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Tenet, un altro pezzo della collezione di Nolan dedicata al tempo

Se nei film precedenti era velato, ora il tema del tempo diventa il vero protagonista. Al cinema. 
di Sara Gelao, Vincitrice del Premio Scrivere di Cinema

giovedì 3 settembre 2020 - Scrivere di Cinema

Riaprono i cinema. Si riaccendono i proiettori. Christopher Nolan riapre le danze con il suo ultimo film, tanto chiacchierato da mesi, Tenet. Un blockbuster che rincuora i botteghini e che sazia l’astinenza da comode poltrone rosse dei moviegoers, ma anche un action rocambolesco che in parte conferma e in parte smentisce la filmografia del regista.

Nell’eroico, titanico, tentativo di disinnescare una Terza Guerra Mondiale e una preannunciata apocalisse, pedine di un cupo spionaggio internazionale ordiscono le trame di una missione. Un’impresa folle, che va oltre lo spazio-tempo reale e che incalza senza sosta sin da subito, con un’opening scene che seda noi, spettatori reali, parallelamente a quelli di fronte, sullo schermo. (Che sia una voluta allegoria? Una sottile allusione ad un pubblico-massa dormiente e passivo?) 

Il repertorio di Nolan è ormai una ricca collezione di leitmotiv fisici e metafisici che plasmano un film dopo l’altro su concetti universali, come quello della memoria in Memento o del sogno in Inception, senza tralasciare il commovente viaggio nello spazio e nel rapporto padre-figlio di Interstellar. 
 

Il tempo, a scanso di equivoci, sembra essere quindi comune denominatore sottotraccia, privilegiato oggetto d’indagine e narrazione filmica, quasi, un feticismo. 
Sara Gelao

Questa volta, però, non ha il marginale ruolo di velato substrato. È infatti il protagonista del film, forse più di quello in carne ed ossa: un agente segreto, senza storia o nome, affidato ad un algido John David Washington.

Oltre che nel suo flusso naturale, in Tenet, il tempo scorre simmetricamente anche in reverse. Ma non come se stessimo riavvolgendo un nastro, piuttosto, come se ci investisse un futuro già successo, come se ci ritrovassimo tra le mani un passato che non ricordiamo, non ancora. È il secondo principio della termodinamica, quello dell’entropia, ritratto e romanzato nella sua più piccola e improbabile possibilità, quella che essa si possa ribaltare, che da uno stato di caos possa ristabilirsi uno di ordine, che il tempo possa non soltanto scivolare in avanti. 

L’ultima fatica di Nolan, allora, è ancorata a due principi temporali che si fanno strutturali: il palindromo, gioco per il quale una parola – come Tenet non a caso – letta in senso inverso, sia da sinistra sia da destra, rimane identica, e l’uroboro, un antico simbolo archetipico di un serpente che si morde la coda, di un cerchio senza inizio né fine. È così che si è tentato, ancora una volta, di rappresentare l’irrapresentabile, un tempo che va all’indietro e una storia che si apre ma non si chiude, anzi, che ritorna al punto di partenza.

Il confine, del resto, tra l’audace ambizione e l’esperimento mal riuscito spesso è labile: effetti speciali immaginativi e ingegnosi edulcorano una certa stravaganza visuale, mascherano e smascherano a ritmi alterni una trama che apparentemente fitta e cervellotica si risolve, in realtà, soltanto in seducenti e magnetiche scene d’azione. Tipicamente nolaniana la tecnica, che sospinge un film fatto di meccanismi e logiche e da un ritmo senza pietà, sostenuto fin quasi all’eccesso; meno l’emotività, che resta timida e incerta, complici anche dei personaggi poco carismatici, anonimi, irraggiungibili. 

Dove, insomma, Interstellar aveva fatto breccia per spiccata sensibilità, inverosimile realismo e sincero coinvolgimento, Tenet ci lascia perlopiù inebetiti con una colonna sonora martellante, qualche schema da ricostruire e il piacere di tornare in sala con una domanda che si insidia riecheggiante: come sarebbe il nostro tempo, il nostro mondo, al contrario? 


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