Audrey Hepburn (Andrey Kathleen Ruston) è un'attrice belga, è nata il 4 maggio 1929 a Bruxelles (Belgio) ed è morta il 20 gennaio 1993 all'età di 63 anni a Tolochenaz (Svizzera).
Una vita, quella della Hepburn, che oltre ad essere una diva internazionale e una madre premurosa (ma moglie infelice), fu anche un’icona di stile, una professionista instancabile, una delle più impegnate ambasciatrici dell’Unicef... Donna dal fascino discreto, che non si è mai fatta travolgere dagli applausi, di quel simbolo d’eleganza che fu la protagonista di Vacanze romane, Sabrina, Colazione da Tiffany, My Fair Lady...
La sua apparente serenità nascondeva insicurezze e pene profonde, radicate nell’infanzia. Il padre, Joseph Ruston, un inglese elegante e indolente che non riuscì mai a conservare un lavoro per più di un mese, abbandonò la moglie, la sofisticata baronessa Ella van Heemstra d’Olanda, sposata per interesse: era il 1935 e Audrey aveva 6 anni. Il distacco dal padre fu «l’episodio più traumatico della mia vita», dichiarerà Audrey (che poi sceglierà il cognome Hepburn della nonna materna), «e in seguito ho vissuto con la paura costante di essere lasciata».
Audrey bambina è allevata nella solitudine di un collegio inglese. Fino allo scoppio della guerra, quando raggiunge la madre nelle proprietà del nonno ad Arnhem: dai 10 ai 16 anni vive nell’incubo dell’Olanda occupata dai nazisti. Razzie, devastazione - la sua famiglia perde tutto - atrocità, terrore. Dopo la fucilazione di alcuni parenti, la baronessa Ella, già simpatizzante del nazismo, inizia a collaborare con la Resistenza. E Audrey con lei, come staffetta. È la fame nera: «Nel ‘44 avevamo da mangiare solo bulbi di tulipani». Audrey, alta un metro e tu, pesa 40 chili, la pelle gialla dall’itterizia. Fino alla Liberazione. Di tutto si può accusare l’algida baronessa Ella, tranne che di mancanza di coraggio. Motto: «Poche storie, procedi». Ed ecco mamma e figlia ad assistere i malati ad Amsterdam. Ma Audrey crolla, nella prima di una serie di depressioni che la colpiranno tutta la vita. Fu allora che l’indomita baronessa accettò qualsiasi lavoro per realizzare il sogno della figlia, che ha studiato danza fin da bambina: arrivare al Covent Garden. Nel ‘48 si trasferiscono a Londra: Ella fa la portinaia, la fiorista, la balia, mentre Audrey segue corsi prestigiosi. Per scoprire di essere troppo alta per svettare come prima ballerina.
Le pagine della giovinezza di Audrey sono tra le più curiose del libro. Segue il suo debutto come danzatrice di fila nei musical, comparsa nel cinema, modella per la pubblicità: il suo sorriso e il suo modo di sbattere le palpebre incominciano a incantare. Tra il 50 e il 51 è in sette film. E mentre sta girando una scena per strada, a notarla è addirittura Colette, la scrittrice francese, in cerca di una ragazza che interpreti a Broadway la versione teatrale del suo romanzo Gigi. Non solo Audrey è ingaggiata nel ruolo che la porterà alla celebrità, ma prima di partire per New York, viene anche segnalata a William Wyler che la scrittura per Vacanze romane con Gregory Peck: il film che le farà vincere l’Oscar.
Così dall’oggi al domani nasce una stella. È un’assoluta novità di stile rispetto alle bombe sexy dell’epoca, da Marilyn Monroe a hz Tay1or. Dei venti film che seguono, nel libro spiccano soprattutto gli aneddoti: le paranoie di Humphrey Bogart sul set di Sabrina; i baci con Gary Cooper in Arianna di Billy Wilder, che devono essere ripresi in penombra, perché lui ha le rughe dei 55 anni (contro i 27 di Audrey); la cocente delusione quando, dopo mesi di lezioni di canto per interpretare My Fair Lady, il regista George Cukor la fa doppiare (senza dirglielo) da una professionista...
