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La canzone della terra, Margreth Olin: «con il mio film vorrei far riconnettere le persone alla natura»

La regista racconta a MYmovies il suo film, un documentario intimo e suggestivo che raccoglie immagini e suoni interiorizzati nel corso di un'intera tutta. Al cinema il 15, 16, 17 e 22 aprile.
di Luigi Coluccio

venerdì 12 aprile 2024 - Incontri

Jørgen ha 85 anni, Magnhild 76. Sono i genitori di Margreth Olin, la figlia che ora torna a casa per via delle restrizioni dovute alla pandemia. Margreth sente che deve in qualche modo iniziare a riflettere sulla possibilità di perdere i propri genitori. Così inizia a filmare, filma e cammina con il padre lungo gli scenari mozzafiato dell’ovest della Norvegia, la loro casa natale. Passa un anno e quello che ne viene fuori è il documentario La canzone della Terra, diario personale e monito collettivo, con produttori esecutivi Wim Wenders e Liv Ullmann, scritto e diretto da Olin, una delle registe più conosciute – e premiate – del panorama norvegese.

Lunedì 15 aprile il film uscirà in Italia distribuito da Wanted Cinema, e noi abbiamo intervistato la regista Margreth Olin.

Parliamo del tuo cinema e di come vieni identificata come una documentarista che viviseziona i problemi della società norvegese. Ma con i tuoi film, da Self Portrait a Childhood, da Lullaby a Raw Youth, invece hai sempre messo in scena la voglia di vivere, di connettersi, di andare avanti, con figure come Lene Marie Fossen, Joralf Gjerstad e perfino tuo zio Reidar. Senti che c’è una ricerca di questo, del buono, della condivisione, in quello che fai?
Penso di sì. Ho fatto diversi film sociali e politici, su temi che credo debbano essere portati alla luce. Ma voglio lasciare della speranza nelle mie opere, voglio dare al pubblico la possibilità di avvicinarsi a situazioni e persone a cui normalmente non guardano. Ho fatto un film su dei richiedenti asilo, tutti minori, e sembra che ci siamo “noi” e “loro”, ma pensando a “loro” pensi ai “nostri” figli e a come sarebbe essere espulsi dalla Norvegia e riportati nel loro paese d’origine al compimento del diciottesimo anno d’età. Quando entri in contatto con delle persone, qualunque sia la loro situazione, si attiva sempre questa scintilla, questa fiamma, che è dentro tutti noi, che sta nel profondo di ognuno di noi. Cerco sempre di arrivare a quel livello quando incontro e racconto le persone.

Tu sei cresciuta a Stranda, nell’ovest della Norvegia, e ti sei trasferita altrove trenta anni fa. Torni a casa per cercare di capire i tuoi genitori e tuo padre dice “Avremo bisogno di un anno. E dopo finalmente capirai”. Così iniziate a camminare insieme lungo la valle di Oldedalen nel Nordfjord. In Norvegia c’è una cosa chiamata “Friluftsliv”, “vita all’aria aperta”, e perfino una legge, “Friluftsloven”, “il diritto a vagare”. Ci puoi spiegare questo sentimento, modo di vivere, che pervade l’intero film?
“Ecologia” deriva dal greco antico “oikos”, “casa”. E la natura è la nostra casa. La Norvegia è una nazione che si estende da nord a sud, con una costa molto lunga, e i norvegesi che vivono in questo paese da generazioni prosperano grazie a quello che ottengono dalla natura (compreso il petrolio, ma questo è un altro problema), pescando o coltivando. Per noi andare “fuori” è andare “dentro”, non diciamo “andiamo fuori nella foresta” ma “andiamo dentro la foresta”. Vuol dire che quando sei all’aria aperta sei con te stesso, incontri te stesso. Quando ad esempio vedi Oldedalen, che è così bella, potente, ti connetti davvero con il tuo io interiore dove ritrovi questa conoscenza che ti dice che noi tutti siamo parte di una casa più grande. Oggi pensiamo che l’uomo sia il centro del mondo, e che quando ci prendiamo cura del pianeta lo facciamo per la nostra economia, ma per me, mio padre e tante altre persone è diverso. Per noi quando si è mezzo alla natura, circondati dalle altre forme di vita, non si è soli. Ho voluto fare questo film per dare alle persone l’opportunità di riconnettersi con la natura, per questo il ritmo del film è così lento, per far sentire il battito della natura e di noi stessi, per armonizzarli, per ascoltare la canzoni e le storie della Terra.


In foto una scena del film La canzone della terra.

Il film ha partecipato al Toronto International Film Festival, a vari festival negli Stati Uniti, Germania, Polonia, Olanda, Francia. Ci sono cinque milioni di norvegesi americani che vivono proprio negli Stati Uniti. Pensi che un film come La canzone della Terra, così imbevuto di cultura norvegese, possa essere un modo per sentirsi a casa anche per tutti gli expat in giro per il mondo?
Adesso il film verrà presentato in Italia, e non vedo l’ora che arrivi questo momento perché amo il vostro paese. Ma a maggio toccherà agli Stati Uniti e al Canada. Partirò anche io per il tour promozionale e visiterò diversi stati dove c’è una grande presenza di americani di origine norvegese, che spesso hanno radici familiari proprio nell’ovest della Norvegia, e spesso scherzo dicendo che così potranno tornare a casa. Il film ha avuto un grande successo in Danimarca e in Olanda, è uscito in Giappone, ha riscosso l’apprezzamento delle comunità norvegesi, ma la mia speranza è che il pubblico si possa riconnettere con la natura che sta attorno a noi. Dobbiamo proteggere la natura, ma come possiamo farlo se non sentiamo l’amore per essa? La chiave è nella consapevolezza. Ci sono molti film, inchieste e reportage sul riscaldamento globale che instillano la paura nelle persone. Il mio angolo è invece quello di raccontare come i miei genitori e i miei antenati appartengono alla terra, alla natura, e spero così che il nostro agire sia mosso dall’amore, dalla saggezza, dalla conoscenza, e non dalla paura.

