tucobenedicto
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giovedì 26 aprile 2012
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vivacchia grazie a sean penn....poi?
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le premesse per un film bellissimo ci sono tutte,ma se si esclude la fotografia,il resto rimane molto inespresso.
personaggi di contorno taluni inutili,o inadatti alla storia,si salva il film quasi esclusivamente per la bravura di sean penn.
insomma mi aspettavo moltissimo,ma mi è rimasto poco....la ricerca del nazista poi.....bah.
con la storia disponibile,con l idea originale,e soprattutto con sean penn,si poteva fare moooolto meglio.
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captainbeefheart
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sabato 21 aprile 2012
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this must be the place: una recensione sincera
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L'ultimo film di Paolo Sorrentino, acclamatissimo al festival di Cannes (poi mi sembra che abbiano premiato un vecchio che passava lì per caso), è approdato nelle nostre sale ad ottobre 2011.
TRAMA: Cheyenne è una ex-rockstar apatica e depressa (sfido chiunque a non a esserlo con una moglie come Frances McDormand, a Dublino, e con la figlia di Bono Vox come unica amica). Fortuna vuole, però, che suo padre schiatta ed il musicista - nonostante si ignorassero da trent'anni - vola al suo capezzale negli USA. Dopodichè Cheyenne imbastisce una serie di cazzate per non tornare in Irlanda tipo vendicare suo padre da un nazista che eoni fa, ad Auschwitz, l'aveva umiliato.
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L'ultimo film di Paolo Sorrentino, acclamatissimo al festival di Cannes (poi mi sembra che abbiano premiato un vecchio che passava lì per caso), è approdato nelle nostre sale ad ottobre 2011.
TRAMA: Cheyenne è una ex-rockstar apatica e depressa (sfido chiunque a non a esserlo con una moglie come Frances McDormand, a Dublino, e con la figlia di Bono Vox come unica amica). Fortuna vuole, però, che suo padre schiatta ed il musicista - nonostante si ignorassero da trent'anni - vola al suo capezzale negli USA. Dopodichè Cheyenne imbastisce una serie di cazzate per non tornare in Irlanda tipo vendicare suo padre da un nazista che eoni fa, ad Auschwitz, l'aveva umiliato. Ignaro, il nostro beniamino, che già soltanto il suo look da Robert Smith falso-giudeo è più svilente di qualsiasi azione del nazi, inizia a vagare per un'America pigra e provinciale per cercare sé stesso. Lo trova iniziando a fumare e maltrattando gli anziani.
CRITICA: I personaggi curiosi che compongono This Must Be The Place sono credibili come la famiglia Cesaroni e, allegoricamente, profondi come un monologo di Ascanio Celestini. La trama, pressoché inesistente, si dilata in modo direttamente proporzionale al sacchetto scrotale dello spettatore senza però mai esplodere emozionalmente come invece succede con la borsa dei coglioni di chi guarda. La storia di un uomo ormai non più famoso che ha subito un arrested development all'età di quindici anni e diventa adulto solo quando viola il domicilio di una vecchietta, distrugge un auto che gli era stata solennemente affidata, manda a spasso un vecchietto nudo in mezzo alla neve, ed inizia a fumare giustifica l'esistenza di programmi quali L'Isola Dei Famosi.
CURIOSITA': Secondo alcune indiscrezioni la prima stesura del film vedeva lo stesso Paolo Sorrentino che si eiaculava addosso per due ore filate con, nel mezzo, i flashback della masturbazione che portatava a quell'orgasmo; idea poi però modificata per giustificare la presenza di Sean Penn. Un'idea comunque intellettualmente più onesta della versione finale.
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rescart
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domenica 15 aprile 2012
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sensi di colpa
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Per la rock star Cheyenne la vita si è fermata, come congelata, in quel giorno di maggio dell’88 quando i due fratelli Keogh, di Dublino, decisero insieme di suicidarsi dopo il suo ultimo concerto, svoltosi presumibilmente nello stadio che, simile ad una futurista astronave, fa da sfondo alle casette mono familiari in una delle quali vive la madre di Tony, della cui scomparsa, risalente a tre mesi prima, ella non riesce a darsi una ragione. Per questo da allora lei vive perennemente alla finestra della sua casetta di legno, con in grembo il telefono da cui attende una chiamata del figlio.
