Nanjiani e Showalter destrutturano senza dare nell'occhio la romantic comedy e scuotono tre mondi, così come i tre atti di cui si compone il film, con straordinaria efficacia. Al cinema.
di Roy Menarini
Una decina di anni fa, nel cerchio degli appassionati, fece un certo scalpore un breve pamphlet scritto da due giovani critici-filosofi, che si intitolava "Apologia del filmetto" dove Luca Bandirali e Enrico Terrone (questo il loro nome) spiegavano con serietà e erudizione che non esiste alcun motivo per decretare la minorità della commedia rispetto al cinema impegnato, e che anzi molti film considerati usa-e-getta illuminano verità psicologiche e sociali molto meglio di altri generi. Inoltre, la professionalità della scuola americana del prodotto cinematografico, tutt'altro che semplicistica, garantisce uno sviluppo di trama e di coerenza narrativa assai maggiore di tanti conclamati autori. Torna in mente quella riflessione vedendo The Big Sick (guarda la video recensione) dove un autore comico statunitense di origine pakistana prende a spunto elementi autobiografici, e offre allo spettatore una commedia adulta e profonda (con lo zampino del geniale Judd Apatow, produttore), la cui apparente leggerezza non deve trarre in inganno né essere considerata subalterna a certi filmoni all'europea o a sedicenti candidati agli Oscar.
Kumail Nanjiani, sceneggiatore e attore protagonista, ne è il vero deus ex machina, anche se dietro la macchina da presa siede (con correttezza ma forse senza il piglio che avrebbe avuto Apatow nelle inquadrature) Michael Showalter.
Quel che piace e convince, di The Big Sick, è la sua imprevedibilità pur nei canoni della commedia sentimentale, i cui esiti magari sono noti ma con un percorso decisamente originale. L'idea stessa di strutturare il secondo atto - o l'ostacolo che blocca la riconciliazione (in fondo un "rimatrimonio", per usare una formula di un altro filosofo appassionato di commedie come Stanley Cavell) - attraverso una girlfriend in a coma, e spostare tutto l'asse sul rapporto tra il fidanzato e i diffidenti genitori della ragazza è sicuramente riuscita, permettendo una esplorazione di caratteri e uno studio psicologico/sociale americano di finezza inusitata.
Ma il vero carburante del film è rappresentato dal confronto etnico e culturale, giocato intelligentemente su più livelli. Kumail è al tempo stesso la vittima del sistema di tradizioni pakistano, esportato negli Stati Uniti, e colui che la offre in forma di autorappresentazione. Sia i suoi pezzi da stand-up comedian sia il suo show teatrale girano intorno alla difficile identità del pakistano in America dopo il 2001.
Il terzo polo è la vita vera: fuori dal consesso famigliare, regolato da rigide convenzioni, e al di sotto del palco, si gioca una negoziazione di identità particolarmente delicata e complessa, in cui nessun momento dell'esistenza è al riparo dal razzismo, dall'incomprensione, dal dubbio, dall'ignoranza, dal risentimento, o semplicemente dalla paura del diverso.
La spinta alla risoluzione dei problemi giunge proprio dal coraggio di spezzare e mescolare i tre spazi fino a quel momento chiusi in compartimenti stagni: la vita e la malattia finiscono sul palco, l'amore e la libertà irrompono in famiglia, i drammi sublimati dall'arte comica mordono e feriscono nel quotidiano. Nanjiani e Showalter destrutturano, senza dare nell'occhio, la romantic comedy e scuotono i tre mondi, così come i tre atti, con straordinaria efficacia, offrendo pensieri seri attraverso risate intelligenti e giungendo così a dirci cose rilevanti sul tessuto culturale americano, sul ruolo della famiglia nella coppia, sui tempi del desiderio, sulla fragilità imprevista delle persone, sulla superficialità di un pubblico dentro al quale - non di rado - si nascondono esseri umani magnifici e al contempo persone detestabili. Insomma, i filmetti - se intelligenti come questo - dicono la verità.