cristiano. Tradito dai suoi stessi amici, sfidato dal questore che lo accusa di essere vile, di fare il rivoluzionario miliardario che manda gli altri a mettere le bombe, Giangiacomo è costretto a mettersi alla prova». Il tempo, con Olmi, vola leggero. Liberi dagli orari, veniamo richiamati con affetto dal padrone di casa. Ci aspetta in quella nave di pietra che ha costruito sulle rovine di una peschiera borbonica: si mangia e si parla ancora per ore, eppure non si perde tempo
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006
Nel 1961, in occasione della premiazione del documentario di Ermanno Olmi Un metro lungo cinque al Festival del cinema industriale di Torino, Rossellini dichiara «Questo modo di fare il cinema significa scoprire il mondo».
Rossellini, com'è noto, è stato uno dei pochi registi del cinema mondiale (un vero e proprio «padre Adamo» come lo ha definito Fellini) la cui lezione sia stata diffusa ai quattro angoli della terra da allievi e discepoli e in un panorama vario e dalle diramazioni imprevedibili Olmi appare come uno dei più legittimi interpreti della lezione rosselliniana.
Aveva ragione Christian Depuyper nel definire Olmi - in occasione di un omaggio francese al regista - come «il più solitario e nello stesso tempo il più coerente dei registi italiani del dopoguerra». La sua condizione e la sua scelta di operare ai margini della grande produzione non gli impediscono di assumere naturalmente il ruolo di punto di riferimento per molto cinema indipendente e soprattutto quello di maestro.
Olmi possiede naturalmente il carisma del maestro fin dai suoi primi atti compiuti ai margini del territorio cinematografico più legittimato dalla critica. In effetti a ben guardare lo spirito che ha guidato dagli inizi a oggi le sue scelte cinematografiche riesce a cogliere il cuore, il nucleo profondo del progetto del grande cinema italiano del dopoguerra. Maestro, nel suo caso, è un individuo che mostra di saper raccogliere un'eredità culturale, di saper far rivivere dei saperi che altrimenti andrebbero perduti. Maestro, nel suo caso, significa saper far diventare naturalmente il suo corpo creativo e culturale un ponte attraverso cui altre generazioni possano passare.
Il regista fa propri alcuni aspetti del magistero rosselliniano, ma anche di autori come Bresson, Resnais, Dreyer, Mizoguchi, aggiungendovi di suo un rispetto per il mestiere e un'etica che non lo vedranno mai piegarsi, nonostante insuccessi e stroncature, a compromessi, cedimenti alle mode o alle leggi del mercato. Sa raccogliere l'eredità del neorealismo senza che le sue scelte ne ricalchino le strade canoniche, ma anche di tutta una serie ulteriore di saperi che altrimenti andrebbero perduti. In un periodo in cui il patrimonio artigianale del cinema è disperso e cancellato, Olmi appare come una sorta di reincarnazione dell'artista rinascimentale ed è ancora oggi una delle poche figure in grado di dominare tutti gli aspetti realizzativi del film e di esplorare le frontiere degli effetti speciali in film come Cantando dietro i paraventi. È uno dei registi che più vuole e sa sperimentare la macchina da presa come strumento di ricerca, luogo di confluenza e metamorfosi di molti tipi di affabulazione, orale, di scrittura visiva, poetica, letteraria e musicale.
La sua carriera e il suo tipo di lavoro sono tra i più irregolari di tutto il cinema del dopoguerra. Olmi è un autodidatta che inizia la sua attività come cineamatore e che, per una decina d'anni, si forma girando documentari per e sul lavoro della Montedison. Nei documentari della fine degli anni Cinquanta (Tre fili a Milano, 1958; Un metro lungo cinque, 1959; Alto Chiese, 1961) mette a punto competenze tecniche e linguistiche che gli consentiranno di passare, senza stacchi, al lungometraggio. Olmi si è trovato a riprodurre in piccolo l'esperienza del documentarismo inglese degli anni Trenta del General Post Office idi John Grierson. Egli ha la possibilità di incontrare, per l'ideazione di questi documentari, Parise, Pasolini e di collaborare con loro, apprendendo così tutte le tecniche del processo realizzativo, dall'ideazione alle riprese al montaggio.
