Nanni Moretti (Giovanni Moretti) è un attore italiano, regista, produttore, co-produttore, scrittore, sceneggiatore, montatore, è nato il 19 agosto 1953 a Brunico (Italia). Nanni Moretti ha oggi 71 anni ed è del segno zodiacale Leone.
Nanni Moretti nasce Brunico (Bz), ma trascorre tutta la giovinezza a Roma. Durante gli anni del Liceo si appassiona in modo sempre più profondo al cinema, al teatro e alla politica. Nel '72, inizia a girare i primi cortometraggi in super8. Del '73 sono La sconfitta e Patè de bourgeois, mentre nel '74 realizza un'esilarante parodia dei Promessi Sposi dal titolo Come parli frate?. Intesse una fitta rete di relazioni con personaggi di spicco, come il critico Beniamino Placido, i fratelli Taviani che gli affideranno una parte non trascurabile in Padre padrone, Luigi Comencini e Italo Moscati coi quali realizza una sceneggiatura tratta da Il sovversivo di Stajano. Tra il '76 e il '77 realizza sempre in super8 Io sono un autarchico che ottiene un discreto successo. Nel '78 raggiunge con Ecce bombo la consacrazione definitiva. I film successivi, Sogni d'oro (1981), Bianca (1984) e La messa è finita (1986), confermano Moretti come talento più interessante e punto di riferimento per tutto il giovane cinema italiano. Sul finire dell'86 decide di mettere a frutto la credibilità e la stima di cui gode creando con Angelo Barbagallo una casa di produzione, la Sacher film. La Sacher produrrà esordi di giovani autori di talento come Daniele Luchetti e Carlo Mazzacurati, il sesto lungometraggio dello stesso Moretti, Palombella Rossa (1989), un documentario sulla trasformazione del PCI dal titolo La cosa (1990), il secondo film di Luchetti Il portaborse (1991), durissima e sincera requisitoria contro la corruzione politica. Si adopera inoltre nel sostegno al cinema italiano di valore con iniziative di vario genere come il Premio Sacher, destinato al film italiano più riuscito di ogni anno, e l'apertura del Nuovo Cinema Sacher che diventa in breve la Mecca della cinefilia romana. Tra i suoi coetani, Moretti è il più amato, nonostante sia l'unico che non si preoccupi di piacere al pubblico. Le ragioni sono molte: innanzitutto una incosciente semplicità, determinata anche da una modesta conoscenza del mezzo tecnico che è riuscita a diventare scelta stilistica precisa; il senso dell'umorismo e l'acutezza nel rilevare con affetto e partecipazione gli aspetti grotteschi del mondo descritto, che è sostanzialmente quello dell'autore, con "tutte le mitologie, le parole d'ordine, le frustazioni, i simboli di prestigio, i luoghi comuni, le convergenze e le dissociazioni di cui si è nutrita una generazione di piccolo borghesi negli anni del movimento e del riflusso post-sessantottino" (G.Brunetta, 1991, p.639). Moretti infatti, pur rinnovandosi continuamente, è uno di quei registi di cui si può dire che girano sempre lo stesso film, nel senso che pur nel mutare delle storie e delle circostanze, il suo è sempre il punto di vista di un personaggio fortemente autobiografico che osserva e cerca di comprendere e riflettere i mutamenti profondi della realtà circostante. Non è un caso quindi se Moretti stesso interpreta tutti i suoi film e se questo io narrante si chiama Michele Apicella. Questa affermazione di uno sguardo personalissimo che indaga il mondo, non è la sola caratteristica che ha indotto la critica a considerare Moretti un vero e proprio autore. C'è una sincerità assoluta, a volte quasi imbarazzante, nella sua analisi e soprattutto nell'autoanalisi, tanto che si è arrivati a paragonare un simile uso del cinema al lettino dello psicoanalista. Ipotesi che lo stesso regista avvalora quando infarcisce le sue opere di autocitazioni e rifermenti autobiografici. Spesso per esempio utilizza il proprio padre per ruoli significativi come lo psicologo della scuola in Bianca. . In Sogni d'oro racconta le nevrosi di un giovane regista di successo il quale, nella finzione, sta realizzando a sua volta un film dal titolo La mamma di Freud, mentre in Palombella Rossa arriva addirittura a inserire alcune sequenze del suo primo cortometraggio, La sconfitta, senza contare che tutto il film si svolge durante una partita di pallanuoto, sport praticato da Moretti a livello semiprofessionistico. Tutta questa autoreferenzialità è costata al regista frequenti accuse di narcisismo e di aver dato vita a un culto ultraminimalista della propria personalità con tanti pianti e molto compiacimento. Certamente qualcosa di vero c'è in questi rilievi, ma va sottolineato come il regista romano riesca quasi sempre a bilanciare queste tendenze sia con l'umorismo, sia con un rigore assoluto nella messa in scena e nella rappresentazione dei rapporti umani, che ricorda il moralismo di alcuni grandi maestri francesi come Rohmer o Bresson.
