Burt Lancaster (Burton Stephen Lancaster). Data di nascita 2 novembre 1913 a New York City, New York (USA) ed è morto il 20 ottobre 1994 all'età di 81 anni a Century City, California (USA).
Lancaster, cresciuto in un quartiere violento di New York, stava per seguire la strada del crimine. Approdò al cinema un po' per caso. Nel '45, quando il produttore Harold Hecht lo incontrò in un ascensore di Manhattan e gli propose di recitare, la leggenda vuole che Lancaster abbia risposto: "Cinema? Non mi interessa". Entrato alla New York University grazie a una borsa di studio come giocatore di pallacanestro, due anni dopo era in giro per gli States come trapezista e acrobata. Per un incidente a un braccio dovette adattarsi a vendere biancheria intima femminile. Poi venne la guerra. Tornato dal fronte, nel '45, entrò a far parte di una compagnia teatrale di Broadway. Due settimane dopo, aveva 7 proposte per spostarsi a Hollywood. Apertamente liberal, Lancaster è stato presidente della American Civil Liberties Union. Oltre a Susie ha avuto altre due mogli: negli anni del circo, una trapezista; durante la guerra, Norma Marie Anderson, conosciuta in Italia. Diceva Jeanne Moreau: "Prima di prendere un portacenere, sta lì due ore a spiegarti come e perché lo prende. Viene voglia di smuoverlo: prendilo, 'sto portacenere, e piantala". Burt Lancaster allora era pedante, didattico? Forse, un poco. Ma soprattutto era rigoroso, competente, scrupoloso, intelligente: bellissimo da giovane, bravissimo sempre, il primo attore-produttore indipendente di gran successo, la faccia esemplare dell'uomo giusto, con l'età aveva acquistato una nobile malinconia, un'elegante rassegnazione quasi irresistibili. Interprete semplice, secco, sommesso, aveva orrore del patetico. Eppure nulla era più patetico, o straziante, del suo ultimo matrimonio, il quarto: alla fine del 1990, nell'estraneità agghindata d'una stanza d'albergo, al Four Seasons di Beverly Hills, come chi non avesse casa né famiglia mentre aveva cinque figli ormai quasi anziani; con una donna più giovane di lui di trentanove anni, Susan Sherer, la ex segretaria cui affidare incertezze e fragilità di malato; con lui tutto vestito (benissimo) di chiaro, e tutto rosso, appena reduce dall'ictus cerebrale che l'aveva colto, dopo un'operazione al cuore, cinque by pass e altri guai, all'ospedale di Los Alamitos dove ogni settimana andava a trovare un vecchio amico. Burt (Burton) Lancaster aveva una dote rara: la grandezza. Dote singolare per il figlio d'un impiegato alle Poste cresciuto nella durezza di East Harlem a New York, bravo atleta nel basket, acrobata di circo in coppia con l'amico d'infanzia Nick Cravet, attore e ballerino in vaudeville o night club e poi negli spettacoli per militari durante la seconda guerra mondiale: tuttavia perfetto principe siciliano e perfetto studioso esteta per Luchino Visconti nel Gattopardo e in Gruppo di famiglia in un interno, perfetto interprete del sentimento aristocratico, del dolore per la perdita di mondi spariti; e altrettanto perfetto patriarca contadino italiano in Novecento di Bernardo Bertolucci, perfetto gangster seducente della triste decadenza in Atlantic City di Louis Malle. Con I gangsters (The Killers) aveva fatto il suo debutto a Hollywood nel 1946. Ricordava Sheila Graham: "Era un tempo di prosperità senza precedenti, prima dell'arrivo della tv e dei fanatici della Commissione per le attività antiamericane. Biondo, riccioluto, con una faccia da ragazzo, Burt Lancaster venne fuori insieme con un'altra sconosciuta, Ava Gardner, in una storia di gangsters a basso costo. Aveva trentadue anni, ne dimostrava ventidue, e che fisico: vedevo i muscoli pulsare attraverso la camicia aperta". Il film a basso costo era tratto da un racconto di Hemingway, diretto da Robert Siodmak, scritto da John Huston e Richard Brooks: e l'immagine de lo svedese Lancaster, disteso sul letto in attesa d'essere ucciso nell'oscurità della sua stanza, non s'è più cancellata. Durante la lavorazione dei Gangsters Lancaster era così insicuro che certe scene toccava ripeterle anche quindici volte. Un anno dopo, al secondo film, Forza bruta, già spiegava al regista Jules Dassin come dirigerlo; dopo i primi due film già si rendeva indipendente mettendo su una propria società di produzione insieme con Harold Hecht, ex ballerino di Martha Graham poi agente letterario, e con James Hill, ex fattorino della Nbc, sceneggiatore, uno dei mariti di Rita Hayworth; a neppure dieci anni dal suo arrivo a Hollywood vinceva quattro Oscar producendo uno dei film più innovativi e ammirati dell'epoca, Marty. Era già