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Gipi, un alieno a Venezia

Il fumettista prestato al cinema in concorso alla Mostra con il suo L'ultimo terrestre.
di Giovanni Bogani

Gabriele Spinelli, Gianni Pacinotti e Anna Bellato al photocall di L'ultimo terrestre, uno dei tre film in Concorso alla 68. Mostra del cinema di Venezia.
Gian Alfonso Pacinotti Altri nomi: (Gipi) 1963, Pisa (Italia). Regista del film L'ultimo terrestre.

venerdì 9 settembre 2011 - Incontri

Gipi, pochi minuti fa stavi dicendo al collega del “Pais” che ci hai preso gusto, a fare film. Che vorresti già farne un altro. Ha ancora forza, vitalità e seduzione il cinema, e in particolare il cinema italiano?
"Certo che ne ha. Io non amo fare generalizzazioni, non ragiono mai in termini di categoria. Non c’è il ‘cinema italiano’, ma ci sono persone che hanno qualcosa da raccontare. Ha un senso, eccome se ha un senso raccontare. L’importante è avere qualcosa da dire, altrimenti è posa, e non serve a niente”.

Gipi è Gian Alfonso Pacinotti, regista de L’ultimo terrestre, il terzo film italiano in concorso, accolto oggi alla Mostra del cinema con entusiasmo e, verrebbe da dire, affetto. Fumettista di fama internazionale, 48 anni, autore – fra mille altre cose – della copertina del primo disco de Le luci della centrale elettrica, Gipi è in corsa per il Leone d’oro con il suo primo film.

Che cosa ti piace, del “gioco” del cinema?
“Il fatto che ci sono dentro tutte le cose che amo: la musica, le immagini, il montaggio, la tecnica, le macchine, il rapporto umano con la troupe e gli attori”.

Fandango che tipo di “macchina produttiva” è?
“Meraviglioso. Domenico Procacci si è rivelato un uomo di una parola sola. Mi ha lasciato una libertà assoluta. Un giorno l’ho chiamato, gli ho detto che non avevo dormito la notte e volevo cambiare il finale, finale peraltro approvato dalla Rai, e lui mi ha detto: segui il tuo istinto”.

Ma ti piacerebbe che fare cinema diventasse il tuo lavoro principale?
“Sì. Non lo nego. Sto già scrivendo il secondo film. Ma stiamo a vedere che cosa succede”.

L’ultimo terrestre racconta l’arrivo degli alieni sulla Terra. E l’alieno è “classico”, come nei film anni ’50. Come mai hai scelto di raffigurarli così?
“Perché non ho alcun interesse per gli alieni né per la fantascienza. Volevo che il mio alieno fosse il più banale, come negli studi degli ufologi”.

Quanto del film è ispirato all’Italia di oggi?
“Tanto. Se posso sentire la notizia di ottanta immigrati che muoiono su un barcone, e il giorno dopo essermela già dimenticata, non sono differente da quelli del film, che sentono dell’arrivo degli alieni e sono praticamente indifferenti”.

Insomma non crede agli alieni…
“Anni fa ero in aereo che andavo a Parigi. E ho visto un globo di luce accanto alla fusoliera e ho pensato ‘toh, un Ufo’. E mi sono rimesso a leggere. Dopo, pensandoci, avrei voluto sprofondare dalla vergogna. Non mi fanno nessun effetto”.

Non ti fa paura essere in concorso?
“No, perché penso di avere fatto un lavoro onesto, sincero. E allora non devi aver paura di niente”.

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