Ma chi è Michele Apicella? Nei primi due lungometraggi l'alter ego di Moretti è il rappresentante di un vero e proprio gruppo sociale, la giovane borghesia progressista poco incline all'azione e molto votata alla discussione, a un continuo parlarsi addosso che diviene facilmente celebrazione di sè. I due film sembrano un po' i due capitoli della stessa storia, anche se in Ecce Bombo Moretti rifinisce la psicologia del suo personaggio, e nello stile introduce quel "segmentare il racconto per brevi sequenze che farà parlare di stripes e fumetti" (M.Sesti, 1990, p.16).
Sogni d'oro "è il film più sofferto dall'autore fin dalle origini e segna forse il momento di maggiore identificazione tra regista e personaggio, ma è anche il film in cui il genere scelto, che è quello della commedia, sembra soffocare altri caratteri tipicamente morettiani, come il senso della misura e la profondità' dell'indagine. Indagine che riprende in pieno e con la massima intensità' nei due film successivi, in cui Michele s'incarna in un professore di matematica e in un giovane prete incapaci di ritrovarsi in un'esistenza caotica e precaria, dove nulla possiede la coerenza perfetta dei numeri e dove persone non sanno restare fedeli ai propri sentimenti, per andare in cerca di miti e ideali effimeri. In generale la realtà si presenta a Michele-Nanni in piena dissoluzione, priva di punti di riferimento sicuri, priva di una qualsiasi sostanza. E' un'esistenza di cui l'individuo non può non avere paura, da cui non può non sentirsi minacciato in continuazione, cercando rifugio in un passato più chiaro, più rassicurante, racchiuso nella propria memoria.
Ma il passato non deve essere funzionalizzato all'oggi in vista della soluzione dei problemi del futuro (...): attraverso il ricordo invece si cerca di rispondere ai quesiti di ieri, e ciò avviene attraverso la spinta dei problemi che urgono dal futuro come accade in Palombella Rossa, opera complessa, dialettica e difficile. Il film parte come accurata riflessione sul mutamento politico epocale che coinvolge i Partiti Comunisti di tutto il mondo ma piano piano scivola in un intimo bilancio della vita del regista, mostrando nel microcosmo di una piscina l'intersecarsi continuo delle scelte private e pubbliche, mettendo in relazione i due aspetti nei quali si realizza la personalità dell'individuo: quello sociale e quello individuale. Moretti attua questa fusione di orizzonti sofferta e sincera con stile veramente personale, in un film duro che mantiene le unità aristoteliche di luogo, spazio e tempo senza concedere nulla alle leggi dello spettacolo, ma senza rinunciare a decise prese di posizione, a giudizi sferzanti, a dichiarazioni di amore o di odio .