Dalla lezione del grande documentarismo civile americano, oltre che da quella rosselliniana, egli riceve la spinta a osservare gli aspetti comuni della vita e a rintracciare nei gesti quotidiani valori assoluti. Negli anni in cui il lavoro operaio, la fabbrica e la trasformazione dell'assetto industriale del paese non trovano un immediato riscontro nel cinema, quanto piuttosto una rappresentazione metonimica e in negativo (le conseguenze e gli effetti più che le cause), e sono comunque un'esperienza culturale, Olmi è in grado di raccontare vicende che hanno coinvolto direttamente il suo vissuto personale. Il suo punto di vista è l'unico interno al tema rappresentato. Quando altri registi, da Lizzani a Visconti a Scola si vedranno negare l'accesso alla fabbrica per le riprese di loro film negli anni Sessanta e Settanta, Olmi riesce a muoversi con assoluta libertà rappresentativa e a raccontare dall'interno il lavoro operaio offrendo una testimonianza diretta così forte e significativa da costituire oggi una fonte indispensabile degna di misurarsi con le opere letterarie e poetiche di Ottieri, Bianciardi, Volponi e Pagliarani.
Olmi ha l'esatta percezione di cosa succede nella trasformazione dei gesti del contadino che diventa operaio, della rivoluzione epocale che, nell'arco di pochi anni, travolge un mondo la cui velocità di trasformazione è stata costante per secoli. Nessun regista prima di lui si era spinto fino a interrogarsi su cosa succede nella testa di un contadino che passa improvvisamente al tornio e diventa operaio o qual è la profonda trasformazione antropologica nei gesti dell'italiano popolare che viene sbalzato di colpo da una civiltà agricola a una civiltà industriale.
Il lungometraggio d'esordio, II tempo si è fermato (1961), segna un punto d'arrivo di questa prima fase della sua attività: l'esperienza documentaristica confluisce nel racconto di un «breve incontro», a 2.500 metri di altezza, tra un vecchio montanaro e un ragazzo che viene dalla città. Tagliati fuori dal mondo due universi distanti iniziano un lento processo di avvicinamento e di conoscenza reciproca attraverso una comunicazione fatta di sguardi, silenzi, e l'uso assai parco delle parole.
La caduta dell'incomprensione e della diffidenza tra il lavoratore e l'intellettuale ci viene raccontata in termini essenzialmente visivi.
Il giovane regista rivela subito la sua capacità di osservatore partecipe e discreto di comportamenti. Non c'è mai facile affettività o ricatto emotivo nei suoi primi piani. Il volto per lui è come un paesaggio che muta di continuo, ma conserva anche tracce profonde delle condizioni di vita della persona. Nella sua poetica, come nella sua tematica, ciò che gli interessa di più è la scoperta degli spiragli positivi, dei meccanismi disalienanti. Nei primi piani, nei rapporti tra personaggi e ambiente, si cerca di trovare l'anello capace di spezzare la catena dei gesti ripetuti e alienati. Diversamente da Pasolini, che fa sentire il senso della fisicità del rapporto tra il suo sguardo e i volti e i corpi dei «ragazzi di vita», Olmi si accosta ai personaggi e cerca di seguirne i processi comunicativi indiretti con gli altri. Gesti, sguardi, silenzi prolungati, frasi lasciate a metà... Il detto che gli interessa è quello che il personaggio sa esprimere con la sua semplice presenza significante in un ambiente. Anche Olmi è una presenza implicita nei suoi film: il suo tocco è così leggero da risultare spesso inawertibile. Con felice espressione il critico francese Christian Depuyper ha definito nel corso di un convegno dedicato a Olmi (a Fiesole nel 1987) il cinema di Olmi come «ipodermico», nel senso che ti fa passare sotto la pelle del personaggio. Pochissimi registi del cinema mondiale sono dotati di simili qualità.
Nei documentari, nel Tempo si è fermato, nel Posto (1962), che segna l'inizio di una seconda fase operativa, o nei Fidanzati, Olmi riesce a esplorare naturalmente, senza dichiarati supporti ideologici, o intenzioni di denuncia, o scopi illocutivi o moraleggianti, un insieme di comportamenti comuni e a dare la sensazione di come quei gesti scandiscano, in larga misura, la vita quotidiana.