cominciata la sua leggenda d'integrità, di cattivo carattere, di fortuna. Aveva successo, "tutto quel che tocca diventa danaro". Era orgoglioso: "Non sono mai riuscito a immaginarlo, neppure dopo i peggiori errori, nell'atto di chiedere scusa", diceva Gregory Peck. Era esigente: un regista inglese resistette due giorni prima d'essere licenziato e sostituito da John Frankenheimer per L'uomo di Alcatraz, Arthur Penn resistette quattro giorni per Il treno prima di venir rimpiazzato, sempre da Frankenheimer. Era esigente anche con se stesso: conosceva tutto del cinema, luci, montaggio, trucco, pubblicità, le battute degli altri attori, la puntualità più spietata; quando suo fratello Jim, ex poliziotto, aiuto regista ne L'uomo di Alcatraz, cadde morto sul set, Lancaster fece rimuovere il cadavere e proseguire il lavoro. Era di sinistra: dalla parte del popolo e delle minoranze, sostenitore d'ogni battaglia per i diritti civili. Era colto, e affamato di cultura: lettore onnivoro, non perdeva l'occasione d'un concerto, d'uno spettacolo, d'una nuova lingua da imparare, di nuovi quadri e architetture da vedere, d'un film interessante anche se non redditizio (e infatti ne La pelle di Liliana Cavani recitò senza compenso). Freddo, ma leader: e la gente lo seguiva, lo amava. Era grande nei western o nell'epica. Nei film più belli, Da qui all'eternità, Piombo rovente, Il corsaro dell'Isola Verde, Sette giorni a maggio, Local Hero; e anche nei meno belli, Trapezio, La rosa tatuata, Gli inesorabili. Era grande anche alla fine, da vecchio gonfio e malato, quando la bellezza della vita ormai se n'era andata, quando lavorava spesso in Italia per la tv (I promessi sposi, L'Achille Lauro), quando doveva rinunciare a interpretare Old Gringo accanto a Jane Fonda perché Città del Messico era troppo per il suo cuore logorato, quando alcuni registi americani lo facevano apparire qualche attimo nei film come un'icona venerabile o un fantasma del cinema eroico: e l'ultima volta lo si è visto in Tombstone, cowboy vacillante ma coraggioso. A Tought Hombre, diceva Jane Fonda, un uomo forte, anzi un hombre, alla spagnola: superbo, elegante, ammirevole.
Da La Stampa, 22 Ottobre 1994
Di tutti i ruoli che Burton Stephen Lancaster ha interpretato, è difficile sceglierne uno particolarmente emblematico, tanti e variegati sono stati. Se si dovesse iniziare da un'immagine, si potrebbe partire da quella, non fosse altro perché il titolo è il personaggio, del Gattopardo di Luchino Visconti. Il decadente eppure lungimirante principe di Salina, che si. Muove solenne e felino tra le stanze del suo palazzo e i falsi movimenti della Storia. Ma il ballo con Claudia Cardinale rimarrà nella memoria spettatoriale tanto quanto la scena di avvinghiamento sulla spiaggia con Deborah Kerr in Da qui all'eternità. Uno dei momenti più caldi della sua filmografia, e anche il tripudio dell'immagine muscolosa di un ex acrobata divenuto attore tardi e per caso. Un'etichetta, quella di “Mister Denti e Muscoli”, dura a morire, e che strideva con la reale intelligenza attoriale di una delle grandi icone di Hollywood. Se n'è andato nel 1994, dopo aver doppiato con fatica la boa degli ottant'anni. Nel 1980, durante le riprese di Branco selvaggio subisce un attacco di cuore, ma da vera roccia questo non gli impedisce di lavorare fino alla fine del decennio. Da allora in poi, lui che per tutta la vita aveva rifiutato controfigure, a causa di un ictus è costretto a fermarsi, Ma non si può dire che con Lancaster la vita sia stata avida. Nato nel quartiere non proprio ricco di East Harlem, New York, a diciassette anni Lancaster ha già fondato un duo acrobatico con l'amico Nick Cravat. Ha negli occhi la forza risoluta dello spirito irlandese (come la madre), una bocca grande, che quando meno te lo aspetti regala un sorriso che toglie il respiro, un fisico statuario ma mai volgare, da atleta non occasionale: tutte caratteristiche che, a dispetto di matrimoni, indiscutibile virilità e gossip, lo rende automaticamente desiderabile per tutti e potenzialmente un'icona gay, complice anche l'amicizia di una vita con Kirk Douglas, col quale ha condiviso ben sette film, tra cui il tardo Due Gli incorreggibili. È così, prepotentemente, che Burt fa il suo ingresso al cinema, dopo dieci anni di gavetta circense troncata da un incidente a un polso, qualche lavoretto di sopravvivenza, la guerra nei corpi militari statunitensi in Nord Africa e Italia. Un inizio pregevole: nei Gangster è “lo Svedese” (regia di Siodmak, musiche di Rosza, soggetto di Hemingway). il mento e
il naso, come si diceva una volta, “importanti”, i tratti nordici, lo sguardo