A Brunico, dove i genitori stavano trascorrendo le vacanze. A Roma, città dove ha sempre vissuto, frequenta il liceo classico e la sua adolescenza è segnata da due grandi passioni: il cinema e la pallanuoto, arrivando nel 1970 a giocare nella Nazionale giovanile e in serie A nella Lazio. Negli anni giovanili è impegnato anche politicamente nell'ambito della sinistra extraparlamentare e questo interesse per la politica rimarrà inalterato. Dopo il diploma riesce a comprarsi una cinepresa Super8 e inizia così la brillante carriera di uno dei cineasti più interessanti nel panorama del cinema italiano. Con alcuni amici che si improvvisano attori gira nel 1973 due cortometraggi: La sconfitta e Patè de bourgeois. È del 1976 il suo primo lungometraggio, Io sono un autarchico, realizzato sempre in Super8 e poi gonfiato in 16mm, primo film in cui compare come personaggio protagonista Michele Apicella, alter-ego del regista in quasi tutti i suoi lavori. Il film diventa un piccolo caso cinematografico e viene proiettato al Filmstudio di Roma, ma è con Ecce bombo del 1978, presentato a Cannes in concorso, che si può parlare dell'ingresso vero e proprio di Nanni Moretti nel mondo del cinema. Il film rimane uno dei più grandi successi di pubblico e critica del regista. Nel 1981 vince il Leone d'oro - Gran premio speciale della giuria alla Mostra del Cinema di Venezia con Sogni d'oro. Mantenendo sempre la sua originalità e indipendenza gira nel 1984 Bianca con Laura Morante, altro esempio di grande cinema, a cui farà seguito nel 1985 La messa è finita, con il quale vince l'Orso d'argento al festival di Berlino. Autarchico di natura ha sempre cercato di mantenersi al di fuori di giochi di potere e per questo motivo nel 1986 fonda con Angelo Barbagallo una sua casa di produzione, la Sacher Film, nome scelto in onore del suo dolce preferito, nel 1991 apre in Trastevere una sala cinematografica, il Nuovo Sacher, e nel 1997, per chiudere il cerchio, fonda anche una società di distribuzione, la Tandem. Nel 1989 gira Palombella rossa proiettato nel corso della Settimana Internazionale della Critica durante la Mostra del Cinema di Venezia. Grande successo ha sempre riscosso in Francia tanto che André Labarthe gli dedica una puntata di Cinéma de notre temps. In Canada nel 1993 il Festival di Toronto gli dedica una retrospettiva e nello stesso anno esce uno dei suoi film più belli, Caro diario, con il quale vincerà il premio per la miglior regia al festival di Cannes. Il suo film successivo Aprile, divide la critica e non convince il pubblico, problema che non si pone con la sua ultima fatica, La stanza del figlio, film intenso, un po' fuori dai canoni a cui il regista aveva abituato e unanimemente riconosciuto come un capolavoro.
Nanni Moretti ha fatto nell’anno qualcosa di unico: è stato il solo regista italiano, della sua generazione trenta-quarantenne e di ogni altra generazione, a raccontare la fine nel mutamento del Partito comunista: quindi l’evento maggiore della politica italiana immobile e ripetitiva; la smentita di sé e della propria storia da parte del partito con il quale gli intellettuali e soprattutto i cineasti italiani avevano avuto nel corso del tempo dalla fondazione della Repubblica in poi i legami più forti e dal quale avevano ricevuto il più forte sostegno; il cambiamento che ha sconvolto in tutta la sinistra milioni di persone portando interrogativi, sollievo, confusione, dolore, perdita di identità e fatica dell’inventarsene una diversa, rimpianti, dilemmi, rivolte, speranza. L’evento è parso inesistente nei film di altri registi, ha lasciato ammutoliti altri autori anche comunisti: Maselli raccontava storie d’amore, Scola e i Taviani s’affidavano alla metafora di vicende seicentesche e settecentesche, Lizzani tirava a campare. Moretti, che non è mai stato iscritto al Pci né mai ne ha frequentato le sezioni, ha affrontato direttamente la crisi comunista, e con risultati belli che smentiscono la pretesa impossibilità di intervenire sulla cronaca e sulla politica, sugli avvenimenti in corso, non conclusi. Lo ha fatto con un film, Palombella rossa, scartato dal concorso della Mostra di Venezia 1989, proiettato ugualmente al Lido dalla Settimana della critica, accolto li e poi nei cinema con passione, lacerazioni, entusiasmi, agnizioni. Lo ha fatto anche con un documentario di un’ora, La Cosa.
Come nei vecchi tempi militanti, con una minima troupe, per proprio interesse, a proprio rischio e a proprie spese (soltanto una volta completato il documentario è stato ceduto per 120 milioni alla terza rete televisiva della Rai, che lo ha mandato in onda 116 marzo 1990 alla vigilia del congresso del Pci), è andato in giro, ha registrato nel novembre-dicembre 1989 assemblee e interventi di base in otto sezioni comuniste, a Francavilla di Sicilia, San Giovanni a Teduccio, Ca’ Nuova di Genova, Bolognina di Bologna, Carrozzerie Mirafiori di Torino, Milano Lambrate, San Casciano Val di Pesa, Roma Testaccio. Ha seguito “ quel momento unico di autocoscienza collettiva, centinaia di migliaia di persone che, negli stessi giorni, discutevano delle stesse cose, con euforia o con smarrimento o con rabbia, ripensando al proprio passato politico e quindi alla propria vita, alla propria visione del mondo”.