Cheyenne dopo quel concerto non è più tornato a New York, ma si è trasferito con la moglie là dove per lui il tempo si è fermato, in un castello vecchio stile con una piscina vuota che serve loro da campetto per giocare a pelota.
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Per la rock star Cheyenne la vita si è fermata, come congelata, in quel giorno di maggio dell’88 quando i due fratelli Keogh, di Dublino, decisero insieme di suicidarsi dopo il suo ultimo concerto, svoltosi presumibilmente nello stadio che, simile ad una futurista astronave, fa da sfondo alle casette mono familiari in una delle quali vive la madre di Tony, della cui scomparsa, risalente a tre mesi prima, ella non riesce a darsi una ragione. Per questo da allora lei vive perennemente alla finestra della sua casetta di legno, con in grembo il telefono da cui attende una chiamata del figlio.
Cheyenne dopo quel concerto non è più tornato a New York, ma si è trasferito con la moglie là dove per lui il tempo si è fermato, in un castello vecchio stile con una piscina vuota che serve loro da campetto per giocare a pelota. L’impressione è che i due abbiano acquistato la prima casa che si trovava (forse da anni ) in quel momento sul mercato immobiliare e che forse non interessava a nessun altro. Come il mestiere che la moglie decide di fare una volta trasferita a Dublino: il pompiere. Strano mestiere per una fumatrice incallita, che rischia di morire bruciata perché si addormenta con la sigaretta accesa e viene salvata da un marito molto più vigile di lei. A confermare che la pura casualità guidava (e guida) le scelte della moglie, quasi a voler dimostrare al marito, con cui è sposata da 35 anni, che quel suicidio era stato un fatto puramente casuale, non consequenziale, come lui crede, al suo concerto e al suo genere di musica.
Fin qui la trama, che Sorrentino, dopo averla concepita, dipinge magistralmente ricorrendo a trovate originali, come quando, dopo aver perso alla pelota con la moglie, Cheyenne ribalta sul prato una sedia che si trovava sul suo cammino proprio mentre il sonoro, che si riferisce alla scena successiva non ancora inquadrata, è la voce della la moglie che gli comunica l’arrivo di una lettera di MTV che lo invita al prossimo Music Award. O come quando lei, alle prese con una finestra che non vuole aprirsi durante un intervento in veste da pompiere, intravvede il marito che la guarda. Una casualità, come il duplice suicidio, ma questa sua lucida consapevolezza è sufficiente a spiegare la triste espressione del suo volto, in contrasto con lo sguardo divertito del marito. Come quella finestra, così è il cuore di Cheyenne, che non vuole aprirsi al futuro, rappresentato dal gruppo “I pezzi di merda”, che il cantante rock prepensionato incontrerà ben tre volte sulla sua strada: al prima a un centro commerciale dove il gruppo si esibisce con il suo pezzo forte; la seconda quando il leader del gruppo viene a casa sua per proporgli di fargli da produttore; la terza quando sentirà per la seconda volta la canzone, ma alla radio e in viaggio per gli Stati Uniti d’America.
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ruspa machete
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domenica 8 aprile 2012
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semplicemente magico...
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Davvero una perla questo film..sceneggiatura, interpretazione, fotografia, regia, musiche...è tutto come dovrebbe essere.
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rockson
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mercoledì 28 marzo 2012
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un nuovo slancio per il cinema italiano
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Mi piacerebbe conoscere dai presunti esperti che hanno espresso pareri estremamente negativi su questo film (in particolare per l'eccessiva lentezza), cosa ne pensano esattamente di Easy Rider (film di Dennis Hopper del 1969).
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drysdale3
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domenica 18 marzo 2012
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un gran film. s.p.si conferma attore di caratura.
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Una bella storia. Magari più intrigante per chi ha seguito il rock, quel rock in particolare. Sean Penn si conferma attore poliedrico. A mio avviso, non sbaglika un film. Nei titoli finali, in ogni caso, un ringraziamento sarebbe spettato al cantante dei Cure, cui il personaggio fa riferimento (neanche troppo nascosto, nella sceneggiatura).
