Titolo originale | Akunin |
Anno | 2010 |
Genere | Drammatico |
Produzione | Giappone |
Durata | 139 minuti |
Regia di | Sang-il Lee |
Attori | Eri Fukatsu, Satoshi Tsumabuki, Akira Emoto, Kirin Kiki, Hikari Mitsushima Masaki Okada. |
MYmonetro | 3,03 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
|
Ultimo aggiornamento martedì 19 aprile 2011
Yuichi si innamora della giovane assicuratrice Yoshino, ma lei pretende di essere pagata per fare sesso con lui. Nel momento in cui gli preferisce il viziato Masuo, Yuichi è preda di una collera senza controllo. Il film ha ottenuto 1 candidatura a Japanese Academy,
CONSIGLIATO SÌ
|
Con un titolo simile i contorni non possono che apparire netti e i ruoli già delineati. Peccato che la verità sia tutt'altra, quella di un film i cui i confini sono più che mai ambigui e sfumati, tanto nelle intenzioni alla base delle azioni dei personaggi che nell'impressione che questi possono suscitare nel pubblico. Yuichi è il villain naturale per tutta la società, a prescindere dal fatto che la sua indole sia di tutt'altra natura: perché è povero, solo, impacciato con le ragazze. Non può che essere un paria, specie dal punto di vista di una giovane assicuratrice che umilia il suo maldestro tentativo d'amore per inseguire vanamente le attenzioni di un bamboccio viziato. Un contrasto profondo come un crepaccio tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere (e che si presume conduca all'agognata felicità): contraddizioni e controversie che generano tragedie, una più insensata dell'altra.
Una disamina drammatica della miseria emozionale di una società asservita all'apparenza e al culto dello status symbol, in cui vantarsi delle proprie "imprese" con gli amici è più importante che calpestare vite umane, un contesto così invasivo e opprimente da soffocare lo spirito ingenuamente romantico di Mitsuyo, una donna semplice a cui basta poco, anche quel poco che Yuichi può offrire, per credere nell'amore.
La felicità parrebbe una questione semplice e a portata di mano, ma il condizionale è d'obbligo. Se la spietata analisi della suddivisione in caste di una società solo apparentemente libertaria indubbiamente funziona, è assai più discutibile la sottolineatura scelta da Lee Sang-il (nome coreano, ma nato e cresciuto in Giappone) per drammatizzare le scene clou, specie quando il regista ricorre a una colonna sonora debordante o quando indugia (quasi con compiacimento) sull'elaborazione del dolore. Una narrazione così ricca di contenuti non necessitava di un ulteriore sovraccarico, ma è anche l'unico difetto che si può imputare a un drammatico e disturbante spaccato di quotidianità trascurate.