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Rassegna stampa di Joseph Losey

Joseph Losey (Joseph Walton Losey) è un regista, produttore, è nato il 14 gennaio 1909 a La Crosse, Wisconsin (USA) ed è morto il 22 giugno 1984 all'età di 75 anni a Londra (Gran Bretagna).

EMANUELA MARTINI
Film TV

Ci sono stati nella storia del cinema tre o quattro nativi americani che hanno invertito il flusso migratorio tradizionale E, trasferitisi a Londra per ragioni diverse, si sono istintivamente “acclimatati” e dalla loro nicchia si sono trasformati in acuminati osservatori della psicologia, delle idiosincrasie, dei costumi britannici. Talvolta, all’apparenza, più inglesi degli inglesi: giovani, come il giornalista Alexander Mackendrick (Goffredo Fofi ci parla dell’autore della Signora Omicidi), il regista televisivo Richard Lester, il disegnatore Terry Gilliam, o già affermati registi cinematografici, come Stanley Kubrick e, poco prima di lui, Joseph Losey, morto vent’anni fa, il 22 giugno 1984, residente in Inghilterra dal 1953 al 1976, quando si stabilì in Francia. Considerato negli anni 60 e 70 uno dei grandi del cinema internazionale, ingiustamente dimenticato negli ultimi vent’anni, l’autore sottile del gioco al massacro delle classi e dei vincolo opprimente del passato, dell’insinuante ambiguità sessuale e della sprezzante noncuranza morale, era nato nel 1909 nel Wisconsin, figlio di un avvocato di origine olandese, a vent‘anni era diventato attore dilettante e giornalIsta, poi direttore di scena al Radio City Music Hall di New York, allievo delle lezioni di cinema di Ejzenstejn a Mosca (nel 1935 durante un viaggio in Europa), supervisore e regista di innumerevoli cortometraggi pubblicitari, e aveva allestito nei teatri newyorkesi degli spettacoli influenzati dalle idee di Brecht. Il suo maggior successo arrivò nel 1947 quando, di n-torno dalla guerra, mise in scena a New York un celeberrimo Galileo in-terpretato da Charles Laughton, per il quale lavorò direttamente con Brecht. Il cinema drizzò le orecchie, i soggetti sociali, duri e stringati, erano all’ordine dei giorno nei dopoguerra, e Losey di-resse cinque film per Hollywood, costi medio bassi, tre settimane di lavora-zione ciascuno, forte tendenza al noir. Fu durante la lavorazione dei sesto (Imbarco a mezzanotte‘), in Italia, che gli arrivò la convocazione per testimoniare davanti al Comitato per le attività antiamericane del senatore MacCarthy. Era il 1951, il culmine della “caccia alle streghe”: qualcuno aveva fatto il suo nome come comunista. Losey preferì terminare le riprese del film, ma quando tornò in America era già stato inserito nella lista nera e Hollywood gli aveva sbarrato le porte. Prima di essere processato, emigrò in Inghilterra, dove lavorò per un po’ sotto pseudonimo (Andrea Forzano, Joseph Walton) e non disdegnò i generi, il mélo fiammeggiante (La zingara rossa) e il noir barocco (Eva, sottovalutato), la fantascienza sociologica (Hallucination, prodotto dalla Hammer) e soprattutto il poliziesco, dove delineò due storie labirintiche (Giungla di cemento e L’inchiesta dell’ispettore Morgan) che anticipano i suoi tratti dominanti, la claustrofobia scenografica e il minuzioso scavo sociale. Finalmente, nel 1963, il capolavoro, il film che colloca Losey tra i maggiori autori moderni. Quasi completamente chiuso in un appartamento della Londra che conta, ossessionato dallo sguardo penetrante e dal sorriso sfuggente di Dirk Bogarde, allucinatorio e suadente, Il servo racconta un mondo terminale e disfatto, dove la lotta di classe ha i bassi crudeli della sopraffazione sessuale, dove si può solo languire e marcire e specchiarsi negli occhi dei proprio nemico. L’incontro è folgorante: il barocco razionale di Losey e l’acume tagliente dello sceneggiatore Harold Pinter vivisezionano l’anima della borghesia, l’ipocrisia che incarna i rapporti d’amore e di amicizia (L’incidente), la forza d’inerzia di un mondo immutabile (Messaggero d’amore). Lbsey è il narratore nitido e contorto della crisi morale e ideale degli anni 60 e 70: tutto, l’esercito, la famiglia, la coppia, la politica, è una prigione tessuta in un’inestricabile tela di ragno; gli interni stritolano i personaggi, il buio li inghiotte, la macchina da presa li fruga senza pietà; persino nel suo unico film open air (il notevole Caccia sadica, scritto dall’autore e dal protagonista Robert Shaw) non si può sfuggire al percorso chiuso di una landa senza nome. Il fatto che Losey sia più volte incappato in incidenti di percorso (La scogliera dei desideri da Williams, insopportabilmente pomposo e fagocitato dalla strabordante coppia Taylor/Burton) non significa che non sia stato uno dei più inquietanti “ritrattisti” dei 900, pessimista, cinico, morboso, duplice, ossessionato dall’impotenza distruttrice del genere urnano e dai buchi neri dei passato che, come dice la citazione lancinante da Hartley che apre Messaggero d’amore, «è un paese straniero».