La Cosa resta il solo documento visivo di quel momento. Nell’aria chiara delle sezioni (alle riunioni comuniste è proibito fumare) echeggiano nel novembre 1989 soprattutto domande, incertezze, turbamenti: “ Fortunati quei compagni che hanno le idee chiare. Io sono in crisi, la proposta di Occhetto m’è arrivata come un cazzotto in faccia”, dice un anziano. “Che cosa cambia? Non ci dicono se cambia il simbolo, se cambia il nome... Non dimentichiamo che tanti compagni sono morti, per questa falce e martello”, dice un altro anziano. “ Non capisco l’attaccamento a questi simboli, che poi sono una questione d’immagine ”, dice un quarantenne coi baffi.
Prendendo la parola, ciascuno risale al momento in cui entrò nel Pci, ciascuno esprime la propria cultura generazionale: a Genova i vecchi evocano la lotta partigiana e “i tempi della cospirazione”; i giovani invitano: “ Lasciamo da parte i sentimenti, anche se la bandiera rossa fa venire i brividi a tutti”, oppure: “ Non si può rifuggire dentro il passato per trovare qualche appiglio”. A Torino uno ricorda: “I comunisti, in fabbrica, quando passava il capofficina non chinavano mai la testa, per questo mi piacevano”. A Bologna una donna matura fa amaramente i conti:
“ Nei Paesi dell’Est tutto si è rivelato a discapito della gente del popolo, il comunismo dei burocrati fatto sulla pelle di chi lavora... Io ora non mi sento più di prendere la tessera del partito”.
L’inquietudine acuisce rancori: “ Io sono in imbarazzo con la gente che ci sberleffa, non so cosa rispondere”, dice un giovane siciliano; “ Se un domani il Partito comunista, o come si chiamerà, arriverà al quaranta per cento dei voti per ritrovarsi poi a litigare con Craxi sui posti di presidente dell’Iri o della Rai, allora non m’interessa”, dice un quarantenne torinese; “ Io sono stanco dei compagni che prendono un problema e studiano. Ingrao, problemi dello Stato: sono dieci anni che studia. E Tortorella? Chi è Tortorella? Cosa ha studiato Tortorella per migliorare la mia cultura?”, dice un milanese anziano; “Tutto questo cambiare non sarà soltanto il cambio d’un ceto politico con un altro?” sospetta un torinese.
Inflessioni dialettali, un po’ di parolacce e molte emozioni si infiammano a Roma: “ Non rimaniamo attaccati a un nome che è come uno scudo”, invoca uno. “Ma l’alternativa con chi la vogliamo fare? A noi ci snobbano tutti, con noi nessuno ci vuoi venire...”, dice una donna. Un giovane tempesta: “ Io ho voglia di fare politica, ma non la si fa più. Willy Brandt per me è un tram che prendo e poi molo, mi fa comodo ma come punto di arrivo non lo voglio ”.
Più tardi tutto s'è placato, organizzato, partitizzato, in parte burocratizzato. Il documento di quei giorni di transizione e di massima emozione rimane grazie a Nanni Mo-retti e a quella sua idea della politica, dei comunismo, espressa in una intervista a Venezia, settembre 1989, che vale magari la pena di rileggere. Sulla terrazza bella, lunga e stretta dell’ Hotel des Bains, dopo la presentazione di Palombella rossa; diceva: “ Io sono soltanto un elettore comunista. Anche per ragioni di età, mi sono estranee molte cose su cui tanti comunisti s’interrogano: lo stalinismo, l’Unione Sovietica... La mia militanza, limitata nel tempo a uno o due anni e alla scuola, è stata in un gruppo extraparlamentare, ma moderato: verso la “crisi della militanza” avevo un atteggiamento interessato e insieme ironico già nel1973, quando girai il mio primissimo film La sconfitta, alcune parti del quale sono inserite in Palombella rossa”.
