Harry Potter è stato uno dei pochi racconti di formazione di questi anni.
di Roy Menarini
Era l’11 novembre 2001, quando Harry Potter e la pietra filosofale veniva presentato in anteprima mondiale al pubblico. Il volto di Daniel Radcliffe e dei giovani protagonisti risulta oggi sorprendentemente fanciullesco, così come lo sembrano i loro sorrisi innocenti. A guardare la data, però, viene da stropicciarsi gli occhi. Il film – che sarebbe giunto nelle sale italiane poche settimane più tardi – usciva appena 60 giorni dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle e l’attacco dell’11 settembre, sicuramente l’evento che più ha modificato la contemporaneità. Pensare che, in quella temperie, il cinema andasse avanti come nulla fosse, con tappeti rossi e saghe blockbuster, oggi colpisce più che mai. E invita a una riflessione.
Mentre Harry cresceva (nella finzione e sul set), imparava le arti magiche e combatteva le sue innumerevoli battaglie contro i nemici, poi riassunti nel peggiore di tutti (Voldemort), intorno a lui il nostro mondo subiva modificazioni straordinarie e drammatiche. L’11 settembre, appunto, ma poi le guerre in Afghanistan e in Iraq, gli attentati a Londra e Madrid, lo scontro tra civiltà, la crisi economica internazionale, l’elezione del primo Presidente afroamericano della storia, il terrore (rientrato) della pandemia, le rivolte arabe, fino al precarissimo mondo che calpestiamo oggi, quando è appena uscito Harry Potter e i doni della morte – Parte II.
Si avverte tutto questo, nella lunga avventura del piccolo mago? Forse sì, se diamo adito alle interpretazioni più fantasiose che immaginano metafore dietro ogni personaggio; più probabilmente no, vista anche la matrice letteraria dei film, a causa della quale varrebbe forse la pena di girare la domanda a J.K. Rowling.
La prospettiva attraverso cui osservare il caso è un’altra. La saga di Harry Potter rappresenta uno dei pochi racconti di formazione di questi anni, tutti presi dall’urgenza delle grandi narrazioni e delle grandi lotte. Ciò che ha catturato lettori e spettatori sembrerebbe proprio la dimensione umana e riconoscibile del rito di passaggio, della conquista dell’indipendenza e della valorizzazione dei propri talenti. In un mondo che, almeno in taluni frangenti, ha dato l’impressione di sgretolarsi (materialmente, con la guerra e il terrorismo; immaterialmente, con la crisi del denaro), Harry Potter è sempre stato il simbolo di qualcosa di saldo e di tradizionale, l’eterna lotta della crescita e l’eterna speranza che ovunque – nel tempo e negli universi – si possa sempre imparare da capo e prevalere. Se affermiamo che i film della serie – visto che di questi ci occupiamo – hanno avuto una funzione conservatrice e rassicurante nei confronti degli spettatori, non diciamo nulla di offensivo. Anzi, il cinema – che da sempre vive una doppia natura di distruzione delle regole e di contenimento delle paure che ci attanagliano – ha trovato in Harry Potter un appiglio, una difesa, un luogo di elaborazione collettiva, oltre che una gallina dalle uova d’oro cui gli esercenti saranno per sempre grati.