ADELIO FERRERO
Cinema Nuovo

«Non saprei dire se i miei film abbiano la misura della tragedia. Ce n'è uno che vorrei fare da molti anni: una tragedia greca moderna raccontata, grosso modo, in forma di tragedia greca classica. Se un giorno riuscirò a farlo, e come e dove voglio, avrà finalmente la dimensione tragica. Sono delle tragedie i miei film? Ne dubito. Le storie che raccontano sono tragiche, questo sì: sono storie di uno scacco e di una distruzione umana. Alcune risultano sconvolgenti, ma non penso siano delle tragedie vere e proprie. Credo che i miei film siano drammi che contengono certi elementi tragici».
(Joseph Losey, 1963)
«Tutta l'opera più matura di Losey è influenzata da Brecht, e si muove intorno a un centro d'interesse essenziale», affermava Goffredo Fofi in una stimolante Introduzione a Losey apparsa sul n. 21, 1965, dei «Quaderni piacentini», e ripubblicata ora in «Capire con il cinema», Feltrinelli, Milano, 1977, p. 41: «adattare e ricreare per il cinema - nei limiti e nelle caratteristiche di quest'arte così vicina e così diversa dal teatro - il principio di straniamento […]. Losey dovrà prima superare un lungo periodo di entusiasmi ancora "rooseveltiani", dovrà fare anche i conti con i produttori e con le vicende politiche del suo tempo, dovrà dirigere film in cui non crede e che gli interessano poco».
Non entrando (per ora) nel merito della osservazione di Fofi sullo straniamento, ne condividiamo, piuttosto, il richiamo a non trascurare il peso degli "entusiasmi rooseveltiani" nella formazione ma anche nel lavoro successivo del regista, se pure in modi sempre più distaccati e delusi. Assai prima di conoscere Brecht e di mettere in scena, con lui e Charles Laughton, l'ormai leggendaria edizione americana di Vita di Galileo (Hollywood/Pasadena 1974), il giovane Losey aveva mostrato un acuto interesse per il teatro di denuncia e di agitazione. Sullo sfondo della grande crisi («sono stato educato in uno splendido isolamento dalla politica, e durante gli anni dell'università continuai a ignorare le realtà sociali e gli sconvolgimenti che esse generano, fino a quando fui gettato in uno dei più grandi, la depressione che segui il crack del 1929»), il teatro dovette sembrargli una delle forme più aggressive di "intervento". Lo confermano il viaggio in Europa (1935), gli incontri con Piscator (di cui tradusse Il teatro politico) e con Meyerchold, e soprattutto, nell'ambito del Federal Theatre di Hallie Flanagan, l'esperienza del Living Newspaper. Il «giornale vivente», ricorda Losey stesso, «era un teatro politico che ricorreva ai mezzi del mimo, della danza, del teatro, del cabaret e del cinema. Un tentativo di rompere con le abitudini del teatro