Diceva di non poter immaginare come il film sarebbe stato accolto e capito dai comunisti: “In loro c’è una voluttà autolesionista che mi pare sia iniziata nel 1987 dopo elezioni andate male e poi proseguita, che io non capisco:
non sarebbe meglio parlare di come distruggere il modo di far politica che adesso è vincente, e andare avanti? M’accusano di moralismo: va bene, e allora? Capisco che parlare di morale a Venezia suoni strano, ma c’è una cosa insostituibile: la tensione morale, che è latitante e non si rimpiazza con una vera o presunta professionalità politica. In Berlinguer lo capivi, il significato della parola diversità: potevi non essere d’accordo con lui in tante cose, ma aveva una faccia diversa che significava un modo diverso di fare politica”.
A lui, diceva Moretti, interessava una cosa soprattutto:
“ Fare il contrario di quanto fa la cultura di sinistra dominante: lavare i panni sporchi non in famiglia, ma in pubblico”. Eppure, non gli sembrava di poter definire Palombella rossa un film politico: “ Credo che nel film ci sia la difficoltà di fare politica, di fare pallanuoto, di fare cinema, e il desiderio di farlo in modo diverso, al di fuori della norma, dello standard. Anche all’interno del cinema di sinistra e del pubblico di sinistra, la facilità e le scorciatoie sono quelle che vincono. A me non interessano. Io a fare un film ci metto molta fatica e molto impegno, discuto, litigo con tutti... Però se vado al cinema e vedo un film che mi piace, invento qualcosa per farlo sapere, per premiarlo: trovalo, un altro regista che dia premi ai suoi colleghi...”
Courtesy of La Stampa
Nanni Moretti sarà una volta di più al centro dell'attenzione internazionale. Con una grande personale (non mi va di chiamarla retrospettiva, ha un che di definitivo, di giubilatorio - ma si sa che in materia di parole è meglio lasciare la scelta al nostro, notoriamente molto meticoloso), lo celebra, infatti, a partire dal 6 agosto il Festival di Locarno, arrivato alla sessantunesima edizione. E non basta: le edizioni dei Cahiers du cinéma hanno preparato per l'occasione un volume sul suo cinema, che sarà presentato nel corso del festival.
Aspirava, questo volume, a essere il primo. Nella gara allo studio e al riconoscimento del cinema del Nanni nazionale, e prima che si possa vedere cosa i sofisticati cugini d'Oltralpe scriveranno su un autore che hanno sempre molto amato, è arrivato però già un altro bel volume di saggi, edita dal Sindacato nazionale critici cinematografici e curato da Gabriele Rizza, Giovanni Maria Rossi e Aldo Tassone. Il titolo è L'intransigenza della ragione. Il cinema di Nanni Moretti (ma apprendiamo che avrebbe potuto anche chiamarsi L'intransigente, L'intollerante, Tolleranza zero, Ragione e sentimento, Io corro da solo, Riso amaro, Giro amaro, Chi Vespa beve Moretti e altro ancora, con vittoria finale dell'austero titolo di cui sopra). È un percorso informato, sapiente e puntuale attraverso il lavoro del nostro amato intransigente. Che forse si turberà di fronte alla quantità di teoria e di teorie applicabili al suo cinema.
Come risponderà l'anti-intellettuale per eccellenza, il cultore della semplicità verbale, il cineasta della concretezza «A me interessa la realtà, non l'attualità... Non cerco il consenso a tutti i costi, odio la genericità che ha sempre successo, l'indignazione che costa poco»), di fronte al fatto di essere definito «baudrillardiano» (in riferimento a Ecce Bombo e, ovviamente, in un capitolo dedicato alla critica francese)? Il lettore, dalla sua, risponde bene: è un piacere ripercorrere la strada, così poco pomposa, così poco enfatica, così poco «italica», di un italianissimo maestro della cinematografica commedia umana.
