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Un cinema partigiano che lotta dalla parte dei giusti

Pif racconta il suo nuovo film, il suo amore ostinato per la Sicilia, il suo progetto futuro senza mafia e senza commedia. Al cinema.
di Marzia Gandolfi

domenica 30 ottobre 2016 - Incontri

È in sala il nuovo film di Pif, una commedia sentimentale che riprende le fila di una storia (d'amore) e della Storia, svolte e allacciate in Sicilia. In guerra per amore risale il tempo e prosegue il discorso di La Mafia uccide solo d'estate, con cui forma un dittico ideale. Cinema partigiano che combatte dalla parte dei giusti, quello di Pif è uno sguardo viscerale e lirico, naïf e magico. Un cinema di silenzi svelati, che fa memoria e mette in commedia la tragedia. Fantastico e (ir)reale come un asino che vola. E a cavallo di un asino, l'autore sbarca in Sicilia, rivelando le conseguenze delle scelte americane per la regione. Perché gli alleati passano, è imperativo vincere la guerra, ma i problemi morali non passano. Se da una parte il patto Usa-Mafia agevolò il passaggio degli anglo-americani, dall'altra risvegliò la mafia a lungo inattiva. Segnato giovanissimo da 'un evento', le stragi mafiose del '92, quell'evento forma l'immaginario e i racconti di Pif, il suo modo di vedere il mondo e di leggerlo. Come nelle foto di Tony Gentile, Pif è inciampato nella Storia, quella vera, quella tragica, quella dei crateri nelle strade e delle macchine bruciate, quella dei morti ammazzati e dei cattivi senza redenzione. Di quella Storia, una storia di guerra (di mafia), Pif ci racconta per l'ultima volta. Perché il suo futuro, nella vita e sullo schermo, lo sogna senza mafia.

Ha ragione Pietro Grasso? Nascere e vivere in Sicilia non è come nascere e vivere in qualunque altro luogo d'Italia?
È sempre difficile spiegarlo. Ho avuto un'infanzia non troppo diversa da quella di un bambino di Milano. Poi però la prima volta che sono salito a Milano ho capito. Capitava che qualcuno mi domandasse se avessi mai avuto amici mafiosi dal momento che ero cresciuto a Palermo e tutti mi guardavano con stupore quando rispondevo di aver avuto un'infanzia tranquilla. In realtà non è vero anche se noi pensavamo che fosse così. La verità è che noi per sopravvivere, per sopravvivere al male, guardavamo dall'altra parte. Ho cercato di spiegare questo meccanismo di difesa in La Mafia uccide solo d'estate, ho provato a raccontare perché persone nate e cresciute in una città con la mafia facessero finta di niente. Mi ricordo un incontro con due giornaliste tedesche che mi dissero di conoscere bene quel meccanismo, che loro avevano applicato sotto il regime nazista. Non puoi accettare che il male abiti proprio sotto casa tua e provi a proteggerti.

La Mafia uccide solo d'estate e In guerra per amore formano una sorta di dittico ideale che denuncia il sistema mafioso e adotta la forma del 'romanzo di formazione'. Al centro c'è sempre un personaggio che prende coscienza del fenomeno mafioso e si vuole diverso rispetto alla cultura criminale diffusa. Ieri il giornalista di Claudio Gioè, oggi il capitano americano di Andrea Di Stefano, c'è sempre qualcuno che innesca il risveglio del protagonista. È stato così anche per te?
No, perché io ero cosciente fin da ragazzino. Alle superiori, diversamente dal mio personaggio (La Mafia uccide solo d'estate), scrivevo temi contro Andreotti. C'è però una differenza di approccio al fenomeno mafia tra la mia generazione e quella di mio padre. Certo mio padre mi diceva che Genco Russo era colluso, che Ciancimino era mafioso ma il suo sdegno si esauriva lì. Io invece appartengo a una generazione che non si limitava a dire che questo o quell'altro erano mafiosi ma è andata oltre, provando a denunciare questo o quel mafioso. La loro era una generazione rassegnata, così era e sempre sarà. Per noi è stato differente. Un conto è vivere le stragi del '92 a cinquant'anni, un altro è viverle a vent'anni, quando sei arrabbiato col mondo. Naturalmente poi è anche questione di inclinazione, non tutti i miei coetanei palermitani erano così indignati.