tradizionale, di creare nuovi rapporti tra pubblico e spettacolo. La compagnia comprendeva oltre trecento persone, artisti, attori, ballerini e musicisti; più altre cinquanta o sessanta che si occupavano della parte letteraria, cioè della documentazione e della preparazione dei testi. Facevamo quattro rappresentazioni al giorno, a prezzi estremamente bassi. Ma non è durato: dopo tre anni, nel 1939, furono soppresse le sovvenzioni federali in seguito a un'inchiesta della commissione per le attività antiamericane».Una nozione e una pratica del teatro come "collettivo", al livello della scrittura scenica della comunicazione, alla quale non erano certo estranei gli incontri europei di Losey e che avrebbe dovuto segnare anche il progetto, elaborato con Elia Kazan e Nicholas Ray, del Social Circus, fondato sulla commistione deliberata e provocatoria di tecniche e "generi" diversi e contrastanti.
Il senso, se non il taglio, di alcune di queste esperienze si ritroverà nei primi film americani del regista (Il ragazzo dai capelli verdi, 1948; Linciaggio, 1949), sottesi ancora da una vigorosa indignazione nella denunzia delle conseguenze della guerra e del razzismo. Rivisto oggi, Linciaggio scopre impietosamente tutte le rughe di una confezione datata e artificiosa: il Losey di "poi" affiora soltanto nella cattiveria con cui è guardata questa "middle class" provinciale che scarica le proprie frustrazioni nel "big carnival" della montatura razziale e della violenza. Il regista, comunque, sembra ancora fiducioso nella possibilità di una mobilitazione collettiva contro le forze irrazionali che premono nell'anima "oscura" della nazione. Ma nel volger di pochi anni, dentro l'incubo della guerra fredda e dell'insorgente maccartismo di cui anche Losey subirà i colpi, l'interesse del regista si sposta nettamente dalla denuncia appassionata degli effetti di un sistema sociale sopraffattore all'analisi acre, spesso tortuosa e intricata, delle ripercussioni di quell'ordine-disordine istituzionalizzato sui comportamenti e sulle "deviazioni" individuali. Film irrisolti e tormentati come gli ultimi del periodo americano (Sciacalli nell'ombra, 1950; il significativo "remake" del langhiano M, sempre nel '50) o i primi del periodo inglese (L'amante misteriosa, 1955; L'alibi dell'ultima ora, 1956) non si possono spiegare soltanto richiamandosi alle difficoltà oggettive (l'urto con i produttori, l'ostracismo politico, il problematico inserimento nell'establishment inglese), difficoltà certo esistenti e pressanti, ma implicano un radicale ripensamento dell'"ottimismo" rooseveltiano e una diversa, più acre, consapevolezza di quanto siano profonde, e tutt'altro che rimosse, le radici del "male".