Di fronte al secondo lungometraggio la critica avverte confusamente la presenza di un autore, eppure prova disagio di fronte a una denuncia della solitudine non gridata ma detta in modo sommesso e non per questo meno disperato. «Raramente ho visto sullo schermo una scena di squallore pari a quello che promana dal veglione di carnevale. Si tratta di uno squallore la cui pittura pare crudele ed è pietosa».
Su «Cinemasessanta» Mino Argentieri non è tenero con il quasi esordiente regista e lo giudica «inadatto a rielaborare criticamente e ad approfondire gli spunti dei suoi modelli preferiti e privo di una individualità autonoma».
Rispetto ad Antonioni, che parte dall'alienazione intellettuale, Olmi mostra l'alienazione partendo dal mondo operaio, dalla materialità del lavoro, delle operazioni e delle attività esecutive, dalla chiusura dell'esistenza entro un orizzonte prevedibilmente sempre eguale.
Attraverso Il posto, Durante l'estate, Un certo giorno e La circostanza, il regista esplora quella che per lui è una fenomenologia dell'alienazione quotidiana in soggetti che occupano ruoli diversi nell'organigramma lavorativo. In parallelo però, con Il tempo si è fermato, I fidanzati, fino all'Albero degli zoccoli, egli riesce anche a far vedere come attraverso il lavoro si possa recuperare il senso dei rapporti umani, affettivi e sociali. È un motivo che pone al vertice dei suoi interessi più autentici.
I fidanzati è la sua risposta a Rocco e i suoi fratelli: mostra un processo inverso di sradicamento e di viaggio in direzione eguale e contraria dal Nord al Sud rispetto alla famiglia Parondi. I modi dell'enunciazione stilistica o tematico-ideologica hanno gradi di intensità e di costruzione drammatica altrettanto dissimilati, puntando Olmi alla riduzione degli effetti.
C'è qualcosa della letteratura di fabbrica degli stessi anni (di Ottieri e Volponi) nel cinema di Olmi, e anche qualcosa di più e di diverso.
Nello stesso anno dei Fidanzati (1963), assieme a Mario Rigoni Stern scrive, adattandolo, un soggetto cinematografico tratto dal Sergente nella neve. È il primo tentativo di realizzare un'opera di più vasto respiro storico ed epico. Il film non trova un realizzatore mentre, qualche tempo dopo, egli può realizzare, con mezzi assai più cospicui di quelli goduti finora, E venne un uomo (1965), sulla vita del papa Giovanni XXIII.
Con questo film il regista intende pagare un contributo diretto al suo cattolicesimo militante. Ispirato a episodi della vita di Angelo Roncalli precedenti il papato, tratti dal diario Il giornale dell'anima, il racconto è detto da un mediatore (l'attore americano Rod Steiger) che, nel corso del film, assume più ruoli, da commentatore a spettatore, a controfigura vera e propria del pontefice.
Una struttura così segmentata può, alla lontana, richiamare quella di Quarto potere: anche se la biografia di Roncalli si svolge lungo tappe lineari, Olmi cerca di spostare l'attenzione sul mondo contadino, entro cui il futuro pontefice vive i primi anni, e sul processo spirituale che lo porta a scoprire la vocazione e a compiere i passi necessari a realizzarla. Vi sono soluzioni narrative forse facili (a partire dai frequenti parallelismi tra la vita di Angelo Roncalli e quella di Gesù Cristo), ma vi sono anche novità stilistiche e aspetti di sperimentazione e di rappresentazione destinati a fruttificare nel lungo periodo.