Il tutto tra ardenti storie d’amore, sempre vissute da Audrey con contegno riservato ma senza ipocrisie, nel desiderio quasi ossessivo di avere figli. Quella con William Holden durante le riprese di Sabrina, poi finita perché lui (per evitare incidenti nelle sue mille avventure) si è fatto vasectomizzare. Quella con Robert Anderson, sceneggiatore di Storia di una monaca, che prima di un possibile matrimonio confessa di essere sterile dalla nascita. Quella con Ben Gazzara, l’unico che la respinge, «spezzandole il cuore»...
E poi ci sono i due matrimoni infelici. Con Mel Ferrer, nel 53, attore e regista di molte ambizioni e poca fortuna, che non si rassegna ad essere oscurato dal successo della moglie, fino al divorzio: con lui Audrey ebbe il figlio Sean e quattro aborti spontanei. E le nozze con Andrea Dotti, gaudente psichiatra romano, che ama esibirla e tradirla: da lui, prima della separazione, ha un secondo figlio, Luca.
L’insicurezza, la sensazione di non essere mai all’altezza, accompagna Audrey tutta la vita. Né l’adorazione del pubblico né i compensi da capogiro (un milione di dollari degli anni Sessanta solo per My Fair Lady) diradano la sua malinconia, che troppo spesso diventa depressione. E la sua voglia di fumare senza sosta.
Audrey Hepburn muore di cancro nel‘93, dopo aver abbandonato da anni il cinema. Prima per fare la madre a tempo pieno, poi per dedicarsi anima e corpo all’Unicef. Ai bambini affamati, come lei durante la guerra.
Molti anni dopo avere lavorato insieme con Ennio Flaiano, suo partner fisso di allora, sul copione di Vacanze romane, a mia madre capitò di incontrare il celeberrimo Ben Hecht, autore, o così lei credeva, di quel soggetto; e approfittò dell'occasione per scusarsi della libertà con cui la coppia lo aveva manipolato. Però Ben Hecht non capì nemmeno di cosa lei stesse parlando. Lì per lì mia madre pensò, non infondatamente, che fosse ubriaco, e lasciò perdere. Solo dopo ulteriori decenni venne fuori che all'epoca Ben Hecht aveva semplicemente prestato il nome per aiutare il vero soggettista Dalton Trumbo, il quale era sulla lista nera e non poteva lavorare col suo; c'erano poi altri due scrittori americani, loro sì accreditati, Ian McLellan Hunter e John Dighton. Anche troppi autori per una storiellina gracile gracile, oltretutto abbastanza evidentemente ispirata al celeberrimo Accadde una notte di Frank Capra (1934), su una ereditiera in fuga con un giornalista avido di scoop. Quando il regista William Wyler incontrò gli scrittori italiani che dovevano curare l'ambientazione della vicenda nella Capitale, fu chiarissimo. «Una novità in un film basta e avanza, e questo film ne ha già una, sulla quale io punto tutto. Perciò voglio che tutto il resto sia quanto più scontato possibile - il pubblico non deve avere nessuna sorpresa oltre a quella che gli riservo io». «Vuol dire per esempio che ci dobbiamo mettere una scena in cui i due sono costretti a dividere una camera da letto, e lei si mette il pigiama di lui che le sta grandissimo?» domandò mia madre. E Wyler rispose: «Precisamente». Correva l'anno 1952, Flaiano e mia madre erano stati ingaggiati come professionisti esperti, quelli che a Broadway si chiamano «play doctors»; Flaiano, che in questo campo amava definirsi un artigiano, diceva: «Dovremmo aprire una bottega con un cartello, “Si aggiustano sceneggiature”, e un prezzario: tanto per una gag, tanto per infilare l'amante del produttore, ecc.» Non esistevano agenti, e all'executive americano che li aveva cercati mia madre, lei era quella che parlava l'inglese, sparò una cifra per entrambi, forse un milione di allora. A lei sembrava molto, ma quello non credette alle proprie orecchie. Dopo essersi assicurato di aver capito bene, la abbracciò esclamando: «Bravi! Ecco lo spirito dei vecchi tempi! Anche