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owlofminerva
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venerdì 9 marzo 2012
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lento deprimente e riflessivo
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Lento, instabile e deprimente fino al percorso on the road. Cheyenne è un ossimoro: è una rock star, lo è stata, si concia come tale ma dice di non esserlo, ne respinge l’immagine anche se non riesce a liberarsi dalla maschera che indossa come una seconda pelle, una condanna al ricordo delle sue colpe. Ancora si ostina ad avere capelli neri cotonati, labbra rosse, matita nera intorno agli occhi, unghie laccate, abiti attillati in stile gotico. Ha un’andatura dondolante, uno sguardo ingenuo e assente e una vocina flebile ed effeminata, garbata, gentile e generosa, un personaggio problematico, a tratti umoristico ma non grottesco.
Per camminare si deve sempre aggrappare a qualcosa: al carrello della spesa o al trolley con le ruote.
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Lento, instabile e deprimente fino al percorso on the road. Cheyenne è un ossimoro: è una rock star, lo è stata, si concia come tale ma dice di non esserlo, ne respinge l’immagine anche se non riesce a liberarsi dalla maschera che indossa come una seconda pelle, una condanna al ricordo delle sue colpe. Ancora si ostina ad avere capelli neri cotonati, labbra rosse, matita nera intorno agli occhi, unghie laccate, abiti attillati in stile gotico. Ha un’andatura dondolante, uno sguardo ingenuo e assente e una vocina flebile ed effeminata, garbata, gentile e generosa, un personaggio problematico, a tratti umoristico ma non grottesco.
Per camminare si deve sempre aggrappare a qualcosa: al carrello della spesa o al trolley con le ruote. Da solo non si regge. Continua a bere ma solo analcolici colorati. Ha deciso di eclissarsi dal mondo Cheyenne e vive comodamente senza far nulla insieme ad una moglie che gli fa da madre e da argine alla sua depressione. Serve una botta e arriva dal padre. Da bambino, aveva deciso che il padre non gli voleva bene. E di quell’intuizione ne è ancora convinto con la presunzione di un bambino. La fine del padre rappresenta per il figlio l’inizio di un lungo percorso. Il sedentario Cheyenne trova la motivazione per viaggiare: trovare il nazista che aveva umiliato il padre. Lo trova. È solo, macilento, scheletrico, vecchio e indifeso. L’ex-nazista ormai vecchissimo compare nudo in mezzo alla neve: in quell’inquadratura estremamente realistica e insieme simbolica c’è tutta la ferocia del tempo che passa sui nostri corpi e l’umiliazione dell’umanità. Somiglia tanto alle povere vittime, vecchie e denudate, accasciate nella morte sulla neve nei campi di sterminio.Quel vecchio senza abiti, sulla neve, in una luce bianca, muove a pietà più che a vendetta. Ha ritrovato il padre e scoperto il suo ruolo. E’ il momento in cui si capisce che il protagonista si è finalmente liberato della maschera. Adesso può tornare a casa.
Cheyenne non ha più capelli lunghi e il rossetto sulle labbra. È un uomo come gli altri. È diventato se stesso. Dal cuore l’odio è fuoriuscito e finalmente sorride. This Must Be the Place, questo dovrebbe essere il posto. Un pellicola che lascia con l’amaro in bocca di mille interrogativi. Introspettivo e riflessivo.
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osteriacinematografo
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sabato 3 marzo 2012
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la rinascita onirica di cheyenne
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John Smith, più noto semplicemente come Cheyenne, è una rock star in pensione, che raggiunse l’apice del successo negli anni ottanta come front man del gruppo “Cheyenne & The Fellows”. Vive di rendita con la moglie in una ricca magione irlandese, curando le sue azioni in borsa e la vita sentimentale di una fanciulla. Il suo aspetto è rimasto quello degli anni 80, indossa abiti e occhiali neri ha il volto truccato e una folta chioma scomposta; attraversa un tempo lento e compassato come i suoi stessi micromovimenti, che si producono al fianco di un carrello della spesa lo accompagna come un’ombra meccanica.
