Giuliano Montaldo è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, montatore, assistente alla regia, è nato il 22 febbraio 1930 a Genova (Italia) ed è morto il 6 settembre 2023 all'età di 93 anni a Roma (Italia).
Esordì nel cinema come attore e organizzatore generale in Achtung banditi! (1951, Carlo Lizzani), realizzato da una cooperativa di spettatori. In seguito ha preso parte ad alcuni film. passando alla regia nel '96, con Tiro al piccione, un film sulla Resistenza, che cercava di analizzare criticamente il comportamento dei giovani fascisti della repubblica di Salò a contatto col mondo partigiano. Se il film fu in gran parte un fallimento artistico per l'incapacità di analizzare a fondo le ragioni umane e psicologiche dei personaggi, rivelò tuttavia in Montaldo buone doti registiche, che furono confermate dal successivo Una bella grinta (1965), in cui volle tratteggiare, con un certo acume, il personaggio di un giovane dei giorni nostri, arrivista, senza scrupoli, dedito unicamente al successo sociale. Di sciolto mestiere, ma anche più legate ai canoni del cinema commerciale, sono le sue opere più recenti.
Arrivare troppo presto su un tema difficile. Lavorare con furia alla scrittura di un film che viene accolto come una doccia fredda da quello che oggi lui definisce con affetto: «Da Age a Zavattini, un unico timbro, un’unica famiglia: l’ufficio politico del cinema diretto da Antonello Trombadori». Essere salutati, alla fine della prima proiezione – al festival di Venezia – «da un’atmosfera da fucilazione stalinista». E restare, tuttavia, con grande orgoglio e altrettanta serenità, per cinquant’anni e più, un militante di una sinistra «che non è mai stata generosa, che ha sempre dato per scontato l’omaggio e l’adesione di tante persone come me. Ci usavano, e noi eravamo felici di farci usare. Voto per i Ds, ma non ho mai avuto una tessera, mi dispiace che il partito non abbia mai avuto un progetto, che sia stato così ottuso nei confronti dello spettacolo e della tv».
Giuliano Montaldo mi riceve nella sua bella casa del quartiere Prati – un ultimo piano assolato e pieno di libri e quadri del Novecento mescolati con tappezzerie e scaffali fitti come la vita del proprietario – e dopo pochissimi minuti di conversazione mi riporta indietro, a quell’estate del 1961, a quel suo primo film-figlio, tanto amato eppure non capito. «Avevamo letto, con Fabrizio Onofri, sceneggiatore e giornalista, Tiro al piccione, la drammatica autobiografia di Giose Rimanelli, lo scrittore molisano che a diciassette anni – per caso, come capitò a tanti – scelse di arruolarsi nell’esercito della Repubblica di Salò e solo più tardi capì di aver visto la Patria e la Resistenza dalla parte sbagliata.» Tiro al piccione di Rimanelli fu scritto nell’autunno del 1945 e fu pubblicato da Mondadori nel 1953, dopo un lungo percorso. Il manoscritto era passato dalle mani di Cesare Pavese, cui il giovane autore lo consegnò personalmente, nel 1950, perché uscisse nelle edizioni Einaudi, a quelle di Vittorini, che – dopo la morte di Pavese – consigliò di mandarlo alla Mondadori e fu poi ristampato da Einaudi nel 1991. Il giovane regista, al suo esordio, trova i finanziamenti: «Il film partì grazie a un imprenditore intelligente e coraggioso come Sandro lacovoni, che aveva prodotto La lunga notte del ‘43 di Florestano Vancini, era interpretato da Jacques Charrier (l’attore francese che in quel momento era stato appena mollato da Brigitte Bardot), da Francisco Rabal e da Eleonora Rossi Drago. Fu attaccato da destra e da sinistra. Tutti presero le distanze, per tre anni io entrai in una crisi profonda, da cui mi salvò mia moglie Vera con il suo amore e la sua energia. Ero stato allevato da un padre socialista, andavo alle manifestazioni, nella Genova del primo dopoguerra, ad ascoltare il sindacalista Giuseppe Di Vittorio gridare: “Dicono che sono un cafone... Ma io sono cafone!”