Hollywood era così, prima che il denaro la rovinasse!» Flaiano che assisteva non gradì affatto. Pur sottopagati, i due si divertirono. Wyler veniva alle sedute di sceneggiatura immancabilmente munito di un sacchetto di carta pieno di arance che divorava metodicamente, rideva molto alle proposte dei collaboratori italiani, e si adattò volentieri alla loro abitudine di parlare di tutto meno che del lavoro. Fece anche qualche racconto su di sé, in particolare sulla sua esperienza in Italia con l'esercito americano, subito dopo la fine della guerra. La sua unità aveva svolto compiti investigativi, identificando e schedando i cosiddetti «premature antifascists», ossia gli antifascisti di prima che il Fascismo diventasse un nemico ufficiale degli USA - i comunisti, insomma. Quanto alla novità del film in cantiere, Wyler poté solo cercare di descriverla agli sceneggiatori. «Riguarda la protagonista», disse. «Un tipo femminile completamente nuovo, agli antipodi di tutto quello che circola oggi
leggi le maggiorate, epiteto inventato dallo sceneggiatore Sandro Continenza appena l'anno prima, per il film Altri tempi di Blasetti. Classe, freschezza, giovinezza, niente petto e niente sedere, niente tailleur aderente e niente tacchi alti. Una marziana. Se ho ragione io, sarà una bomba». Naturalmente aveva ragione lui: Audrey Hepburn, che prima di allora sullo schermo non aveva fatto che minuscole apparizioni, con questo film vinse l'Oscar e diventò da un momento all'altro una star. Noi a casa ce lo aspettavamo, ricordo mia madre tornare dal set molto ammirata dalla bravura della esordiente (non sapeva che Audrey aveva già alle spalle almeno un grosso successo sul palcoscenico, una Gigi a Broadway, per la quale era stata scelta addirittura da Colette). Anche mia sorella ed io fummo portati sul set una volta, ma più che alla sconosciuta badammo a Gregory Peck, dal quale avemmo una fotografia a testa, con dedica. La nuova arrivata era incantevole. E’possibile che il suo debutto sia stato il più clamoroso della storia del cinema? Quale stella di oggi le possiamo accostare? Quale altra ha influenzato il costume, il look, il modo di vestire di una generazione, in modo paragonabile? Julia Roberts di Pretty woman? Lady Diana, poveretta? Totò direbbe, «Ma mi faccia il piacere». Ancora adesso, più di cinquant'anni dopo, Audrey illumina il filmetto di Wyler, per nostra fortuna in bianco e nero, come nessun'altra prima di lei ha mai illuminato nessun film, con l'unica eccezione di Louise Brooks. Un remake di Vacanze romane è inconcepibile (be', uno ce n'è stato, con Tom Conti, ma non l'ha visto nessuno). Il musical americano importato da Pietro Garinei, attualmente al Sistina, sta godendo un onesto successo dovuto al buon mestiere dei responsabili, e ha anche una protagonista caruccia: ma Audrey Hepburn era unica, e tale sarebbe rimasta. Senza essere minimamente zuccherosa o melensa, proiettava garbo e innocenza adolescenziale e allo stesso tempo raffinatezza e controllo (la sua era una spontaneità ricreata, come quella delle marionette di Kleist) temperati da una punta di monelleria; aveva occhi immensi, un sorriso irresistibile, ed era fotogenica in modo addirittura indecente. Credo che a tutt'oggi nessuna abbia avuto più copertine di lei, perlomeno di riviste patinate. Nata a Bruxelles, allevata in Olanda (dove i suoi si erano rifugiati durante la guerra: per due anni, mi disse una volta, aveva mangiato solo indivia belga, cosa forse all'origine della sua leggendaria magrezza), formata a Londra, non era associabile a nessun luogo in particolare, la sua era una leggiadria platonica, ossia ideale, assoluta. Riuniva in sé l'understatement britannico, l'eleganza francese e la spregiudicatezza americana, coordinandoli con un'applicazione disciplinata e scrupolosissima.