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John Smith, più noto semplicemente come Cheyenne, è una rock star in pensione, che raggiunse l’apice del successo negli anni ottanta come front man del gruppo “Cheyenne & The Fellows”. Vive di rendita con la moglie in una ricca magione irlandese, curando le sue azioni in borsa e la vita sentimentale di una fanciulla. Il suo aspetto è rimasto quello degli anni 80, indossa abiti e occhiali neri ha il volto truccato e una folta chioma scomposta; attraversa un tempo lento e compassato come i suoi stessi micromovimenti, che si producono al fianco di un carrello della spesa lo accompagna come un’ombra meccanica.
Cheyenne riceve improvvisamente la notizia che il padre è malato di una malattia chiamata vecchiaia, e parte per gli Stati Uniti. Sceglie il percorso via mare, a causa della fobia degli aerei, e nel tempo prolungato del tragitto marittimo il padre muore.
A New York l’uomo scopre che il padre effettuava delle ricerche su un tale di nome Aloise Lange, un ufficiale nazista che lo aveva umiliato durante la prigionia ad Auschwitz. Contatta Mordecai Midler, un facoltoso e determinato cacciatore di nazisti; prende in prestito il pick-up di un uomo d’affari, e inizia un lungo viaggio di ricerca che lo condurrà prima in Michigan, e poi giù fino al New Mexico, allo Utah, e oltre lo spazio fisico dei confini americani. Cheyenne risale a Lange col concorso inconsapevole della moglie e della nipote di lui e del deus ex machina Midler, dopo aver incontrato gli strambi personaggi di cui è popolata la provincia americana, l’America vera (Harry Dean Stanton in particolare interpreta l’inventore delle valigie a rotelle).
Lo scenario cambia notevolmente, ma l’approccio di Cheyenne alla realtà rimane il medesimo: la confusione metropolitana prima e le sterminate e mutevoli distese statunitensi sostituiscono la tranquillità rurale irlandese, così come un trolley –che è più protesi che bagaglio- prende il posto dell’inseparabile carrello della spesa; John si accosta alle persone con la solita affabile e pacata tranquillità, con un disincanto che lo cala nell’insieme con leggerezza ed estemporaneità, quasi fosse un corpo estraneo a tutto il resto, agli avvenimenti, al fuoco che divampa nel motore del pick-up davanti al suo corpo immobile.
“Qualcosa mi ha turbato, non saprei dire cosa, ma qualcosa mi ha turbato”- ripete di tanto in tanto il protagonista del film, che nel viaggio alla ricerca di un nazista vince le proprie paure e ritrova se stesso, uscendo dal limbo in cui troppo a lungo è vissuto, liberandosi di una maschera che rappresenta il passato e forse l’infanzia stessa, sganciandosi definitivamente dal carrello e dal trolley che rappresentano al contempo un’intima coperta di Linus e il pesante fardello di situazioni irrisolte e sospese: Cheyenne in un certo senso trova l’interruttore con cui poter rimettere in play una vita che pare un fermo immagine, liberandosi della noia e delle simboliche zavorre dietro cui si cela e rinasce John Smith.
Sean Penn si presta all’ennesima trasformazione, mettendo in scena un personaggio memorabile: il suo modo lento e goffo di porsi, di parlare, di ridere persino, i suoi passi legnosi e appena accennati vengono riequilibrati dal contrappeso di due occhi attenti e penetranti che rivelano sensibilità ed ironia, e un’intelligenza sagace e profonda.
Sorrentino scrive e dirige un’opera toccante e splendida dal punto di vista visivo: il suo esercizio di stile non è fine a se stesso, e ogni immagine è un quadro in movimento, ogni suo quieto indugiare accompagna con delicatezza le movenze misurate del protagonista; ogni singolo personaggio più o meno accentuato fa parte di un insieme armonioso e del percorso di un uomo che sembra cercare il proprio inventore per risolvere una tara del sistema di cui egli stesso è padrone. Ogni tappa del viaggio di Cheyenne, ogni singolo sguardo del film rappresentano i capitoli simbolici di una rinascita al rallenty, di una danza lenta e liberatoria, di un percorso romantico e immaginario che ricorda le eleganti e flessuose attitudini espressive di “My blueberry nights” di Wong Kar-wai.