da duro malinconico, ne fanno subito una star. Il tough guy lo farà ancora, in Forza bruta, in cui si conquista subito il ruolo principale e in Le vie della città, dimostrando anche alto controllo recitativo e sadismo nel teso Il terrore corre sul filo. Presto, però, anche l'esperienza acrobatica torna utile: ne approfitta per primo Siodmak in Il corsaro dell'isola verde (pirata, in coppia con l'ex socio Cravat) poi Aldrich(L'ultimo Apache, Vera Cruz) e Sturges(Sfida all'ok Corral. E, ovviamente, Carol Reed in Trapezio, cucito su misura sulla parabola dell'ex circense. Pur perfettamente inserito nella macchina degli studios, di cui ha attraversato senza cadute tutti i generi, fonda presto una casa di produzione, la Norma (dal nome della seconda moglie) insieme ad Harold Hecht e James Hill. Quella che produrrà Marty, vita di un timido di Delhert Mann (premio Oscar nel 1956) e Pranzo di nozze di Riehard Brooks, entrambi scritti da Paddy Chayefsky. Ma anche Piombo rovente di Alexander Mackendriek, in cui dà vita a un giornalista spietato. Belle soddisfazioni, per uno venuto dalla strada. E poi, quattro nomination all'Oscar, ma solo una statuetta (come spesso accade, non opportuna se paragonata ad altre prove) per il figlio di Giuda di Richard Brooks. Tante le curiosità: ha recitato spesso come indiano (oltre a L'ultimo Apache, nel “ginnico” Pelle di rame e in Nessuna pietà per Ulzana, mentre in Gli inesorabili è mezzosangue l'amata sorella) e messicano(Io sono Valdez), spesso coinvolto dai rapporti tra etnie e dal confronto del bianco col diverso (anche in Joe Bass l'implacabile. Ha percorso una lunga stagione di Hollywood (da lui definita come “niente di più di un grande circo”) fino alla dissoluzione dei generi e all'avvento di nuove onde e una nuova tipologia di attori. Dopo aver interpretato classici all'inizio di carriera, e solidi drammi come L'uomo di Alcatraz e Vincitori e vinti, si è ritrovato di nuovo gangster, come agli esordi, in Atlantic City, Usa di Louis Malle (la sua ultima nomination) e a rimodellare l'eroe western degli Anni ‘50. Non si è negato neanche il catastrofico, con i clamorosi Airport e Cassandra Crossing. Bizzarro anche il legame con l'Italia: è stato partner di Anna Magnani in La rosa tatuata, unico Oscar dell'attrice. Ha interpretato, oltre a Gruppo di famiglia in un interno, un umano Mosé nell'omonima produzione Rai di De Bosio, il cardinale Borromeo nei Promessi sposi di Salvatore Nocita. Ha anche diretto un western e un poliziesco: Il Kentuckiano nel 1955, L'uomo di mezzanotte nel 1974. Ci piace ricordarlo nella scena di Novecento in cui, nella stalla, chiede alla giovane contadina un ultimo momento di piacere. Un gesto coerente con la sua carriera: entrambi all'insegna della vita.
Da Film TV,30 ottobre 2003
In ocaasione della scomparsa.
Qualche minuto fa, cercando la sua filmografia da mettere in area, ho avuto la malinconica sorpresa di scoprire di essere l'autore delle ultime battute recitate da Burt Lancaster su uno schermo, sia pure quello piccolo della televisione, con le tre ore di film sull'Achille Lauro. Facile dire che come attore, dopo quella favolosa carriera, avrebbe meritato un'uscita di scena più degna.
Eppure anche per fare quella parte di Leon Klinghoffer, l'ebreo newyorchese ucciso e buttato in mare con la sua carrozzina da invalido dai dirottatori della Lauro, Lancaster s'era preparato come se avesse avuto da vincere un altro Oscar (ed ebbe una nomination agli Emmies, infatti).
Era un “method actor” professionista e perfezionista al punto che quando un coglione di generico durante il primo ciak dell'attacco terrorista nella sala da pranzo della nave gli sparò una raffica a dieci centimetri dall'orecchio, lui s'incazzò a morte – ma con sé stesso perché non era riuscito a evitare un quasi impercettibile sobbalzo del braccio “paralizzato”, e si scusò umilmente con il regista e con l'intero set per aver rovinato una ripresa. Mi ricordo la conferenza stampa a Cinecittà.
Tardo pomeriggio, buffet esagerato, lui era stanco dopo una giornata di lavoro e non stava niente bene. Ma era perfetto, era Burt Lancaster, affabile, attento, col celebre sorriso a tutti denti.
Tra gli ultimi, un giornalista americano, uno importante di AP, si alzò a fargli una domanda tipo:”Mr. Lancaster, lei in questo film ha rivissuto il dramma di un ostaggio, un ebreo vittima del terrorismo arabo... Quale insegnamento ha tratto da questa esperienza?” Burt Lancaster lo fissò a lungo, poi disse: “Amico mio, io ho settantacinque anni e faccio l'attore, che cosa cazzo vuole che possa imparare da un film?.