Anno | 2022 |
Genere | Documentario |
Produzione | Danimarca, Francia |
Durata | 79 minuti |
Regia di | Ainara Vera |
Tag | Da vedere 2022 |
MYmonetro | Valutazione: 3,50 Stelle, sulla base di 1 recensione. |
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Ultimo aggiornamento giovedì 25 gennaio 2024
Ritratto commovente di due sorelle completamente diverse, il film propone un duplice sguardo sulla condizione delle donne nel mondo della navigazione. Una vera e propria traversata, sia fisica che mentale.
CONSIGLIATO SÌ
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Hayat è un'esperta donna di mare che trascorre le sue giornate navigando nella nebbia e nel silenzio dei ghiacci dell'Artico, alla guida di enormi imbarcazioni che le richiedono attenzioni quotidiane. Accompagnata solo dai suoi pensieri e da sporadiche conversazioni con gli altri membri dell'equipaggio, l'abile marinaia passa il suo tempo in una dimensione di solitaria armonia, interrotta soltanto dai dolorosi ricordi di un'infanzia traumatica, trascorsa in Francia insieme alla sorella minore Leila. Quando quest'ultima dà alla luce una bambina di nome Inaya, Hayat inizia a porsi delle domande profondamente intime e a mettere in discussione il suo stile di vita: che non sia forse arrivato il momento di cercare una stabilità e fare pace con i demoni del passato?
Con Polaris la cineasta spagnola Ainara Vera firma un ritratto intimo e contemplativo di una navigatrice alle prese con i traumi del passato.
Simbolico e meditativo, il lungometraggio avvolge e stordisce grazie a una fotografia sognante e poetica che si scontra con la crudezza delle parole della protagonista. Coproduzione franco-danese, è la seconda fatica dell'autrice spagnola, in precedenza conosciuta come addetta al montaggio per il cineasta russo Viktor Kossakovsky. Pare sia stato proprio durante le riprese del documentario Aquarela di Kossakovsky che Vera ha conosciuto l'intensa e sensibile Hayat, che poi avrebbe scelto come protagonista del suo Polaris. Se già Aquarela era un viaggio impetuoso nella potenza dell'acqua, in Polaris quest'elemento ritorna arricchito di una nuova forza evocativa. Costante compagna della vita professionale della protagonista, l'acqua diventa, nel corso del lungometraggio, emblema di qualcosa di più profondo: in psicanalisi associata all'inconscio, l'acqua rappresenta la vastità del mondo interiore rimosso o dimenticato, qui immagine di un trauma infantile che fatica a essere superato. Nei mari dell'Artico Hayat trova così rifugio dai dolori del passato e dai travagli del presente, ma persino in quei luoghi distanti dalla frenesia del mondo contemporaneo i suoi pensieri non smettono di chiederle attenzione e i traumi infantili non sembrano intenzionati a tacere.
Così, come in una seduta d'analisi, le riflessioni malinconiche di Hayat si posano sui paesaggi estremi poeticamente ritratti dalla fotografia di Vera e Inuk Silis Høegh. Immagini mozzafiato del vapore sprigionato dal terreno, della pioggia battente, del mare increspato dalle onde e del magma incandescente di una colata lavica si alternano nel silenzio di un'atmosfera contemplativa spezzata dalla durezza delle parole pronunciate dalla protagonista. Ma l'acqua non è solo simbolo dell'universo interiore rimosso, essa è anche rappresentazione del ventre materno, di quel liquido amniotico in cui ci si culla prima di venire al mondo. E infatti è proprio in quei paesaggi lontani e quasi ultratterreni che Hayat inizia a pensare alla maternità. La notizia della nascita della nipote fa infatti sorgere in lei nuovi interrogativi e riflessioni sul passato, che questa volta si tingono di una rinnovata speranza verso il futuro. Comincia a farsi strada in Hayat l'idea che sia possibile spezzare la catena di sofferenza che da generazioni affligge la sua famiglia, che forse anche per lei è arrivato il momento di trovare una stabilità, di lasciarsi andare a una relazione in cui mettere radici e prendere in considerazione la possibilità di diventare madre, invertendo attraverso l'amore la triste rotta del suo passato. Simili pensieri rimangono però abbozzati, sfumati, privi di una reale concretezza: è infatti la nebbia a caratterizzare non solo l'entrata in scena di Hayat, ma anche la chiusura del film. Hayat emerge dalla nebbia e alla nebbia ritorna, perché il suo percorso di emancipazione dal dolore subito da bambina è soltanto all'inizio, la sua tempesta interiore non si è ancora fermata. Non si sa quale sarà l'esito del viaggio - materiale e metaforico - intrapreso dalla protagonista, ma si sa quali saranno le figure di riferimento, le stelle polari attraverso cui orientarsi nel tragitto: la sorella Leila e la sua bambina. Forse non è un caso che solo loro ci vengano mostrate in volto, unici personaggi nitidi nella nebbia della disperazione.
Con Polaris la cineasta spagnola Ainara Vera firma un ritratto intimo e contemplativo di una navigatrice alle prese con i traumi del passato. Costante compagna della vita professionale della protagonista, l’acqua diventa, nel corso del lungometraggio, emblema di qualcosa di più profondo.
Come in una seduta d’analisi, le riflessioni malinconiche di Hayat si posano sui paesaggi estremi. Immagini mozzafiato del vapore sprigionato dal terreno, della pioggia battente, del mare increspato dalle onde e del magma incandescente di una colata lavica si alternano nel silenzio di un’atmosfera contemplativa spezzata dalla durezza delle parole pronunciate dalla protagonista.
Ma l’acqua non è solo simbolo dell’universo interiore rimosso, essa è anche rappresentazione del ventre materno. E infatti è proprio in quei paesaggi lontani e quasi ultratterreni che Hayat inizia a pensare alla maternità. La notizia della nascita della nipote fa infatti sorgere in lei nuovi interrogativi e riflessioni sul passato, che questa volta si tingono di una rinnovata speranza verso il futuro.