Esattamente a metà film tuo padre racconta del disastro di Loen nel 1905 e nel 1936, quando dalla montagna Ramnefjellet vennero giù due frane che causarono quasi l’intera distruzione degli insediamenti di Bødal and Nesdal sul lago Lovatnet, con centinaia di morti. 4500 persone presenziarono ai funerali delle vittime nel 1936, compreso il principe Olav, e l’evento fu anche trasmesso alla radio in diretta nazionale. Per mostrarci questo hai scelto di usare materiale d’archivio assieme alle riprese sott’acqua dei resti dei villaggi. Ce ne puoi parlare?
Prima di iniziare il film sapevo che una parte della mia famiglia era connessa al disastro di Loen, ma non ne conoscevo la portata. Quando ho cominciato a fare delle ricerche mi sono ricordata di mio padre che mi raccontava di suo padre Elling e dei suoi vicini che andarono nella vicina valle di Loen per cercare dei superstiti. Poi ad un certo punto delle riprese siamo andati con la troupe al lago di Lovatnet, proprio vicino alla croce eretta in ricordo delle vittime, e ho avuto una sensazione fulminante che quella tomba comune avesse qualcosa a che fare con me. Così quella sera stessa, appena tornata a casa, chiesi a mio padre in che modo la mia famiglia fosse stata coinvolta a Loen. Lui mi raccontò che il dolore per il disastro del 1936 fu così grande che per anni nessuno della comunità ne parlò, perché non riuscivano a processare quello che era successo. E che la famiglia della mia bisnonna fu colpita da questa tragedia. Quando la mia bisnonna era molto anziana e iniziava a perdere contatto con la realtà, ogni notte usciva di casa per andare a cercare i parenti scomparsi nel disastro e i ragazzi che abitavano alla fattoria di famiglia dovevano riportarla indietro. Più avanti ho trovato l’intero elenco delle persone morte a causa delle frane e ho capito che io, mio padre e mia madre ne dovevamo leggere i nomi, per ricordare, per ricordarli. E in rispetto dei defunti, siamo andati a girare nei villaggi sommersi dove non c’era stata nessuna vittima.


In foto una scena del film La canzone della terra.

La canzone della Terra è, nonostante le apparenze, un documentario intimo, che parla dei tuoi genitori Jørgen e Magnhild, di tuo nonno Elling, del tuo bis-nonno Anders. Eppure per raccontare tutto questo hai messo insieme una crew con nove responsabili della fotografia, tra droni, riprese subacquee e naturalistiche. Come hai unito la parte personale delle escursioni con tuo padre con quella collettiva delle riprese?
Il principale direttore della fotografia, Lars Øymo, è giovane e non si occupa di fotografia naturalistica. Øymo non aveva mai filmato in mezzo alla natura, non aveva un linguaggio per farlo, cosa molto importante per me perché volevo che fosse la prima volta per tutti. Volevo che io e Lars trovassimo insieme un modo per raccontare tutto questo, perché mi sono portata dietro queste immagini e questi suoni per tutta la vita. Lars era quello che filmava, appena dietro di noi, me e mio padre nelle escursioni, e sopra di noi c’erano sempre due droni, uno in fondo e uno in cima alle vallate. Per le riprese subacquee e in elicottero Lars era sempre con me, perché eravamo noi due a dare il concept visivo e il tono del film. Per la fotografia naturalistica, invece, dato che volevo includere i movimenti e i suoni degli animali, degli uccelli, e non potendo lavorare con una crew numerosa, sono stati i fotografi specifici a girare tutto il materiale.

Dopo un anno di escursioni, camminate, incontri, hai composto una sorta di nuovo folklore norvegese, tra canti, paesaggi, ricordi del passato e prospettive future, soprattutto legate al riscaldamento globale. Ma a livello filmico, visivo, dopo un tale tour de force, c’è qualcosa di nuovo che hai imparato? Un modo nuovo di vedere, filmare, il mondo e le persone?
Questa è una domanda che non mi ha fatto nessuno, ma è una bella domanda. Però sì, ho imparato qualcosa di nuovo. Anzi, so già che vorrò fare altri film sulla natura selvaggia e la connessione che abbiamo con essa. Sto sviluppando due documentari e un film di finzione dove questo è il motivo principale per cui li farò. Ho fatto tanti lavori ma La canzone della Terra è quello che sta girando di più il mondo. Penso che sia un’opera locale e globale, personale e collettiva, contemporanea e senza tempo. Ci sono cose di questo film che voglio portare avanti. Quando ero più giovane volevo essere più divisiva, ora che sto invecchiando e vedo l’amore e la dolcezza dei miei genitori, voglio incoraggiare e ispirare le persone a capire perché le cose vadano fatte e non solo che le cose vadano fatte. Ed è questo che d’ora in avanti guiderà tutti i miei film.


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