Tra la biografia di Giovanni XXIII e L'albero degli zoccoli del 1977 Olmi «realizza in sordina quattro pellicole che nella produzione italiana di quegli anni occupano un posto di assoluto riguardo: Un certo giorno (1968), I recuperanti (1969), Durante l'estate e La circostanza (1974): lo smarrimento dei valori umanistici ed etici in un mondo dominato dalla legge del profitto e della pianificazione tecnologica». Tra il 1967 e la metà degli anni Settanta - in collaborazione col giornalista e scrittore Corrado Stajano - Olmi realizza una serie di documentari per la televisione (Don Primo Mazzolavi, La fatica di leggere, Nascita di una formazione partigiana, In nome del popolo italiano). Sono documentari in cui si cerca di capire come avviene il passaggio dalla dittatura alla Repubblica, quali sono le tappe che ne segnano la storia, quali le speranze, che volto hanno gli attori e protagonisti vecchi e nuovi della scena sociale. Esterna, ma non certo minore, l'esperienza dei Recuperanti, su testo di Mario Rigoni Stern, che segna il tentativo di radicamento culturale nell'altopiano di Asiago, dove, da qualche tempo, ha fissato la sua residenza. Ma anche getta un ponte ideale tra i montanari dell'altopiano, rimasti senza lavoro dopo la seconda guerra mondiale che, pur di evitare l'emigrazione, iniziano il recupero dei residuati bellici della Grande Guerra, e i poveri contadini bergamaschi dell’Albero degli zoccoli.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007
In genere la rappresentazione del mondo contadino dell'Albero degli zoccoli non ha trovato unanimi consensi da parte di una critica che non ha saputo vederne lo sviluppo coerente rispetto alla produzione precedente e ha semplicisticamente identificato e confuso la simpatia per i personaggi del mondo rappresentato, l'ideologia dell'autore con quella dei personaggi. Negli «anni di piombo», quando le frange terroristiche sferrano i loro attacchi al cuore dello Stato e sembrano venir meno per la prima volta le grandi bussole d'orientamento ideologico, le spinte consociative, sotto i colpi degli attentati e dei sequestri, la morale rinunciataria dei contadini di Olmi, il loro senso di accettazione del destino appare agli occhi di molti critici come un'enunciazione al limite della blasfemia.
La discesa delle saracinesche ideologiche sugli occhi di molti critici inibisce ovviamente anche la visione e la possibilità di apprezzare il film per le sue qualità stilistiche, affabulatorie e narrative. Lo sguardo dei regista si adatta al tempo di vita dei suoi protagonisti, il film ha un andamento metrico, ritmico e prosodico che tiene conto della ciclicità delle stagioni, della recursività dei gesti, dell'armonia e dell'antinomia uomo/natura. Olmi osserva come piccole cause (il figlio di contadini che viene mandato a scuola, il taglio di un piccolissimo albero per fare gli zoccoli al bambino) producano enormi conseguenze, attivino catene di reazioni di lunga gittata. L'enunciazione del discorso narrativo e visivo di Olmi chiama in causa lo spettatore e ne provoca reazioni differenti. Realizzando un soggetto che gli stava a cuore da quasi vent'anni, Olmi costruisce un'opera che, in misura e con intenzioni diverse, e forse complementari rispetto a quelle di Novecento di Bertolucci, e con diverso spirito epicizzante, vuole contribuire alla costruzione di un monumento alla civiltà contadina. Partendo da un punto di vista anomalo rispetto alla tradizione letteraria, cinematografica e iconografica del dopoguerra sul mondo contadino, Olmi mette bene in evidenza le influenze culturali che gli stanno alle spalle. La storia della sua famiglia contadina bergamasca, racchiusa nel ciclo annuale delle stagioni, raccoglie e dispone con ordine, rispetto e attenzione, come finora nessun film aveva saputo fare, i momenti, i gesti fondamentali e il senso della cultura materiale di un mondo contadino travolti dall'avanzata industriale.
Olmi, come ha sottolineato Kezich, ha compiuto, rispetto ad altri registi che hanno caricato la rappresentazione del mondo contadino nei loro film di forti connotazioni culturali e antropologiche, «l'operazione più radicale: si è rifatto soltanto ai racconti della nonna materna e ai ricordi della propria infanzia [...]. Nessun precedente letterario e nessuna verifica di tipo storico o sociologico. Olmi si è mosso col solo sussidio di queste labili memorie».
