di Marco Chiani
Pensate a una storia, appassionante come un romanzo di Patricia Highsmith e vera come un reportage dell'Espresso dei bei tempi. Pensate, in breve, a quel concetto di non-fiction novel che fa capo a Truman Capote e non soltanto a lui.
Ben oltre la galassia reality, in televisione ha sbarcato la realtà, quella messa in scena con i migliori strumenti del mestiere narrativo però. Sia vicino all'essenza più vera di quanto si diceva sopra oppure a quella di un numero del vecchio Cronaca vera, il true crime attrae l'attenzione come nessun altro genere.
Difficile negarlo. Dopo Making a Murderer e il documentario su Amanda Knox, Netflix continua a dire la sua sul genere con Captive - In ostaggio. Del resto, dalle letture a sangue freddo - per alcuni solo buone per gente morbosa e un po' spostata - al racconto per immagini il passo più che breve non è mai esistito.
La prima stagione di Captive - In ostaggio, disponibile da oggi su Netflix, si costituisce di otto episodi che ricostruiscono altrettanti casi di rapimento. Di alto profilo, s'intende. Casi in cui entrano in ballo i meccanismi che contano, dove ad essere rapiti sono personaggi chiave, per un verso o per un altro.
Alla base del lotto di documentari c'è un approfondito lavoro di ricerca da parte della produzione, uno studio serio che dà vita a rivelazioni e informazioni aggiuntive sulle trattative più macchinose e problematiche portate avanti per liberare gli ostaggi.
Nero su bianco vengono mostrati gli sforzi per il rilascio, le attese, le paure: ad emergere è il non detto, quello che per forza di cose non è mai stato rivelato, tutto ciò che si nasconde dietro al chiacchiericcio mediatico, alle tavole rotonde, agli approfondimenti televisivi. Dopotutto la serialità Netflix ci ha abituato ad un altro tenore, ad un livello che non ha nulla da spartire con i meccanismi produttivi classici.
Sul fatto che Netflix volesse lasciare il segno sull'argomento pochi dubbi: sia sufficiente notare che alla produzione esecutiva lavora un nome di assoluto riferimento per il cinema documentario come Simon Chinn, due volte premio Oscar con Man on Wire e Searching for Sugar Man; ad affiancarlo Doug Liman, regista in proprio di certo pregio e produttore esecutivo dei vari film su Jason Bourne.