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Ibridi hollywoodiani

Wolverine e la filosofia del blockbuster.
di Roy Menarini

In foto Hugh Jackman in una scena di Wolverine - L'immortale.
Hugh Jackman (55 anni) 12 ottobre 1968, Sydney (Australia) - Bilancia. Interpreta Logan / Wolverine nel film di James Mangold Wolverine - L'immortale.

domenica 28 luglio 2013 - Approfondimenti

Si è infiammato, negli ultimi giorni, il dibattito sui blockbuster estivi. In un'estate americana di grandi incassi, a lasciarci le penne sono stati i titoli più attesi, a cominciare da The Lone Ranger e a proseguire con Pacific Rim, che tuttavia punta a uno sfruttamento più duraturo. A collegare spesso gli insuccessi è il fatto di essere prototipi, invece che sequel o prequel, a riconferma del rischio che ancora oggi un'industria come quella cinematografica dimostra di scontare ancorché sostenuta da aggressive strategie di marketing.
Wolverine è un ibrido, in tutti i sensi, e come tale va giudicato nel bene e nel male. È ibrido da un punto di vista seriale, poiché - tratto dalla miniserie fumettistica ambientata in Giappone e firmata Frank Miller - non si posiziona esattamente come un numero due, e nemmeno come uno spin off tradizionale, bensì come un reboot dal rapporto ambiguo con il resto della filiera. È un ibrido produttivo per i costi, sicuramente rilevanti, ma lievemente al di sotto di altri colossi di questi mesi. È un ibrido di personaggi, poiché l'universo Marvel non sembra in grado di assorbire gli X-Men al fianco degli altri supereroi, più popolari. E infine è un ibrido anche il racconto, che oscilla pericolosamente tra il superomismo reazionario, nietzschiano di Miller, e l'ironia spavalda del cinefumetto americano. La rappresentazione del mondo giapponese, che comincia a Nagasaki all'epoca della bomba atomica e ci porta in un futuro prossimo fatto di cyber-samurai, sembra talvolta quella affascinata dall'onore, dalle tradizioni e dal samuraismo già presenti, per citare un classico, in Yakuza di Sydney Pollack, e in altri momenti quella del cinema di propaganda bellica, dove i nipponici vengono sfottuti a suon di epiteti come "jap", o vengono uccisi pronunciando un derisorio "sayonara".
Di ibridazione, però, si può anche morire e nel film di James Mangold l'eclettismo e l'aspetto anti-spettacolare (con la dimensione melodrammatica e la sofferenza umana di Wolverine poste in primo piano) non sempre è sinonimo di approfondimento psicologico. Se questa estate di film ad alto budget verrà ricordata, lo sarà probabilmente per la fine dell'egemonia di mercato del territorio statunitense. Sempre più storie vengono ambientate (e realizzate) in Asia, sempre più produzioni badano ai mercati di paesi emergenti prima che a quelli occidentali, e forse gli occhi di noi stanchi spettatori europei rischiano di applicare strumenti di giudizio viziati dalla troppa esperienza e dalle aspettative frustrate. Certo, Wolverine offre la sensazione di voler essere un blockbuster pensante, una spanna al di sopra dell'azione chiassosa di Man of Steel, ma forse valeva la pena seguire più la vena torbida, tenebrosa degli umori di Miller (come in Watchmen), e correre il rischio di annerire le pulsioni di Wolverine. Del resto, dai blockbuster stiamo imparando almeno una cosa: saranno anche tutti uguali ma non sai mai che cosa aspettarti. Il cinema spettacolare hollywoodiano continua ad essere il regno degli ibridi.

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