ADELIO FERRERO
Cinema Nuovo

Dicevamo della tensione stilistica che regola tempi narrativi calibratissimi, il movimento alternativamente distaccato e insinuante del racconto, nitido e avvolgente, sempre sotto traccia. Sceneggiatore e regista evitano rigorosamente lo scarto espressionistico e la frase sopra le righe: quello che viene descritto è un mondo che sopravvive a se stesso, con lugubre condiscendenza. I conflitti non arrivano mai, né potrebbero, alla tensione risolutiva: i personaggi rifiutano sistematicamente di riconoscersi e, quando i fatti si incaricano di smascherarli, si apprestano pazientemente a rimettere insieme le labili apparenze di una identità smarrita da tempo o mai posseduta. La sinuosità catturante della forma diventa scrittura del comportamento di una soggettività frustrata, continuamente riassorbita nella propria inerzia.
D'altra parte, se lo scetticismo degli "educatori" nasconde solo aridità e impotenza, la violenza che affiora, e a tratti esplode nelle brutali competizioni dei ragazzi, in una crudeltà ammessa e regolamentata, è solo il sussulto di un organismo sociale profondamente minato. Qui anche la tragedia degrada e svilisce nella banalità di un incidente d'auto. Trionfano, nella calma mortale della conclusione, il nitore freddo del paesaggio e la levigatezza degli oggetti: nella quiete delle cose la presenza di quegli uomini, e delle loro mediocri vicende, è solo una stonatura. Losey descrive senza remissione una società accartocciata nella cenere che la fa sopravvivere: L'incidente abbraccia in un unico sguardo distanziato e impossibile servi e padroni, discepoli e maestri, dominati e dominatori. L'assenza di spiragli e di punti di fuga è totale, e la parola fine non può che siglare l'avvenuto processo di claustrazione.
Lo stesso discorso, con approccio diversissimo e altrimenti drastica determinazione, si ripresenta in Caccia sadica (1970) dove torna l'ambizione della metafora totalizzante, che comporta un provvisorio distacco dagli interni asfittici nei quali si consumano i rapporti tra servi e padroni e la "guerra dei sessi", per attingere un'immagine più vasta, ma anche più violenta e provocatoria, dell'alienazione che regola comportamenti e rapporti. Non a caso, Losey sembra ritrovare una situazione ricorrente nei primi film americani (Linciaggio, Sciacalli nell'ombra, ma anche altri): la condizione dell'uomo braccato. Ma se in quelli la fuga riceveva una sua determinazione precisa dagli uomini e dalle forze in conflitto (l'odio razziale, ad esempio), ora essa si spoglia di qualsiasi limitazione realistica, deludendo i meccanismi di riconoscimento e di compensazione dello spettatore. Dei due uomini in fuga non sappiamo, e non sapremo, nulla al di qua o al di là della loro condizione attuale di perseguitati: li seguiamo/inseguiamo in una corsa disperata attraverso le montagne, accompagnata da delitti feroci e gratuiti, nel tentativo, forse, di raggiungere "le nevi", oltre le quali c'è la salvezza. Né meno indeterminata, in questo paesaggio impervio e desolato, appare la condizione dei loro inseguitori, sicari stilizzati di un potere fantomatico di cui non si comprende la logica ma si subisce la crudeltà. Penso alle straordinarie sequenze, la prima in particolare, dell'inseguimento dei fuggiaschi da parte dell'elicottero, che in un'antologia del cinema della minaccia e della persecuzione entrerebbero di pieno diritto. Il mostruoso avvoltoio sfiora le teste dei due uomini, ruota intorno a loro, sempre più vicino, li lambisce, si risolleva solo per ripiombare con torva allegria su quei poveri insetti impazziti, riprende a seguirli ora blandamente ora con furiosa determinazione di morte, in un gioco calcolato la cui spietatezza mira a-destituire l'avversario di ogni superstite "dignità", riducendolo al grido e alla nuda implorazione biologica.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Si laurea in lettere a Harvard, dopo avere abbandonato gli studi in medicina (il padre, un avvocato di origine olandese, muore quando il ragazzo ha 16 anni). Collabora alle pagine letterarie di quotidiani, lavora in teatro schierandosi a sinistra nel periodo del New Deal, scrive per la radio. Frequenta a Mosca le lezioni di Ejzenštejn, fonda la compagnia del «Living Newspaper». Finita la guerra inscena - ed è avvenimento memorabile - il Galileo di Brecht, con Charles Laughton (1947). L'anno seguente esordisce in cinema con una stridula fiaba antirazzista ( Il ragazzo dai capelli verdi, 1948). Gira altri quattro film privi d'importanza - uno è il rifacimento di M di Fritz Lang - prima di essere messo al bando in seguito alle indagini del Comitato per le attività antiamericane, mentre si trova in Italia per realizzare Imbarco a mezzanotte (1952) con Paul Muni.