Certo Olmi ha lasciato al di fuori della sua rappresentazione molti aspetti della vita contadina legati allo sfruttamento, alle malattie, alla mortalità, ma questo non vuoi dire che si tratti di problemi esterni al suo orizzonte conoscitivo e ideologico. Quello che ha cercato di fare - da un punto di vista opposto e simmetrico, mettiamo, rispetto a Visconti - è ricostruire il senso di una memoria, di una civiltà e di un mondo, di rappresentarne lo spazio e dentro a questo spazio le modalità di visione, di concezione della vita, di definizione di un sistema di rapporti. Ogni critico, ogni intellettuale, intervenuto sul film, ha dimostrato di possedere ben chiara una propria immagine di un mondo contadino e ognuno ha sovrapposto un suo presepe contadino, fatto di stereotipi e di immagini letterarie tutte diverse le une dalle altre. Olmi, grazie alla sua esperienza, ha lavorato molto sulla memoria collettiva e, in questo senso, ha consegnato, non solo alla storia del cinema, un documento sulla civiltà contadina destinato a durare nel tempo e a fare testo, in mancanza di altre fonti.
Nel cinema di Olmi il lavoro è visto nella dimensione reale e al tempo stesso eroica, vissuto come destino, come dignità, come valore, sia che si parli di contadini, di operai, di piccoli impiegati o di liberi professionisti. In tutti i suoi film circola un'etica del lavoro certo più vicina ai testi evangelici che alla tradizione delle lotte sindacali in cui l'accettazione del sacrificio è sempre e comunque itinerario conoscitivo fondamentale per raggiungere il significato autentico dell'esistenza.
La stessa sua idea di religiosità è inoltre intesa nel senso di creazione di forme di solidarietà e di legami (religere, appunto, nel suo valore etimologico) assunti e vissuti coerentemente da una comunità.
Dal punto di vista stilistico L'albero degli zoccoli è un film in cui i primi piani hanno funzioni nominali e verbali, manca il gusto dei movimenti di macchina, del periodare ampio mediante carrellate e panoramiche che si trova nel lavoro contiguo di Bertolucci. Il senso è tutto compresso in ogni singola inquadratura nella quale il regista riesce a raccontare una storia autosufficiente.
Alla lavorazione del film successivo, Cammina cammina, racconto morale, allegoria sulle responsabilità degli intellettuali, o sulla trahison des clercs, Olmi lavora per cinque anni. Il regista rivisita il racconto evengelico del viaggio dei re magi verso Betlemme con una libertà figurativa, inventiva e affabulatoria che lo rendono molto vicino allo spirito pasoliniano. Nuociono al film la programmatica intenzione dimostrativa, lo scarto tra la complessità delle soluzioni stilistiche e l'eccessiva semplificazione discorsiva. Mentre il film precedente - che aveva vinto al Festival di Cannes suscitando ammirazione nella critica internazionale («II Festival di Cannes è stato toccato dalla Grazia» aveva scritto qualcuno) - Cammina cammina lascia fredda la critica nazionale e internazionale e viene rifiutato dal pubblico.
In effetti Cammina cammina - come ha osservato Vito Attolini si può considerare un «film cerniera» nella carriera di Olmi (prima che la malattia ne modifichi ulteriormente le scelte e l'attività successiva). Cammina cammina è un vero e proprio apologo morale che viene reso esplicito fin dall'inizio mediante la scelta della compresenza di una messa in scena artificiosa che si mescola a una rappresentazione della realtà. Attraverso la ricostruzione del viaggio dei re magi e la descrizione del loro prendere atto della strage voluta da Erode senza sentirsi in obbligo di intervenire Olmi attacca frontalmente gli intellettuali e la loro «assenza» nei confronti della vita. La trasparenza del messaggio, i modi della sua enunciazione sembrano impoverire il film anche se in alcuni momenti si ha l'impressione di trovarsi di fronte - in assoluto - al vertice espressivo e di piena realizzazione stilistico-tematica del mondo di Ólmi, e anche se la mescolanza di stili e registri, il passaggio dai registri basso-comici a quelli solenni del tragico e dell'epica apre nuove dimensioni e prospettive allo stile del regista. La perplessità che rimane di fronte a quest'opera, comunque centrale nella carriera di Olmi, è che ethos e pathos non riescano a incontrarsi e a fondersi.
Con ogni probabilità l'insuccesso pressoché completo del film è una delle cause scatenanti della malattia che colpisce il regista poco tempo dopo, quando ha già avviato l'avventura della Scuola di Bassano, e ne inibisce qualsiasi attività per quasi cinque anni.