Senza rabbia e senza volontà...
Sì, io credo che non ci sia mai stata la volontà politica di combattere veramente la mafia. Non c'è mai stata per ignoranza, rassegnazione e altre cose che provo a spiegare nel mio ultimo film. Lavorando a In guerra per amore mi sono reso conto che la mafia con lo sbarco e dopo lo sbarco ha assunto un ruolo sociale. Sentinella contro il fascismo durante la guerra, sentinella contro il comunismo dopo la guerra. Le cose non potevano andare diversamente, è venuto meno, ammesso che ci sia mai stato, l'impegno di opporsi. All'epoca prevalsero, col pragmatismo americano, l'urgenza di fermare la guerra, di sbarcare e di risalire l'Italia fino a raggiungere Berlino, la necessità di sconfiggere Hitler, di abbattere Mussolini. Loro erano il pericolo. Poi le cose sfuggirono di mano, la mafia fu chiamata in campo a difenderci contro i comunisti e a contribuire per sua parte a mantenere l'equilibrio mondiale. Almeno fino al crollo del muro di Berlino e del sistema che lo teneva in piedi. È incredibile come un muro caduto a Berlino possa farne crollare uno a Palermo, in Italia. Nel mio film racconto l'inizio di tutto questo e mi fermo alla Sicilia liberata. Ma la storia potrebbe continuare, ci sarebbero da fare altri film...

Quello che facciamo io e Michele Astori è informarci, leggere libri di mafia e su quelle pagine scopriamo tanti personaggi che decidiamo di non guardare solo come criminali, di fare uno sforzo, di andare oltre, provare a rintracciarne il lato umano e poi colpirli nelle loro debolezze, prenderli in giro, trovare i punti deboli, come la passione di Bagarella per Ivana Spagna, che voleva rapire. Superiamo la nostra indignazione alla ricerca di quella sfumatura umana, individuare la breccia in cui infilarsi per raccontare la storia di un uomo.
Pif

Il tuo prossimo progetto riprenderà da dove hai interrotto? Individuerà un altro momento chiave della storia della mafia?
No, il mio terzo film non parlerà di mafia, devo uscire da questo tunnel. Anche se poi penso che ogni film realizzato sulla Shoah, contro la mafia va bene e non bisogna mai smettere. Tuttavia voglio cambiare soggetto. Certo ci sarebbe ancora tanto da approfondire, se penso a tutto quello che successe dopo lo sbarco, che succede ancora. Sarebbe davvero interessante. Ci sono tante cose terribili, tanti, delitti, tanti misteri mai scavati che sono legati a quell'episodio storico.

Nel 2013 hai realizzato un film sulla mafia e su un tempo in cui nessuno pareva accorgersi che esisteva, neanche dentro al Palazzo di Giustizia, oggi risali il tempo fino a quel preciso momento storico in cui la Sicilia veniva consegnata alla mafia in un silenzio complice o sottomesso. Nei tuoi film cova (denunciata) l'omertà, nelle forme più svariate e ipocrite. Questo sentimento della dignità personale, spinto all'estremo anche dalla parte onesta del popolo, sembra essere un carattere antropologico poi diventato complemento della mafia.
Sì, tendenzialmente il siciliano è uno che si fa sempre i fatti suoi. Me ne accorgevo quando facevo le candid camera a Palermo per le "Iene". In quelle singolari situazioni mi rendevo conto che il palermitano non voleva rotture di scatole. Ora facendo un po' di antropologia spiccia, penso che questo carattere sia anche legato alle dominazioni che si sono susseguite e a quell'atteggiamento di quieta rassegnazione che ha chi sa di poter sopravvivere a questo o quell'altro. La vera omertà si esprime con la Mafia chiaramente. Ma le cose sono sempre più complicate di così. Negli anni Settanta se assistevi a un omicidio dovevi scegliere se tacere o testimoniare e farti uccidere dalla mafia. Io sono convinto che anche uno di Bolzano o di Bressanone si sarebbe fatto i fatti propri.

Raccontare l'universo criminale è un terreno minato. Tu hai dimostrato che è possibile rappresentare la mafia senza celebrarla, allineandoti alla lezione de I Soprano e di Gomorra. Come si smitizza il mafioso, eludendo la dimensione colorita, seducente e folclorica? Penso ad esempio alla sequenza del bagno, quella in cui Don Calo' espleta i suoi bisogni davanti ai suoi scagnozzi.
Quello è un fatto vero, sai? Lo racconta Buscetta, credo si trattasse di Genco Russo, pare che avesse l'abitudine di discutere coi suoi uomini seduto sulla tazza del water. Il mio è un lavoro istintivo. Quello che facciamo io e Michele Astori è informarci, leggere libri di mafia e su quelle pagine scopriamo tanti personaggi che decidiamo di non guardare solo come criminali, di fare uno sforzo, di andare oltre, provare a rintracciarne il lato umano e poi colpirli nelle loro debolezze, prenderli in giro, trovare i punti deboli, come la passione di Bagarella per Ivana Spagna, che voleva rapire. Superiamo la nostra indignazione alla ricerca di quella sfumatura umana, individuare la breccia in cui infilarsi per raccontare la storia di un uomo.


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