Vacanze romane? Ho incontrato più volte Audrey Hepburn, che com'é noto dopo quel film s'é innamorata di Roma al punto di farsene praticamente casa – e com'é meno noto si è innamorata del mio fratellone Luciano Vincenzoni al punto di rischiare di sposarlo e diventarmi una specie di cognata.
Il vecchio porco però la trovava troppo 'skinny' per i suoi gusti trevigiani e così lei finì per accasarsi, sempre su piazza, con uno psicanalista alla moda.
Era una donna intelligente e incantevole, fragile come un grissino dall'anima d'acciaio. Non so quale press agent hollywoodiano le inventò, agli esordi di Sabrina, una biografia che attribuiva la sua magrezza a un'infanzia di stenti e di terrori nell'Europa occupata dai nazisti. Lei non la smentì mai, ma in realtà era di una famiglia olandese con sette generazioni di mercanti e banchieri, e ho idea che la cosa della Seconda Guerra Mondiale che le è mai arrivata più vicino sia stato qualche titolo della “Tribune de Lausanne”, dov'era al sicuro in collegio.
Audrey, nel suo ultimo Sciarada, di cui costituisce, almeno per me, l'esclusivo incanto, è in essa stessa, non soltanto nelle squisite toilettes, ma nel suo corpo e nel suo volto, affilati, incavati, concavi, lisci, tesi e scattanti, uno Givenchy. Questo perfettissimo orologino svizzero della recitazione, questo microscopico e appiattito Jaeger Le Coultre dello schermo (e lo dico senza la minima ironia, senza l'inclusione della minima riserva: come sa benissimo chiunque conosca la mia ammirazione quasi sconfinata per gli orologi di gran marca e per la confinante Confederazione) tocca, secondo me, la vetta del proprio valore visivo soltanto ora, e soltanto con questo Sciarada, e soltanto in grazia alle proprie toilettes o piuttosto alla trovata, poetica e inconsapevole come tutte le vere trovate, con cui ha saputo armonizzare la propria recitazione, e l'espressione e i gesti, alle toilettes.
In altre parole, Audrey deve aver sentito la debolezza irrimediabile, la superficialità e il vecchiume del film che stava per girare: e, per salvarsi, ha trasformato la sua parte nella elegantissima danza di un manichino: nell'esibizione di uno Givenchy vivente, che esce dalle pagine lucide di «Vogue» e passeggia nel film vibrando di vera grazia, per la nostra gioia. Una sottile, lievissima aria di scherzo e di comicità appare, come disegnata in trasparenza, sotto ogni suo passo, gesto, sorriso, occhiata: una quasi impercettibile caricatura nel modo di dondolare la borsetta, tenere nella mano inguantata la sigaretta, diteggiare un numero al telefono, sgranare gli occhi nel vedere qualche cosa di spaventoso, sospirare per una tenerezza improvvisa. Tutto è burla, tutto è cifra, tutto è falsità: meno l'armonia e il ritmo con cui Audrey suggerisce la coscienza di questa falsità e del suo contrario: la coscienza, cioè, di tutta la vera vita, che lo scherzo della sua recitazione esclude. Un balletto sulle punte, oltre a cui non si va.
Chi è Audrey? Audrey anche lei è un simbolo. Non un simbolo viscerale, e che torni nei sogni, come Sofia. Ma, al contrario, un simbolo intellettuale: un sogno, caso mai, a occhi aperti, e bene aperti.
Audrey simboleggia «l'altra donna» della nostra vita: non la madre, ma l'amica; non la materia, ma lo spirito; non il passato, ma il futuro; non la bontà perversa o pervertibile, ma la perversità buona o capace di bontà. La figura femminile che, senza dubbio, contraddice a tutte le nostre più antiche e radicate preferenze e immagini di femminilità: ma che, forse, proprio per questo, risolverebbe, o almeno avrebbe risolto, la nostra vita. Addio Audrey, perfezione perduta! O non addio? Potrò ancora, grazie a te, come il tuo film, salvarmi?
12 gennaio 1964, tratto Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006