Squilibrato e pomposo, il film di Pohlad non riesce a sfruttare una storia incredibile. Presentato Fuori Concorso alla Mostra.
di Roberto Manassero
Da una vicenda molto nota nell’ambiente della musica underground, Bill Pohlad ha tratto un melodramma familiare basato in particolare sui tormenti del talentuoso Donnie. La sua storia e quella di una perla musicale tornata a risplendere ha generato nelle mani di Hollywood un racconto in cui i piani temporali s’intrecciano mettendo in relazione il presente di Donnie e famiglia con il loro passato: realtà e ricordo, sogno e fallimento, fede e convinzione, libertà e successo, fallimento e conquista. L’America, insomma.
La materia melodrammatica è parecchia, ma purtroppo né la regia né la sceneggiatura dello stesso Pohlad sanno gestirla. Il film è un miscuglio squilibrato e pomposo di dialoghi salmodianti e ripetitivi, toni eccessivamente malinconici, retorica familista, celebrazione dei valori più autentici dell’America profonda (fiera del proprio isolamento ma intelligente abbastanza da non mettere freni ai sogni), scelte di messinscena caotiche, tra eccessi di camera a mano, fotografia in controluce e sequenze in montaggio alternato tra passato e presente.