Da Il Venerdì di Repubblica, 1 agosto 2008
«Ho cominciato a fare politica negli ultimi tre anni del liceo, dal 1969 al 1972. Facevo parte di un gruppo extraparlamentare che pubblicava la rivista “Soviet”, diretta da Paolo Flores d’Arcais, metteva in copertina il faccione di Marx, ma anche Mao che giocava a ping-pong. Nei 1973 girai il mio primo filmino in super8: si chiamava La sconfitta. Ho sempre fatto film sul mio ambiente politico: non mi sono mai interessati, neanche da spettatore, i film manichei dove ci sono i buoni da una parte, per cui fare il tifo e i cattivi dall’altra, che si beccano i fischi dalla platea. Ho sempre preferito parlare del mio mondo, criticandolo e prendendolo in giro... Il crollo del mio personale muro di Berlino fu quando capii, leggendo dai giornali dei primi interrogatori dei pentiti, che gli assassini del terrorismo rosso venivano dalla sinistra. Scoprire, alla fine degli anni Settanta, che i brigatisti non erano dei marziani dei servizi segreti, quello sì fu un vero colpo. Persone che avevano militato nella Fgci, nella sinistra cattolica, ex militanti di Potere Operaio, i più giovani che venivano da Autonomia Operaia. Ero in piazza Venezia, quel giorno del giugno 1984: il corteo funebre di Berlinguer partì da via delle Botteghe Oscure, verso piazza San Giovanni. La banda cominciò a suonare e io mi misi a piangere. Non ero mai stato iscritto al Pci, ma con Berlinguer cominciava a scomparire una generazione che si era formata in altri anni, che poneva come prioritaria la “questione morale”.» Mescolare l’etica con lo sport, la vita privata con la passione civile, i valori tradizionali della borghesia con l’indignazione radicale, l’ironia con il dovere della denuncia, la difesa della famiglia e la presa d’atto della sua impraticabile perfezione, fino alla propria chemioterapia, inserita in un episodio di Caro diario, per dare e darsi coraggio. Dal liceo fino ai girotondi del 2002-2004, dal Psi a Berlusconi, i suoi bersagli privilegiati sono sempre i suoi simili, colpevoli di non aver fatto abbastanza per bloccare il degrado, la corruzione, la censura. Biografo di se stesso e di almeno un paio di generazioni, Nanni Moretti è nato a Brunico, nell’agosto del 1953, mentre i suoi genitori erano lì in vacanza. Luigi era un professore di epigrafia greca, sua madre Agata professoressa del liceo Visconti, «la classica famiglia di intellettuali, se è un termine ancora attuale» spiega Paolo Zaccagnini, musicologo, giornalista, frequentatore della casa di via Tommaso d’Aquino e protagonista dei primi film di Moretti. «ll fratello grande, Franco, mio coetaneo e compagno di studi alla cattedra di Agostino Lombardo, oggi è un geniale studioso di letteratura americana e italiana e la sorella Silvia, più piccola, lavora alla Treccani. Li ricordo spiritosi, aperti, si divertivano a fare le comparse nei primi super8. Peccato che pochi abbiano visto Come parli, frate?, parodia dei Promessi sposi, con Nanni-don Rodrigo e Beniamino Placido co-protagonista, girato alle pendici di Monte Mario, dov’è ora la strada panoramica e allora c’erano i prati, sopra allo stadio Olimpico. Ci rotolavamo dal ridere. I nostri amori erano tre: la politica, il cinema, la Roma. Eravamo capaci di stare sei ore al cineclub Filmstudio per un documentario di Andy Warhol e poi di passare la notte a giocare a Subbuteo. Nanni era biondissimo, campione di pallanuoto, mai stato un dogmatico come qualcuno vorrebbe: ricordo una sua passionaccia per Franco Cahlifano, cantante scorrettissimo».
Le formazioni delle squadre a memoria, il Vespone, le gite a Ostia, i gelati di Sisto o di Giolitti, la città assolata e deserta delle estati studentesche, il ping-pong e le amicizie: il morettismo, prima ancora di essere oggetto di culto, è un pezzo di storia della Roma anni Settanta. Una storia che è stata messa in ordine, completa delle sue tragedie immense, da Maurizio Fabretti e Piero Galletti in Più colla, compagni (edizioni Memori). Galletti è l’attore che grida: «No, il dibattito no» in Io sono un autarchico, del 1976, Fabretti è quello che all’interrogazione di Ecce Bombo recita gli undici della mitica Inter: Sarti, Burgnich, Facchetti... In un passaggio del libro, uno dei ragazzi commenta il successo del «grande regista», così: «Certo, Nanni ha preso tante cose nostre. Dovrebbe darci i diritti d’autore, altro che le trentatremila lire a posa». Osservare e mettere nei film era un riflesso automatico. Conferma Mariella Gramaglia, oggi assessore al