. E noi ci riscaldavamo dal freddo gelido con le sue parole. Ho sempre avuto il cuore, il cervello e la fede a sinistra, sono uno che non sopporta la corruzione, l’egoismo, l’intolleranza, tutti virus ancora dilaganti. La scomunica del mio primo film pesava tanto. Per fortuna, qualche anno dopo, quando il film passò in televisione, mi telefonò il grande capo comunista Giorgio Amendola: “Non hanno capito nulla. Scusali”». Montaldo li ha scusati, ma la ferita ancora brucia. Al secondo tentativo, un film-denuncia del capitalismo nascente negli anni del boom italiano, Una bella grinta, del 1964, «andò un po’ meglio. Perfino Alberto Moravia ne parlò bene, fu premiato a Berlino. Ero dalla parte giusta, ma uscì a ferragosto e neppure la mia mamma riuscì a vederlo». Il successo arriva con due produzioni internazionali, Ad ogni costo, con Edward G. Robinson e Janet Leigh, e Gli intoccabili, con John Cassavetes, Salvo Randone e Peter Falk. «Avevo fatto un po’ di soldi, potevo dedicarmi finalmente ai film che mi stavano veramente a cuore. Con Andrea Barbato, scrivemmo Gott mit uns, che bei ricordi... Preparammo anche insieme un soggetto sul Cile di Allende, basato su documenti del controspionaggio, il presidente la lesse, nell’ultima scena avevamo previsto la sua uccisione, lui commentò: “Può essere” e due mesi dopo fu eliminato. Una terribile ma prevedibile coincidenza. Nel 1970, arrivò Sacco e Vanzetti, che in queste ore torna in tv in una versione più psicologica che politica. L’ho visto, mi piace. Certo, io avevo Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla nel pieno della loro carriera, con Ennio Morricone pensammo alla colonna sonora, lui voleva una ballata, l’unica che poteva eseguirla era Joan Baez. Sapevamo che era amica di Furio Colombo, le mandammo attraverso di lui la sceneggiatura, lei mi telefonò al mattino seguente, dicendomi: “Ci sto!”. Grazie al nostro film, gli studenti di diritto di Boston ricostruirono il processo in tempo reale e dopo sette anni il governatore Michael Dukakis riabilitò i due italiani nel corso di una cerimonia dove fui invitato.»
I film che Montaldo predilige sono, dice, «quelli che vedono solo i garagisti, le tv li mandano alle tre di notte, la mattina vado a prendere la macchina e mi salutano così: “A dotto’, stanotte era gagliardo!”. Sacco e Vanzetti, il Giordano Bruno con Volonté e Charlotte Ramphing, L’Agnese va a morire con Michele Placido, Ingrid Thulin e Stefano Satta Flores, Gli occhiali d’oro con Philippe Noiret, Rupert Everett e la giovanissima Valeria Golino. Tanti attori, attrici, ma «Gian Maria era unico. Non ha mai recitato due volte con la stessa espressione del viso, passava dal buono al cattivo, dal cowboy al poliziotto italiano, da Enrico Mattei ad Aldo Moro, dal dongiovanni al santo riuscendo a esser sempre credibile». Fra i politici di ieri, il numero uno per il regista «resterà sempre Enrico Berlinguer: la sua serena pacatezza entrava nelle case e nei cuori con grande educazione e rispetto. Amava il cinema, amò moltissimo il mio L’Agnese va a morire, lo venne a vedere con Giancarlo Pajetta. Oggi mi piacciono Veltroni eRutelli, bravissimi, peccato che Walter non possa avere un ruolo nazionale, e poi don Chisciotte Fassino, come è diventato abile davanti alla telecamera». Suona il telefono, è proprio la segreteria di Fassino che invita Montaldo a una serata allo spazio Etoile di Roma: «Vengo sicuramente. Porto mia moglie? Ah, non è invitata?» risponde il regista, poi mi confida: «Avete ragione voi donne, i partiti sono maschilisti». A Silvio Berlusconi, che è stato in passato il suo produttore, «ma io trattavo con il meraviglioso amico Carlo Bernasconi», riconosce «una grande capacità di accattivarsi le simpatie degli altri. A me diceva sempre: “Sono poche le persone che portano così bene il fazzoletto al taschino, un mio antico vezzo”. E comunque è un ottimo regista e un buon attore, non capisco perché tenga Sandro Bondi nella sua compagnia. Purtroppo, gli italiani hanno sperato di diventare come lui». Giuliano Montaldo pensa che – in generale – «i politici parlino troppo. Si stanno logorando, Amendola diceva due cose all’anno e ancora ce le ricordiamo». Fra i bocciati a sinistra, uno solo: «Cesare Salvi. Sempre inutilmente aggressivo». Il collega più stimato? «Fra i coetanei, certamente Carlo Lizzani, che mi volle come attore quando ero giovanissimo. Fra i più giovani, non ho dubbi: Nanni Moretti, ho per lui tanto affetto. Ho deciso di fare una parte nel suo ultimo film, Il caimano, senza leggere il copione.» Mentre mi accompagna alla porta e stiamo per salutarci, Montaldo mi propone una deviazione verso il bagno di casa. Mi invita a entrare, esito ma capisco il gioco quando accende la luce: i manifesti dei suoi film sono appesi, quasi al soffitto, sopra il margine alto delle mattonelle. Che civetteria.