UGO CASIRAGHI

Se dovessimo sintetizzare in un solo aggettivo la complessa personalità di un regista come Joseph Losey - mancato a Londra il 22 giugno 1984, a -settantacinque anni -, useremmo qualcosa di un po' démodé, l'aggettivo «serio». Losey era una persona seria e, come tale, una rarità nel mondo del cinema internazionale, di cui fu uno degli esponenti più insigni. Quando il presidente Giscard d'Estaing gli chiese se; a lui americano, non sembrava un'impresa troppo grossa quella di portare sullo schermo la Recherche di Proust, egli si limitò a rispondere che a sedici anni già leggeva Du côté de chez Swann nel testo francese. Il che, forse, non era accaduto neppure al suo illustre interlocutore.
Losey non riuscì a dar corpo al suo sogno, ma per altre ragioni, squisitamente economiche, le stesse che bloccarono l'analogo progetto accarezzato dal collega e rivale Luchino Visconti. Harold Pinter, il drammaturgo dei tre più bei film di Losey (Il servo), L'incidente), Messaggero d'amore), aveva già preparato la sua sceneggiatura proustiana, ma il finanziatore preferì alla fine imbarcarsi nel Gesù di Zeffirelli, che non gli creava nessuna complicazione. Così si dissolse la sfida clamorosa che aveva accomunato e messo l'un contro l'altro i due campioni del decadentismo europeo, fin da quella primavera del 1971 in cui Messaggero d'amore soffiò la Palma d'oro di Cannes a Morte a Venezia, imperniato tra l'altro su un protagonista «loseyano» quale Dirk Bogarde. Morto Visconti, e prima della morte di Losey, l'impresa è parzialmente andata in porto per opera del regista tedesco Volker Schlöndorff, che aveva dalla sua una onesta carriera di illustratore di romanzi - dal Giovane Törless di Musil al Tamburo di latta di Grass - e un apprendistato cinematografico effettuato in Francia.
Come Visconti, anche Losey era uomo di sinistra. Non se ne vantava, ma non lo nascondeva mai, in nessuna occasione. Vero radicai americano, aveva partecipato alla battaglia democratica rooseveltiana con la radio, il documentarismo didattico e il teatro. Era stato in Europa e anche in Russia, e vi aveva conosciuto un po' tutti, da Ejzenstejn a Mejerchold, da Piscator a Brecht. Brecht e Toller li rivide poi esuli in America. Un giorno del 1939 incontrò Ernst Toller, l'autore dell'Uomo massa e di Oplà, noi viviamo, per strada a New York e parlò con lui tranquillamente. Due giorni dopo, seppe che s'era ucciso.
Con Charles Laughton, come con Brecht, era amico da tempo e lo aiutò quando, per paura della guerra, l'attore inglese si rifugiò da lui a Hollywood. Ma Laughton ricambiò la sua amicizia in modo assai tormentato. Proprio a Hollywood accettò di interpretare il Galileo di Brecht in prima mondiale nel 1947 al Coronet Theatre. Era troppo attore per rinunciare a un personaggio teatrale come quello. Fu la rappresentazione, poi ripresa a New York, che diede la fama a Losey: lo stesso Brecht e il musicista Hanns Eisler, anch'egli esule dalla Germania nazista, l'avevano preparata con lui per un anno. Ma appena si accentuò la caccia alle streghe, e sempre per paura, Laughton prese pubblicamente le distanze da tutti quei «comunisti». Fu una vigliaccata, ma Losey non gliela rimproverò mai, perché capiva l'individuo. Il coraggio uno non se lo può dare, come diceva il Manzoni di Don Abbondio. Ebbene Laughton era ancor più terrorizzato dal maccartismo che dalla guerra. Tradì i suoi amici per difendersi da quell'infezione atroce che penetrò in ogni amicizia e in ogni famiglia. Si riscattò anni dopo, affrontando la morte (testimonierà Losey) «con un coraggio immenso».

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