Caiti Blues

Caiti è una giovane donna di 29 anni e fin da bambina coltiva un sogno: cantare a Broadway. Per realizzarlo ha cominciato a sostenere audizioni già in tenera età, per poi approdare allo studio del teatro musicale all'Accademia di Belle Arti. Un percorso di formazione che le è costato molto: Caiti, infatti, ha maturato un debito di oltre 30 mila dollari per conseguire il diploma di laurea e ha iniziato a lavorare come barista pur di ripagarlo. Insoddisfatta della sua vita, dà sfogo alle sue frustrazioni nel corso di un programma radio, in cui alla musica alterna il racconto delle sue emozioni. Le giornate trascorrono tutte uguali fino a quando non arriva la possibilità di una nuova audizione: per Caiti può forse essere l'occasione per cambiare finalmente vita.

L'esordio al lungometraggio della regista francese Justine Harbonnier ricostruisce con delicatezza e profondità la vita e le sofferenze di una sognatrice dal cuore spezzato.

«I quit the bottle but it didn't quit me» - questo il ritornello della canzone che chiude l'intenso documentario di Justine Harbonnier Caiti Blues. Il riferimento al genere musicale nato nelle comunità di schiavi afroamericani delle piantagioni di cotone degli Stati Uniti non si limita al titolo, ma appare evidente nel corso dell'intero lungometraggio, caratterizzato da una profonda "anima blues".

La stessa parola, "blues", deriva infatti dall'espressione inglese "to have the blue devils" - avere i diavoli blu - riferita a un sentimento di tristezza, agitazione e depressione, in origine associato allo stato allucinatorio derivante dalle crisi di astinenza da alcool. Allo stesso modo Caiti Lord, magnetica protagonista del film, sviluppa una deleteria dipendenza da alcol, sostanza in cui si rifugia per allontanarsi dal grigiore della sua vita.

Dopo la guerra di secessione americana, tuttavia, le espressioni "to be blue" e "to have the blues" cominciarono a indicare esclusivamente una sensazione di sofferenza o malinconia, distanziandosi dall'iniziale connessione con lo stato di ubriachezza. Da allora il genere musicale si unì indissolubilmente a questo tipo di emozioni, tanto che divenne consuetudine affermare che il musicista blues suonava o cantava per "liberarsi dai blues".

E così anche Caiti trova nelle sue canzoni uno strumento per dar voce - e in questo modo allontanare - le sue malinconie: i titoli stessi dei brani della musicista danno infatti il titolo alle diverse sezioni del documentario, che raccontano il passato e il presente di una sognatrice perduta.

Oltre alle canzoni, anche i monologhi radiofonici della protagonista divengono intima espressione dei suoi tumulti interiori. Sincere, coinvolgenti e penetranti, le parole di Caiti alla radio indipendente KMRD tengono lo spettatore incollato allo schermo, ascoltatore inerme di una tragedia personale in cui è difficile non rispecchiarsi. Sì, perché i drammi di Caiti, dispersa nella città fantasma di Madrid, diventano simbolo dei disagi che affliggono un'intera generazione, incompiuta e frustrata dall'impossibilità di realizzare i propri sogni.

Ma Harbonnier non si limita ad accompagnare lo spettatore nelle profondità dell'animo di Caiti attraverso la musica, i monologhi radiofonici e i filmati di infanzia e lo avvicina alla protagonista anche attraverso i movimenti della macchina da presa. Il frequente uso del primo piano serve infatti alla regista per creare una connessione ancora maggiore con la malinconica cantante, ritraendola con intensa gentilezza.

Alla fine, non possiamo far altro che tifare per Caiti, augurandoci che i suoi sogni, come i nostri, possano un giorno realizzarsi. 