Lunga vita alla signora e La leggenda del santo bevitore ci pongono a contatto con un nuovo Olmi, che da una parte vuole rivisitare con un racconto allegorico, a venticinque anni di distanza dal Posto, il motivo dell'iniziazione al lavoro e dall'altra si avventura in una regia da un romanzo con attori professionisti, girata al di fuori dei suoi terreni naturali. Imprevedibilmente Olmi sembrerà ritrovarsi più in un ambiente familiare sotto i ponti della Senna o nei bistrot del Marais del secondo film, tratto dal romanzo di Joseph Roth - in cui con grande pudore inserisce motivi autobiografici e una meditazione generale sul senso della vita - ancor più che nello spazio claustrofobico di un castello trentino, dove viene festeggiata, con una cena interminabile, una vecchia signora che rappresenta un potere in coma, ma ancora capace di succhiare le energie migliori dai giovani. In Lunga vita alla signora il racconto si snoda davanti agli occhi stupiti e innocenti del quindicenne Libenzio, con la lentezza interminabile dei sogni, senza che accada nulla, o che nulla venga detto. Un balletto di primi piani di cavatappi al lavoro, di bicchieri alzati, di cambio di piatti, di movimenti di camerieri di una perfezione cronometrica, un gioco di sguardi e di atti di dominio e di sottomissione. Nessun «fascino discreto» in questi cerimoniali, ma l'emergere progressivo di un senso di saturazione e di repulsione morale e ideologica, ma anche sessuofobica, che culmina nella fuga liberatoria. A venticinque anni dal Posto, pur sentendo che ormai il passaggio epocale è avvenuto Olmi ritiene ancora che l'homo ruralis non sia del tutto trasformato nell'homo technologicus, né voglia del tutto rimuovere le sue radici.
A Parigi, usando come viatico il libro di Roth, Olmi parla di se stesso, dei bilanci a cui la malattia e il dialogo con la morte lo hanno costretto con un pudore e un'intensità di coinvolgimento che si pensavano perduti.
L'occhio sembra mantenere intatta la sua energia e la capacità di osservare attraverso gli sguardi, i silenzi, gli incontri casuali, il gioco delle forze che regolano il percorso dell'individuo nel mondo. Lo si vede molto bene anche nelle successive prove documentarie dedicate ai mestieri artigiani nel Veneto, alla città di Milano, alla terra e al Po.
L'esperienza della Scuola di Bassano da lui diretta e realizzata nel 1982 grazie al sostegno della Rai è il più generoso atto d'amore e di fiducia nel cinema come mezzo di comprensione del mondo, come patrimonio inesplorato di idee e talenti che sia stato compiuto in Italia in questo ultimo ventennio. Lo sguardo, in ogni caso, dopo La leggenda del santo bevitore di film in film si dilata, cavalca in maniera più libera il tempo e lo spazio, attinge nei giacimenti della memoria, esplora con estrema facilità momenti del passato sempre più lontani fino a giungere alla sfida di come rappresentare il momento della creazione, il passaggio dal chaos al phaos, dal caos alla luce. Sia nel Segreto del bosco vecchio che nella sua interpretazione della Genesi si ha l'impressione che Olmi tenti di esplorare, con la curiosità e il piacere della sperimentazione - non sempre riuscendovi del tutto -, nuove strade, cerchi di sintonizzarsi con i linguaggi della natura, di far parlare l'acqua, il vento, le stelle il fuoco e cerchi di giungere, attraverso una sorta di magia alchemica, a operare la trasformazione delle cose filmandone l'anima. Nei film più recenti, come II mestiere delle armi, Olmi si dimostra forse nella misura più alta e completa regista capace di dominare tutti gli elementi del set. Nel corso di questo film sembra voler aprire un dialogo inedito con molti maestri del cinema del passato, includendo autori come Ejzenstejn e Welles, Kurosawa, Bergman, Bresson, Pasolini e Fellini e dispiega la propria capacità di creare una cosmogonia non solo nel racconto degli ultimi sei giorni di vita di un condottiero cinquecentesco, ma quasi in ogni sequenza, in ogni inquadratura. A deludere ancora una volta le aspettative di chi si aspettava un'opera d'ispirazione altrettanto alta Olmi - quasi in omaggio a Pasolini - con Cantando dietro i paraventi sceglie