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006
II film d'esordio di Giuliano Montaldo, Tiro al piccione, incassa 342 milioni nello stesso anno in cui II posto di Olmi ne raccoglie a malapena dieci. Il film racconta una storia ambientata negli anni della repubblica di Salò: la sua novità è data dal rovesciamento del punto di vista. I protagonisti non sono gli antifascisti, ma un gruppo di giovani fascisti aderenti al governo repubblichino. Montaldo riporta alla luce la faccia più oscura dell'italiano fascista, non per demonizzarla, ma per studiarne il comportamento e capirlo al di fuori delle preclusioni aprioristiche.
Corretto è anche lo stile, costruito con buon rispetto delle regole spettacolari, e questo spiega il sia pure relativo successo finanziario del film.
Non indispensabili a rivelare in pieno le possibilità professionali del regista gli altri titoli degli anni Sessanta, tra cui va ricordato, perché più marcato in senso stilistico e tematico, Una bella grinta del 1965.
Come per altri autori con caratteristiche simili, la svolta avviene quando il sistema produttivo apre le braccia a soggetti di carattere politico e ne sostiene con mezzi notevoli l'impegno, puntando a raggiungere il grande pubblico.
Sacco e Vanzetti (1970) è l'opera chiave della carriera di Montaldo: quella in cui la forza registica, che anche le opere di pura routine commerciale rivelano, trova una giusta misura di rappresentazione. Senza rinunciare ai meccanismi del racconto spettacolare, il regista mantiene una vibrante intensità di denuncia, che corre lungo tutta la ricostruzione della vicenda dei due anarchici sacrificati dalla giustizia americana per esigenze politiche, pur nella loro palese innocenza. Montaldo legge in prospettiva attuale la storia, evocando più volte il ricordo dell'anarchico Giuseppe Pinelli, indiziato per la strage di piazza Fontana del 1969, misteriosamente «suicidatosi» con un tuffo dalla finestra di un ufficio di polizia.
Giordano Bruno, del 1973, splendidamente fotografato da Vittorio Storaro, si muove lungo la stessa linea, con l'intenzione, però, non di costruire la storia solo in funzione del rogo finale, quanto di tentare la ricostruzione di un modello esemplare di coerenza di vita e di ideali. Il taglio narrativo adottato oscilla tra divulgazione e allusione, in trasparenza, al presente, e rinvia a una storia e a un pensiero spesso dati come conosciuti.
La trascrizione del romanzo resistenziale di Renata Viganò L'Agnese va a morire va ricordata oltre che per la notevole interpretazione di Ingrid Thulin e la forte partecipazione emotiva del regista, anche per aver offerto, sia pure a trent'anni di distanza, uno dei pochi racconti di partecipazione attiva alla Resistenza da parte delle donne. Assai più ambizioso, comunque, il progetto televisivo del Marco Polo, portato a termine nel 1982, che spostando il lavoro registico su altri ordini di grandezza di mezzi e di possibilità spettacolari impone delle misure di discorso diverso. Negli anni Ottanta gira Gli occhiali d'oro, tratto dal romanzo di Giorgio Bassani e Tempo di uccidere da Flaiano, riuscendo ad accostarsi con una sensibilità inedita alle ragioni del privato.
Montaldo è uno dei pochissimi autori a cui la produzione abbia comunque concesso la possibilità di compiere il salto nel grande spettacolo, nella realizzazione del kolossal all'italiana. Negli ultimi anni Montaldo ha realizzato memorabili regie di opere liriche.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007