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La dimensione umana in un decennio di contrasti

Harry Potter è stato uno dei pochi racconti di formazione di questi anni.
di Roy Menarini

In foto Daniel Radcliffe, protagonista indiscusso dell'ultimo capitolo della saga di Harry Potter.
Daniel Radcliffe (Daniel Jacob Radcliffe) (35 anni) 23 luglio 1989, Londra (Gran Bretagna) - Leone. Interpreta Harry Potter nel film di David Yates Harry Potter e i doni della morte - Parte II.

lunedì 18 luglio 2011 - Approfondimenti

Era l’11 novembre 2001, quando Harry Potter e la pietra filosofale veniva presentato in anteprima mondiale al pubblico. Il volto di Daniel Radcliffe e dei giovani protagonisti risulta oggi sorprendentemente fanciullesco, così come lo sembrano i loro sorrisi innocenti. A guardare la data, però, viene da stropicciarsi gli occhi. Il film – che sarebbe giunto nelle sale italiane poche settimane più tardi – usciva appena 60 giorni dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle e l’attacco dell’11 settembre, sicuramente l’evento che più ha modificato la contemporaneità. Pensare che, in quella temperie, il cinema andasse avanti come nulla fosse, con tappeti rossi e saghe blockbuster, oggi colpisce più che mai. E invita a una riflessione.
Mentre Harry cresceva (nella finzione e sul set), imparava le arti magiche e combatteva le sue innumerevoli battaglie contro i nemici, poi riassunti nel peggiore di tutti (Voldemort), intorno a lui il nostro mondo subiva modificazioni straordinarie e drammatiche. L’11 settembre, appunto, ma poi le guerre in Afghanistan e in Iraq, gli attentati a Londra e Madrid, lo scontro tra civiltà, la crisi economica internazionale, l’elezione del primo Presidente afroamericano della storia, il terrore (rientrato) della pandemia, le rivolte arabe, fino al precarissimo mondo che calpestiamo oggi, quando è appena uscito Harry Potter e i doni della morte – Parte II. Si avverte tutto questo, nella lunga avventura del piccolo mago? Forse sì, se diamo adito alle interpretazioni più fantasiose che immaginano metafore dietro ogni personaggio; più probabilmente no, vista anche la matrice letteraria dei film, a causa della quale varrebbe forse la pena di girare la domanda a J.K. Rowling.
La prospettiva attraverso cui osservare il caso è un’altra. La saga di Harry Potter rappresenta uno dei pochi racconti di formazione di questi anni, tutti presi dall’urgenza delle grandi narrazioni e delle grandi lotte. Ciò che ha catturato lettori e spettatori sembrerebbe proprio la dimensione umana e riconoscibile del rito di passaggio, della conquista dell’indipendenza e della valorizzazione dei propri talenti. In un mondo che, almeno in taluni frangenti, ha dato l’impressione di sgretolarsi (materialmente, con la guerra e il terrorismo; immaterialmente, con la crisi del denaro), Harry Potter è sempre stato il simbolo di qualcosa di saldo e di tradizionale, l’eterna lotta della crescita e l’eterna speranza che ovunque – nel tempo e negli universi – si possa sempre imparare da capo e prevalere. Se affermiamo che i film della serie – visto che di questi ci occupiamo – hanno avuto una funzione conservatrice e rassicurante nei confronti degli spettatori, non diciamo nulla di offensivo. Anzi, il cinema – che da sempre vive una doppia natura di distruzione delle regole e di contenimento delle paure che ci attanagliano – ha trovato in Harry Potter un appiglio, una difesa, un luogo di elaborazione collettiva, oltre che una gallina dalle uova d’oro cui gli esercenti saranno per sempre grati.

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