la strada più impervia già tentata con Cammina cammina della ibridazione di forme diverse di racconto e spettacoli e di mescolanza di stili e usi dei segni sonori in funzione non realistica e straniante. Uno spettacolo nuovo in cui la parola è usata ora come distillato di verità sapienziale, ora in forma aforistica, ora ha l'apparenza didascalica di un cartello brechtiano. Ma come nelle grandi opere del regista che più hanno spiazzato la critica anche questo film è accolto dal pubblico e dalla critica in modo freddo e ben poche voci vi hanno riconosciuto oltre all'intenzione esplicita di usare una storia di ieri per parlare di guerra e pace oggi, anche la presenza di alcuni dei momenti più ispirati e felici di tutta la sua opera e certamente del cinema degli ultimi anni. Ha scritto Claudio Magris sul «Corriere della Sera»: «Le grandi opere artistiche - letterarie, musicali, cinematografiche - hanno spesso un effetto ritardato [...]. Spesso questo è proprio il segno della loro grandezza che le porta a imboccare nuove strade, a turbare schemi e modelli, a non soddisfare le attese, a non dare ciò che ci si aspetta a priori, bensì a dare qualcosa d'altro e di inedito». Anche nella sua penultima prova, Tickets del 2004, girato a sei mani con Loach e Kiarostami, Olmi oltre a riprovare il piacere e il gusto della sperimentazione di un nuovo tipo di racconto offre la novità di uno sguardo capace ancora di catturare l'energia della giovinezza e il senso caduco, ma straordinario della bellezza.
Centochiodi, uscito in sala nella primavera 2007, come II caimano, l'ultimo film di Moretti, è un'opera che si presta a molti usi e in prima battuta l'uso pubblico e ideologico ha dominato in discorsi che pure hanno avuto in comune come cappello il doveroso omaggio alla maestrìa del regista. In questo caso vorremmo parlare soprattutto dei caratteri cinematografici e dei temi specifici rispetto all'intera opera dell'autore: si tratta di un film in cui Olmi riesce a riannodare tutti i fili del suo cinema precedente, senza trascurare e perdere nulla - anzi gettando un ponte verso l'amato Cammina cammina, la cui ferita per l'insuccesso non si è mai del tutto chiusa - per giungere fino alla sua opera degli inizi e a una tradizione e comunità cinematografica italiana e internazionale di cui vuole qui mettere in evidenza i legami profondi e mai esplicitati affettivamente in questo modo. Più che suggestioni o debiti, si tratta di amore dichiarato e tangibile verso una folla di maestri o amici come Bresson, Bergman, Rossellini, Pasolini, Zavattini, Piavoli e sul versante internazionale Zanussi, Michalkov, Kiarostami... Ma anche onesta e coraggiosa confessione (nel senso etimologico di riconoscimento) pubblica di colpe personali, o di ripensamento di atti cinematografici di quel giovane Olmi che aveva mosso i primi passi nel cinema documentando le imprese titaniche dell'Edison Volta e le magnifiche sorti della civiltà delle macchine. Senza frenare del tutto la sua vocazione all'immaginazione di realtà e. di mondi capaci di espandere il loro senso in maniera indefinita Olmi cattura e costruisce una piccola cosmogonia misurabile dalla gittata dello sguardo di uno qualsiasi dei personaggi e realizza un'opera «definitiva», oltre la quale riesce difficile pensare il suo cinema possa o voglia andare. Opera in cui stringe e spoglia al massimo il messaggio che gli sta a cuore da sempre: come riuscire a vivere una «vera vita» evitando i condizionamenti del potere religioso o temporale e i miraggi e i bagliori della civiltà dei consumi. Lo fa con un'ouverture di rara potenza in cui la drammaticità della scoperta della strage dei libri «non innocenti», unita a una leggerezza quasi mozartiana, gli consente di mescolare livelli e toni e passare dallo stile tragico a quello ironico e giocoso: le immagini degli effetti della furia iconoclasta che si è abbattuta sugli incunaboli e sui libri miniati si incidono, quasi per sinestesia, nella carne dello spettatore per poi condurlo a seguire la via della gioia e della felicità perseguita dal protagonista, un uomo che decide di rimettere completamente in discussione la sua vita, rifiutando le