Tre donne camminano l'una nei passi dell'altra: devono essere amiche poiché cercano la stessa cosa: la solidarietà femminile, un sapere da tramandare di madre in figlia. Presentato alla Berlinale e ora al cinema.
di Paola Casella
C'è un lascito di conoscenze che si tramanda di madre in figlia, e che contribuisce a creare l'identificazione del femminile. Un trasferimento di informazioni spesso interrotto, soprattutto nella contemporaneità. Laura Bispuri lo rimette proprio al centro del suo Figlia mia, una riappropriazione fin dal titolo. E se così spesso nel film si parla della Vergine Madre è perché con la concezione mariana della femminilità, così presente nella cultura italiana, Bispuri si confronta in modo diretto, facendo squadra con un'altra artista di talento: la sceneggiatrice Francesca Manieri.
Al cuore della storia è una bambina di quasi dieci anni, Vittoria: diversa dalle coetanee fin dai colori - rossa e lentigginosa - con una grande coda di cavallo che la accomuna fin dalla prima scena ai quei bradi non addomesticabili che animano ancora oggi i rodei in una terra, quella di Sardegna, rimasta ancora un po' Far West.
Eppure Vittoria è cresciuta obbediente come la voleva sua madre adottiva Tina, donna timorosa di tutto (e della Beata Vergine, cui si rivolge affinché tutto resti uguale) e preoccupata che la bambina esca dal suo abbraccio tentacolare per raggiungere la madre naturale: Angelica, cui Vittoria somiglia per aspetto fisico anomalo e indole ostinata e contraria. Con Angelica la bambina smette di sentirsi brutto anatroccolo e si trasforma in cigno coraggioso, va incontro alla propria sessualità e al suo essere femmina.
Ma anche Tina ha un posto importante nella vita di Vittoria. È il luogo della convivenza civile, della protezione, del ristoro. Entrambe le madri sono necessarie alla bambina, così come la figlia è necessaria alle due donne per ricomporre quell'identità femminile che in loro è scissa e polarizzata: da un lato il dovere, l'ordine, la responsabilità; dall'altro l'istinto, la follia, il desiderio. Qui la Madonna tutta genitorialità sacrificale, là la puttana tutta irrazionalità autolesionista: è la dicotomia cui molte donne, soprattutto nei paesi cattolici, vengono spietatamente ricondotte, chiedendo loro di scegliere se essere solo l'una, o solo l'altra.
Ma Vittoria non vuole scegliere. Vittoria vuole tutto, perché nel suo modo confuso ed esitante sa di avere diritto ad essere tutto. E non crede che la felicità sia una colpa, anzi, vede il senso di colpa come un inutile freno alla propria complessità umana, e in questo è più evoluta dell'irriverente Angelica, che già dal nome tradisce un'aspirazione celeste mai appagata.
Con la sua regia morbida e accogliente Bispuri ruba la luce alla Sardegna e vi avvolge le sue tre ragazze, trovando spazio per ogni loro manifestazione vitale. Figlia mia è un western dell'anima che ha per protagonista una canna al vento, di quelle che si piegano senza spezzarsi mai, un fuscello che sa scivolare in un buco e riemergerne con la consapevolezza nuova che il vuoto non esiste, quando diventa pieno di te. Vittoria impara a fare da sola e a mettersi alla guida del corteo, uscendo dalla cappa protettiva (e dal cono d'ombra) di Tina senza per questo rinunciare al suo abbraccio. E impara da Angelica a guardare quelle "cose che non ha mai visto", a toccare con mano la propria natura femminile.
Queste tre donne camminano l'una nei passi dell'altra, capiscono che devono essere amiche poiché cercano la stessa cosa: si chiama solidarietà femminile, e anche questo è un sapere da tramandare di madre in figlia. Perché i piccoli tornano nello stesso punto da cui vengono le madri, ma se tagli loro la strada (come fa il montaggio severo di Carlotta Cristiani, che è al contempo cesura e censura) faranno molta più fatica a ritrovarne le tracce.