Campidoglio, anche lei nel gruppo di “Soviet” e attrice in uno sconosciuto Paté de bourgeois nel 1973: «Nanni era come oggi: spigoloso, appassionato, colto e timido. Gli raccontai di un mio fidanzato che si arrabbiava perché non sapevo mai quanto zucchero mettesse nel caffè, e lui anni dopo mise la scena in un film». Pochi soldi, tante riviste, tanti «gruppettari» in circolazione: ragazzi primi della classe che abbandonano i movimenti alla vigilia del terrorismo e del delitto Moro e vengono arruolati dai partiti, dai giornali. «Eravamo ancora immersi nel delirio della politica di sinistra» racconta Giampiero Mughini, attore in Ecce Bombo e in Sogni d’oro, «Paolo Flores e Franco Moretti abitavano insieme in una casa di Prati e Nanni ci guardava, noi amici del suo fratello maggiore, immaginandoci già come suoi personaggi. Direi che, già allora, la sua sensibilità era tutta anti, tutta contro, tutta rivolta a smascherare i tic, i vizi, del nostro giro.» Mughini e Moretti diventano amici, si ritrovano in una sala biliardi dalle parti di via Cola di Rienzo a giocare a ping-pong, hanno dieci anni e più di differenza ma li unisce, oltre alla crescente insofferenza per i riti del sinistrese, una singolare passione per il calcio e i suoi dettagli. «Provammo a presentare un progetto di una saporita trasmissione sportiva alla Rai: fummo bocciati, naturalmente» rivela Mughini. Trai due finisce male, a causa di un’intervista che Moretti voleva ritrattare dopo aver corretto e che invece Mughini è costretto a pubblicare sull’»Europeo». Da allora, l’avversione per la carta stampata e la ricerca della solitudine diventano un’ossessione. All’epoca del sodalizio con Daniele Luchetti, prima suo aiuto e poi regista del Porta borse, i due vanno a vedere le prime dei film italiani a Firenze o Napoli, «partivamo con la sua Uno e tornavamo la sera. E tutto per non incontrare, a Roma, il regista-autore o qualche giornalista». I pochissimi che riescono a intercettarlo sono i genitori dei compagni di scuola del figlio Pietro, dieci anni, allievo di una scuola americana al Portuense. E tutti osservano, alla domenica, con quanta antica tenerezza lui filmi con una telecamerina le sue partite di calcetto
Da Registi d’Italia, Rizzoli, Milano, 2006
Di famiglia borghese (il padre è docente universitario di epigrafia greca, la madre insegnante liceale), alterna l'attività politica fra i gruppi extraparlamentari e il cinema a passo ridotto. Con il super8 gira alcuni spiritosi filmetti. Uno di questi - Io sono un autarchico (1977) - trasferito su 16 mm rivela la presenza di un autentico autore che dà voce a una gioventù amorfa e inconcludente. Con il successivo Ecce Bombo (1978), film girato secondo le regole dell'industria, sia pure in maniera semi-indipendente, l'assonnato e iroso intellettuale borghese - protagonista oltre che regista - getta sul tavolo le sue carte: un gruppetto di amici romani vaga inutilmente per la città, alla ricerca di nulla, con la speranza di acchiappare per la coda un'avventura che non verrà.
Sogni d'oro (1981) esaspera il tono con una laboriosa parodia del dottor Jekyll stevensoniano, ricevendo alla Mostra di Venezia un premio speciale. Ma è con Bianca (1983) che l'attore-regista va a segno, narrando le angosce di un moralista il quale non esita a sterminare metodicamente i «peccatori»: una specie di malizioso, ma implacabile, «mystery» che si sviluppa con dolcezza sorniona fra una sorpresa e l'altra. Moretti è, ormai, una voce sicura nel panorama di un cinema flebile come quello italiano degli anni '80. Il successivo La messa è finita (1985) volta in sarcasmo quel che, in Bianca, era protesta allusiva. Il mondo (in questo caso Roma, le sue borgate) è così cambiato, s'è tanto incarognito, che merita solo una urlata e strampalata indignazione: la parola tocca a un giovane prete che torna a casa per mettere disordine.
In Palombella rossa (1989) il moralismo sconfina nella politica, brutalmente, con effetti che - trascinando nella storia quella pallanuoto di cui l'autore è stato un campione - sono quanto mai esilaranti. Il moralismo si accoppia a un narcisismo esasperato, commovente. Moretti accetta di mettersi in gioco in prima persona, con il disuguale Caro diario (1993), tre episodi quasi documentari («In vespa», «Isole», «Medici»), lievi, drammatici (il piano-sequenza finale del primo), ironici, fatui: una sintesi altamente significativa, irritante al limite della presunzione.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995