Corpo a corpo

Per Veronica Yoko Plebani, atleta paralimpica italiana, lo sport è tutto. Sa di dover faticare più degli altri, impegnarsi al massimo e andare oltre i propri limiti. Sulle cicatrici che le rigano la pelle, Yoko ha costruito la sua personale rinascita: da quel 2011, quando una meningite batterica fulminante le ha fatto perdere le falangi di mani e piedi, all'immediato rilancio fisico e psicologico che le ha permesso di raggiungere risultati straordinari. Il docufilm Corpo a corpo si concentra sulla preparazione atletica di Yoko in vista dei Giochi Paralimpici di Tokyo 2020, dagli allenamenti massacranti agli incontri con gli amici, dallo studio ai set fotografici. Ma c'è qualcosa che perfino la determinatezza di Yoko non poteva prevedere: la pandemia mondiale che ha immobilizzato la vita di tutti.

Un docufilm che genera un immediato coinvolgimento, grazie soprattutto alla sua protagonista, ma che perde un po' della sua attrattiva poco prima del traguardo finale.

Corpo a corpo, docufilm di Maria Iovine, tratteggia la sua protagonista già nei primi minuti di film, mostrando il viso e la disposizione di Yoko, naturale e non ostentata, di farsi vedere oltre i propri difetti, senza nascondersi dietro uno strato di trucco. Tale inclinazione, tanto forte quanto assolutamente spontanea, è una delle caratteristiche della protagonista che il docu-film mette a fuoco, mostrando la vita di Yoko anche al di là dello sport.

Se il docu-film di Maria Iovine può giocare, da un punto di vista formale, con le soluzioni che sono proprie del documentario e con quelle che invece appartengono a un film, è anche grazie a una struttura elastica in continuo movimento. Il tratto analitico di alcune sequenze, come quelle dal medico e quelle in palestra, si amalgama bene con quelle che invece godono di una messa in scena più vicina ai canoni di un film. In questo senso, da un punto di vista documentaristico, non viene risparmiata la minuziosità del dettaglio, e ne beneficia un realismo solido e mai artificioso. Ci sono scene, al contrario, nelle quali ha un ruolo più rilevante la vita privata dell'atleta, i suoi momenti di solitudine, quelli con gli amici, quelli legati allo studio universitario, nei quali emerge maggiormente il suo carattere attraverso una tecnica che si discosta da quella della documentazione filmica.

Questa struttura, che ha il merito di mostrare Yoko quasi a tutto tondo, perde abbastanza della sua funzionalità nella parte finale del docu-film. Quando la protagonista si trova costretta a fermarsi a causa della pandemia, l'opera di Maria Iovine fa un salto temporale che in termini filmici rappresenta uno stacco netto brusco ma in fondo comprensibile. Al termine di questo, però, gran parte di quello che non è stato mostrato viene restituito al pubblico mediante la parola, non l'immagine. Si ha quindi la sensazione che il docu-film si riallacci a una dimensione più marcatamente documentaristica, tradendo un po' la sua natura e la sua naturalezza. Ed è proprio a discapito della naturalezza che il docu-film giunge alla sua conclusione, mostrandosi più vulnerabile a causa di alcune scene più costruite e calcolate di altre.

Senza alcun dubbio il maggior punto di interesse del docu-film è la sua protagonista: quella Yoko "figlia del sole" che attraverso la sua energia, la sua forza di volontà e la voglia di guardare sempre oltre le difficoltà, si mostra come un'atleta nata. Il destino le ha reso la vita complicata, ma lei è riuscita a capovolgerlo a suo favore, partendo dal basso, passo dopo passo, fino a raggiungere quello stato mentale che le ha permesso di lottare per qualsiasi cosa, anche contro e per il proprio fisico. Ed è proprio attraverso il suo corpo, oltre lo sport, che Yoko ridimensiona ogni canone di bellezza. Lo fa senza presunzione, al di fuori di ogni concezione favolistica e sempre con quel lato istintivo che le ha permesso di diventare grande. 