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Disobedience: viaggio verso la libertà, da prendere e da concedere

Sebastián Lelio dirige Rachel Weisz e Rachel McAdams in un film che è al tempo stesso un'analisi psicologica, una storia d'amore e un melodramma moderno. Al cinema.
di Roy Menarini

Disobedience

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Rachel McAdams (45 anni) 17 novembre 1978, London (Canada) - Scorpione. Interpreta Esti Kuperman nel film di Sebastián Lelio Disobedience.
sabato 27 ottobre 2018 - Focus

Lo strano momento politico e sociale che l'Occidente sta vivendo sembra aver suscitato nell'immaginario cinematografico un'esplosione di distopie. Al contrario dell'utopia, la distopia suggerisce infatti scenari di privazione della libertà, all'apparenza minacciosi per lo spettatore ma con un sottofondo di attrazione per il fatto che ogni alternativa alle strutture cui siamo abituati sembra del tutto improponibile. È curioso pensare a questo tema vedendo Disobedience, che si svolge nella Londra contemporanea in una comunità assai importante e stimata, quella degli ebrei ortodossi. Eppure, per chi guarda dall'esterno e con disinvoltura culturale, quel gruppo di persone e quell'organizzazione sociale riporta alla memoria per prima cosa Handmaid's Tale (sia pure deprivato di violenza) a cominciare dalle formule di rito e proseguendo con la posizione della donna nella comunità.

Ovviamente nessuno si può permettere di liquidare quell'articolazione religiosa e famigliare come se si trattasse di un culto pagano o di una dittatura, eppure il concetto di colpa femminile emerge con la medesima forza.
Roy Menarini

Se non fosse per un personaggio complesso, dignitoso e sfaccettato come il rabbino in pectore Dovid, ci potremmo anche trovare di fronte a un film di denuncia sospeso tra atto d'accusa e fantascienza sociale. Invece Disobedience è al tempo stesso un'analisi psicologica, una storia d'amore e un melodramma moderno. Il fatto che sia stato girato da un regista cileno non fa che confermare l'attitudine globalista del cinema, compreso quello d'autore, visto che temi universali slittano rimanendo abbastanza intatti da una cultura all'altra (a patto di ambientarne le declinazioni con precisione antropologica e geografica).


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In foto una scena del film Disobedience.
In foto una scena del film Disobedience.
In foto una scena del film Disobedience.

Rimane da chiedersi se Sebastián Lelio metta in gioco anche gli aspetti cinematografici del problema o se si limiti a farne il veicolo di una storia potente. Ed è qui che bisogna essere estremamente onesti. Se da una parte è innegabile che la promessa comunicativa (fin dalle locandine e dal trailer) di una dimensione erotica sia presente - e per di più con la seduzione di due attrici particolarmente note, e belle - dall'altro Lelio ha l'intelligenza di lavorare sui contatti fisici come elemento visuale primario per il film.

La prima parte, quella del ritorno di Ronit e della sua contrastata accoglienza presso i vecchi amici ed educatori, funziona proprio per come cinematograficamente Lelio lavora sui corpi e sugli spazi. La newyorkese abituata a comportamenti fisici e prossemici di un certo tipo deve in poche ore reimparare i codici comportamentali e gestuali della comunità, evitare di abbracciare gli uomini, muoversi ritualmente in spazi domestici ristretti, ridurre la libertà verbale e personale, aggirarsi con circospezione e utilizzare lo sguardo con parsimonia.

Questa attenzione alla claustrofobia e alla mimica (ben gestita dalle attrici, che confermano la loro capacità), viene capitalizzata nel momento in cui le regole vengono superate dall'incontenibilità del desiderio, per di più omoerotico. Non è più lo "scandalo" a colpire a quel punto, ma la forza dell'attrazione fisica, controllata e repressa per anni e dunque assai più travolgente nel momento in cui si sprigiona.
Roy Menarini

Dopo aver visto Disobedience e il suo viaggio verso la libertà (da prendersi, sì, ma anche da concedere dopo una lunga educazione sentimentale), si capisce perché non dovremmo mai sentirci in colpa di fronte al cinema erotico, alle sue promesse, ai suoi ammiccamenti, alle sue strategie - perché no - pubblicitarie. Il cinema d'autore non deve obbligatoriamente comportarsi come la comunità qui rappresentata.


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