Da sempre Gianni Zanasi, con atteggiamento di emiliana surrealtà, ha cocciutamente inseguito un cinema di minorità al tempo stesso emozionante e scombinato. Al cinema.
di Roy Menarini
Il cinema italiano è assediato dalle convenzioni. Sia il cinema di genere sia il cinema d'autore vengono spesso percepiti come stereotipati. Talvolta questo aspetto - non certo un problema recente - è stato identificato con la centralizzazione "romana" dei prodotti, e con estetiche (vuoi sociologiche e periferiche, vuoi urbane e borghesi) oleografiche. A questo stato di cose ha reagito una delocalizzazione delle produzioni che, tra anni Novanta e oggi, ha fatto parlare di volta in volta di nuova onda napoletana, cinema pugliese, cinema sardo, friulano e così via. Un po' i centri di produzione e un po' le film commisison hanno fatto il resto, cercando di spalmare su tutto il territorio nazionale i prodotti cinematografici e di svecchiare l'immaginario romanocentrico con iniezioni di "bio-diversità" cinematografica. Non sempre le cose hanno funzionato, e spesso hanno stupito di più i film e gli autori che hanno saputo trovare davvero nella provincia un serbatoio poetico alternativo.
Tra di loro certamente Gianni Zanasi, modenese, che con atteggiamento di emiliana surrealtà ha cocciutamente inseguito un cinema di minorità al tempo stesso emozionante e scombinato, pieno di idee non convenzionali e privo di ambizioni eccessive. Quelli di Zanasi sono sempre piccoli film, anche se uno di essi - Non pensarci - è stato persino esteso a serie televisiva.
Troppa grazia esprime questa alterità, questo suo posizionamento esterno ai codici del cinema italiano, principalmente attraverso la discontinuità. Autentico come pochi, Zanasi - anche montatore del film, non a caso - possiede come cifra stilistica quella di sabotare ogni equilibrio comodo e rotondo dentro le storie che narra. I suoi racconti per immagini sono fatti di stasi e accelerazioni, euforie e pesantezze, momenti comici e malinconie, montaggi serrati e improvvisi blocchi, come se il primo pericolo fosse la sceneggiatura-standard del cinema italiano, e la permanenza dello stesso mood sentimentale dell'inizio alla fine del film.
Questo spiega perché gli stati d'animo che lo spettatore si trova da affrontare vedendo Troppa grazia sono numerosi e non tutti uguali. È un film che letteralmente non sai come prendere. Parla di una Madonna che picchia e percuote la donna cui ha deciso di rivelarsi, ma non è un film blasfemo; parla di corruzione e di costruttori senza scrupoli, ma non è un film di denuncia sociale; parla di gente stralunata e di riferimenti religiosi, ma non ha nulla a che fare con la recente scuola dell'arcaismo magico (di Alice Rohrwacher o Pietro Marcello).
Soprattutto, Troppa grazia stravolge dalle fondamenta la figura di Alba Rohrwacher. Che si tratti di un'attrice rigorosa e intelligente, coraggiosa e versatile, lo sapevamo. Qui, in più, buttata dentro un caleidoscopio emotivo - dove deve passare da momenti in stile Monica Vitti versione comica ad atteggiamenti di ironico straniamento - unisce uno dopo l'altro i puntini lontani di un personaggio-helzapoppin di rara dolenza e simpatia. Un po' come la geometra che interpreta, quando si accorge che, per quanto si sforzi di misurare il terreno con picchetti, rilievi, bolle, planimetrie, le cose non tornano.
Il cinema di Zanasi è quel campo dove le mappe non corrispondono, e la prova di Alba Rohrwacher è maiuscola poiché a quell'universo dai punti di riferimento bizzarri deve dare un corpo, uno sguardo, persino una clownerie. Dunque, per quanti cali di ritmo e scene un po' buttate via Troppa grazia contenga, vale la pena abitarci per un po'.