Boris Godunov

Film 1966 | Drammatico

Regia di Giuliana Berlinguer. Un film con Tino Carraro, Luigi Vannucchi, Turi Ferro. Genere Drammatico - Italia, 1966,

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Mario Gromo
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Finora possono essere accettate, fra molte, due sole edizioni cinematografiche di melodrammi: La medium, di Menotti (1950) e questo Boris Godunov, con il complesso dei cantanti del teatro Bolskoi di Mosca e per la regia di Vera Stroeva. Sono finora, del genere, i due saggi più importanti. Ma se il film di Menotti poteva essere considerato un caso piuttosto personale (regista egli stesso, e autore di uno spartito fin troppo riguardoso di parecchie risorse sceniche), la edizione cinematografica del Boris, uno dei più alti drammi musicali dell'ottocento, ripropone il problema di queste edizioni con tutte le loro esigenze.
L'opera lirica è sinonimo di sale tradizionali più o meno fastose, cornici accette per audizioni del caso. Durante un atto lo sguardo si perde nella raccolta penombra, svaria dai palchi al boccascena; e se anche, per il quadro scenico, sono stati profusi mezzi ingenti, quel quadro se ne sta entro la sua cornice, può essere un «supporto» o, meglio, uno sfondo visivo dell'orchestra e del canto, che comunque predominano e devono predominare. L'occhio di chi ascolta può anche guardare quel quadro senza quasi vederlo; più l'orecchio è intento, meno l'occhio s'impegna; e non è, comunque, «costretto» a impegnarsi. Passano gusti e mode, il quadro scenico si agghinda o si spoglia, dal neo-classico passa al liberty e giunge all'astratto, passano tendenze, polemiche, stili; ma lo spartito resta.
Invece, nel buio di una sala cinematografica, subito lo schermo aggredisce lo spettatore, se ne impadronisce; e l'immagine la fa un po' da padrona sul suono. Se quell'immagine fosse statica, e abbracciasse tutto un palcoscenico da una distanza e, da un angolo costanti, dopo un po' verrebbe forse a noia, non si farebbe comunque guardare con prepotenza, lo spettatore si troverebbe, su per giù, come in un teatro lirico, il boccascena fotografato in una penombra più fonda; e sarebbe indotto sopratutto e anzitutto ad ascoltare, lo spartito tornerebbe predominante.
Ma il cosidetto linguaggio cinematografico non può mortificarsi a tal punto; non può rinunciare alle sue risorse; e sventaglia i suoi «campi», i suoi «piani», le sue angolazioni. L'occhio è continuamente attratto, eccitato, aizzato; e trascorre da un quadro ampio, profondo e fastoso a un primissimo piano del protagonista; del quale non si possono non avvertire un disgraziato porro che abbia sul naso e il vistoso sforzo dell',ugola possente. Si sostituiscono porro e sforzo con elementi più nobili, come la drammatica espressione della maschera, del volto; sarà questa una lodevole, anche straordinaria virtù d'attore; ma quel volto s'impadronirà, in quegli istanti, di quasi tutta la nostra attenzione; e costringerà lo spartito alle funzioni di uno sfondo sonoro, e più o meno avvertito. Non per nulla nei film, il commento musicale più efficace è quello che «quasi non si sente», che cioè collabora a un'atmosfera, ma con intelligente discrezione; e non per nulla gli elementi di uno spettacolo cinematografico hanno per lo più una loro immutabile gerarchia nei confronti delle possibilità percettive dello spettatore: prima l'immagine, poi la parola, e infine la musica.
Film come questo Boris della Stroeva hanno e possono avere una loro grande importanza divulgativa. Se il quadro scenico è, come in questo caso, intelligente accurato variato, potrà questo quadro essere l'introduttore per chi sia digiuno di ogni e qualsiasi musica. Potrà essere un allettamento e una guida, una specie di visivo libretto tematico. Ma chi conosca lo spartito di Mussorgsky, e voglia riascoltarlo, dovrà a un certo punto distogliere lo sguardo dallo schermo o riuscire a velarselo; ascoltare, insomma, con le orecchie ben tese, e guardare a occhi socchiusi.
(guanto si è detto non toglie alcun merito a film del genere, quando, come questo Boris, siano molto rispettosi dello spartito; poiché una «esecuzione» come questa è davvero rara, anche in un rinomatissimo teatro lirico. È il problema in sé che, per l'esigente, appare di difficile soluzione; e indurrebbe addirittura a proteste se un regista inabile si sfogasse a propinare primi e primissimi piani di paffuti impacciati tenori e di matronali stanchi soprani. A non avere la sagacia, il gusto e la discrezione della Stroeva, quanto di un melodramma lo schermo ospita può facilmente diventare una goffa e involontaria parodia di quel melodramma; con intelligente prudenza il cinema può invece divulgarlo, offrendolo a immense folle ancora ignare. E se allora, di fronte a questo non trascurabile compito pensiamo alla vastità del nostro repertorio melodrammatico; e ripensiamo ai pochi maldestri tentativi di nostre i riduzioni» cinematografiche del genere, quando altrimenti avrebbero potuto e potrebbero avere in ogni Paese le migliori, popolari fortune; non ci resta che annotare quanto e come ci sarebbe da apprendere, da questa filmata «esecuzione» del teatro Bolskoi, nei suoi limiti davvero e per ora esemplare.
(1955)
Da Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957

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Mario Gromo
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