espressioni più alte di una cultura che uccide. Fin dal primo movimento del racconto vero e proprio al seguito del protagonista, la sua visione è portata a livelli di semplicità, profondità e purezza, che, come per le acque del Po, inquinate e infestate da giganteschi e feroci pesci siluro (benché attraversate la notte, magicamente, da un battello illuminato come un vero e proprio Rex dei poveri), l'inquinamento visivo e televisivo, gli hanno fatto perdere da tempo. Parabola di molte parabole, tentativo di reductio ad unum di un percorso molto complesso, punto d'arrivo di una meditazione coerente e di confluenza di molte suggestioni del pensiero cristiano e non solo - che possono andare dalla semplice metabolizzazione dello spirito dei Vangeli agli echi agostiniani dominanti a quelli francescani, o di Tommaso Campanella, fino al Véronique. Dialogo della storia e dell'anima carnale di Charles Péguy - il film declina, in forma moderna, una nuova parabola dell'Alter Christus e della sua condizione di apolide. Un intellettuale che decide, come sant'Agostino, di far proprio il messaggio cristiano in un mondo ormai del tutto scristianizzato e che vive apparentemente bene senza aver bisogno di Cristo, ma che una volta ritrovato il piacere della condivisione della mensa potrebbe anche aver recepito, nel modo più naturale, parte del suo messaggio salvifico. Le strade del rifiuto scandaloso e incomprensibile d'ogni forma d'imposizione dottrinale e della lucida follia che porta il protagonista a liberarsi violentemente di ogni sapere religioso o culturale e di ogni legame materiale con la vita passata, non vogliono essere altro che una ricerca o riscoperta della condivisione di amore e felicità in quelle forme di vita comunitaria che da una parte richiamano il cristianesimo primitivo e ancora esistono, ma che agli occhi della civiltà del benessere e dei consumi appaiono come relitti o realtà residuali di mondi scomparsi. Partendo dal più elementare recupero di gesti, forme di solidarietà, modi allocutivi e colloquiali di un vero e proprio «paradiso dei poveri», immaginato da secoli nella letteratura popolare, o più realisticamente di una «vita semplice», che ancora si può incontrare in molte zone dell'Italia e del mondo, appena sfiorate dall'industrializzazione e dal benessere, e al momento ancora non inquinate dai problemi della droga e della delinquenza e dalla dissoluzione di ogni legame con il vivere sociale e civile, Olmi costruisce una rete di relazioni e pensieri elementari, riscopre un mondo di valori e sentimenti forti che vengono prima della cultura e possono farne a meno, con cui poco per volta fa enunciare al suo protagonista le proprie convinzioni o verità personali in forma aforistica o apodittica, verità che lo fanno apparire agli occhi del suo piccolo gruppo di fedeli come una sorta di materializzazione della figura del Cristo: «Le religioni non hanno mai salvato il mondo»; «Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico»; «La sapienza del mondo è una truffa»; «Dio non ha salvato suo figlio dalla croce». Nel ridare nel finale al personaggio la giusta dimensione all'interno delle istituzioni contro cui è andato e nel fargli gridare la sua protesta Olmi si congeda dal cinema e dai suoi personaggi in attesa della venuta dell'Alter Christus da loro riconosciuto scegliendo i toni elegiaci, quasi una sorta di magico sussurro visivo con cui si riafferma la sparizione della cultura cristiana dal mondo moderno, ma non se ne cancella del tutto la possibilità di ristabilire dei rapporti con l'uomo di oggi. La musica e in particolare le note del valzer lento degli anni Trenta di Beniamino Gigli, Non ti scordar di me, riarrangiato da Paolo Fresu, hanno valore connettivo tra la ricerca di una forma diversa di dimensione spirituale e religiosa, che abbia a che fare con quella che Sant'Agostino chiamava delectatio e dilectio, ossia attrattiva amorosa della grazia e la magia e l'incanto della vita di ogni giorno fatta ancora di suoni, colori, profumi, odori, che con sempre maggior difficoltà riusciamo ad assaporare, riconoscere e distinguere.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007