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rosario velardi
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giovedì 1 marzo 2012
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road movie un pò statico
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Ex rockstar che pensa di comportarsi ancora come tale, molte le somiglianze con vere rockstar, primo fra tutti Ozzy Osbourne, nel look richiama sicuramente Robert Smith, ma se il primo è oramai un patetico fenomeno da carrozzone, il secondo è ancora in piena attività.Sean Penn da prova di grande maestria con questo genere di trame, nessuno meglio di lui avrebbe potuto farlo, e con il suo Into the wild aveva dato ampia dimostrazione di cosa vuol dire vivere la vita in maniera poco conforme alle regole canoniche di una società opprimente e spersonalizzante.L'incedere del film è molto lento e ogni tanto affiora un pò di noia nello spettatore, Sorrentino si è voluto avventurare in questa prova,ma nonostante la presenza di Penn il risultato non è a mio parere soddisfacente, forse perchè pensavo a qualcosa di più "rock".
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Ex rockstar che pensa di comportarsi ancora come tale, molte le somiglianze con vere rockstar, primo fra tutti Ozzy Osbourne, nel look richiama sicuramente Robert Smith, ma se il primo è oramai un patetico fenomeno da carrozzone, il secondo è ancora in piena attività.Sean Penn da prova di grande maestria con questo genere di trame, nessuno meglio di lui avrebbe potuto farlo, e con il suo Into the wild aveva dato ampia dimostrazione di cosa vuol dire vivere la vita in maniera poco conforme alle regole canoniche di una società opprimente e spersonalizzante.L'incedere del film è molto lento e ogni tanto affiora un pò di noia nello spettatore, Sorrentino si è voluto avventurare in questa prova,ma nonostante la presenza di Penn il risultato non è a mio parere soddisfacente, forse perchè pensavo a qualcosa di più "rock".
Comunque credo che il film abbia saputo esprimere molto bene il significato della trama, ovvero prima o poi siamo chiamati alle nostre responsabilità, quella di figlio nel suo caso, e allora bisogna crescere in fretta e farsi carico delle responsabilità che ti competono.
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fabrizioarno
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giovedì 1 marzo 2012
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capolavoro assoluto
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Cuore, impegno, perseveranza, amore, coinvolgimento, tenerezza, riflessione... tutto questo è This must be the place di Sorrentino, tutto questo e molto di più. E' la dichiarazione d'amore di un regista italiano per il cinema. Una dichiarazione che dura 118 minuti tondi. Un viaggio introspettivo dell'autore all'interno dell'animo umano, all'interno delle paure millenarie, della fame di rivalsa. Certo, Paolo Sorrentino ha avuto a sua disposizione uno degli attori più intensi ed espressivi in circolazione, Sean Penn, che con la sua interpretazione ha regalato alla storia del cinema un personaggio unico ed irripetibile, emblema della diversità, icona dell'umanità snocciolata senza remore e finzioni, nuda e cruda, reale, vera, con le sue pecche e le sue anomalie, con i suoi slanci e le sue vendette trasversali, con i suoi vuoti esistenziali e quei sentimenti in grado di far muovere il mondo.
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Cuore, impegno, perseveranza, amore, coinvolgimento, tenerezza, riflessione... tutto questo è This must be the place di Sorrentino, tutto questo e molto di più. E' la dichiarazione d'amore di un regista italiano per il cinema. Una dichiarazione che dura 118 minuti tondi. Un viaggio introspettivo dell'autore all'interno dell'animo umano, all'interno delle paure millenarie, della fame di rivalsa. Certo, Paolo Sorrentino ha avuto a sua disposizione uno degli attori più intensi ed espressivi in circolazione, Sean Penn, che con la sua interpretazione ha regalato alla storia del cinema un personaggio unico ed irripetibile, emblema della diversità, icona dell'umanità snocciolata senza remore e finzioni, nuda e cruda, reale, vera, con le sue pecche e le sue anomalie, con i suoi slanci e le sue vendette trasversali, con i suoi vuoti esistenziali e quei sentimenti in grado di far muovere il mondo. Sorrentino ha fatto centro, decisamente, con professionalità, dedizione, parsimonia. Con l'uso di coloro algidi e cupi che poi dileguano in un arcobaleno estatico, quando il protagonista compie il balzo che lo separa della sua condizione di eterno bambino ripiegato su se stesso a quella di uomo maturo e conscio dei propri mezzi. Candidato all'Oscar 2013? Ovvio. Se non vincesse sarebbe un'onta!
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