Totò (Antonio de Curtis) è un attore italiano, scrittore, sceneggiatore, musicista, è nato il 15 febbraio 1898 a Napoli (Italia) ed è morto il 15 aprile 1967 all'età di 69 anni a Roma (Italia).
Totò era un principe, o forse un dio. Questo dio, il più antico e fuori dal tempo, si cela sotto una maschera: il viso irregolare e appuntito, il corpo secco e meccanico come fosse d’una marionetta. Questa maschera affascina e commuove, anche nei film meno "nobili", anzi soprattutto in quelli. Lì è il vero Totò, che può entrare in qualunque storia, che può fingere d’essere qualunque personaggio, restando sempre grande e uguale a se stesso. Il dio, quel dio, predilige nascondersi: ama frequentare vicoli, gente comune, arti minori, follie quotidiane. Dietro il volto e dentro il corpo di Totò - Pulcinella e marionetta - si riconosce il dio dell’origine, del tutto e del nulla, l’antico dio Pan. Totò e una delle sue metamorfosi, la più recente, come le altre resa necessaria dalla nostra progressiva moralizzazione, dal nostro ostinato rifiuto di ciò che dentro di noi resta primordiale, corporale, onnipotente. Gli dei non muoiono, cambiano pelle: rispuntano dove meno si sospetta. E quando poi si tratta di dei perdenti, scacciati dai nuovi e vincenti, abbandonano la superficie e vanno ad abitare il sottosuolo, gli inferi o l’inferno. Così è capitato al gioioso e tragico dio Pan, vinto e perseguitato dalla civiltà, dalle sue limitazioni e dai suoi vincoli progressivi. Le corna, il piede caprino, la sessualità senza limiti sono ora le caratteristiche popolari del principe delle tenebre: rimosse, sprofondate nell’angoscia, e dunque ancora tanto vive. Lo sguardo lampeggiante, luciferino del principe Totò viene da lontano. Prima di lui, per secoli, altre maschere insospettabili hanno coperto e difeso il volto di Pan: dai villani del teatro romano ai buffoni delle corti medievali, dal Socrate popolare al mago Merlino. Socrate - racconta Francois Rabelais - era deforme: "vedendolo di fuori, e in base alla semplice apparenza, non l’avreste stimato una mezza cipolla: tanto era brutto di corpo e ridicolo di portamento, col naso appuntito (...)". Era come un brutto barattolo dentro cui si conservavano "le droghe più fini, come balsamo, ambra grigia, cinnamono, muschio, zibetto, pietre virtuose, e altre cose di pregio". E come lui era Merlino, ma ancor più vicino alla demonica potenza che sta nascosta nella penombra e nel sottosuolo. Tra tutte, però è la maschera di Bertoldo che più lascia intravvedere l’antico dio (lo ha notato Piero Camporesi). E lo stesso vale per il suo "doppio" Marcolfo, da Giulio Cesare Croce poi mutato in Marcolfa, la sposa di Bertoldo. Bertoldo, dunque pare "proprio un diavolo infernale" e, come Marcolfa, ha "la barba folta sotto il mento e cadente come quella del becco, (...) le gambe caprine, a guisa di satiro (...)". Il volto e il corpo di Totò - cioé la sua maschera: mento allungato e deragliato, gambe troppo sottili e piedi sporgenti - non riproducono forse con perturbante precisione l’antico modello? Certo, il mondo di Bertoldo e quello di Totò sono molto diversi. Bertoldo è Pan in un mondo contadino, padano, con radici celtiche. Totò invece è Pan in un mondo urbano e mediterraneo, che non ha dimenticato le proprie origini. Il tutto e il nulla di Totò, la sua dismisura e la sua follia niente sanno di nebbie e pianure, di sterco e stalle. Con lui, Pan torna al sole e al mezzogiorno, all’ora segreta e solenne, incantata. La sua naturalità non è più quella della "natura", ma proprio quella dell’uomo: è l’universo corporale di Napoli, che Totò ha nutrito di polvere di palcoscenico, di umori popolari. La sua arcaicità, poi, è quella che tanto affascinava Pier Paolo Pasolini: Totò - diceva - è sottoproletario e napoletano, perciò non è moderno, ma antico. Meglio, è l’antico che continua a vivere nel moderno. Da Napoli gli viene il senso del comico e del macabro, della vita e della morte, della follia e della tragedia, del tutto e del nulla. Forse, Napoli è il luogo - la città, la cultura, la musica, il teatro - nel quale soprattutto ancora vive il dio-capro. Come Pan - e come Bertoldo -, Totò è cattivo, spietato. Lampi di durezza, improvvisa e tagliente, attraversano il suo sorriso. Ma non si tratta di una cattiveria morale: al contrario, è pre-morale, fulminea e necessaria al pari di un rivolgimento tellurico. Dietro la maschera lampeggia la terribilità del caos, come esplodono i fuochi d’artificio che, tanto spesso, Totò simula a gesti. è l’onnipotenza panica del desiderio che deborda, incurante di quel che è stabilito, permesso, vietato: è l’onnipotenza del Totò direttore d’orchestra o capofila di una tarantella che tutti rapisce nel suo ritmo assoluto. Insolente e maligno come Pan, Totò non ha nessun rispetto del potere: il famoso "dialogo" ferroviario con l’onorevole Trombetta non è che la più recente metamorfosi dei dialoghi irriverenti di Marcolfo con Salomone o di Bertoldo con Alboino. Niente merita riguardo, agli occhi del dio-tutto. Totò è la rivincita di quel che sta sotto su quel che sta sopra, della fame e del corpo e dell’amore e dell’egocentrismo su qualsiasi forma di autorità. Gerarchie, onori, verità, senso comune: Totò li riduce ad assurdità, travolgendoli in un fiume di parole impazzite. E allora i suoi antagonisti - alcuni tra i più grandi professionisti del nostro cinema e del nostro teatro, anche se non sempre tutti egualmente riconosciuti - vengono sopraffatti dal panico. L’antico dio produce follia negli uomini. Egli stesso è "epilettico", senza l’ordine e la statica linearità dell’individuazione: proprio come non-individuati sono i movimenti a scatti della marionetta Totò. Dunque, il principe era un dio, luciferino e lampeggiante. Quel dio prediligeva vicoli, gente comune, arti minori, follie quotidiane: perciò era tanto grande, sul palcoscenico e sullo schermo. Ma come mai, circondato dalle sue ninfe - Totò amava le donne -, il dio Pan si è dato al cinema? Ebbene, non poteva essere altrimenti. Cos’è il cinema, infatti? Il cinema è il trionfo dell’esserci, l’arte del dio-tutto, che esprime la realtà con la realtà, l’arte panica dello stare tra le cose. Il cinema è "in armonia con la vita": così, in un magico scritto sul cinema come infinito piano-sequenza, canta il Totò di Pasolini, inaspettato maestro "coi capelli fatti di tante matite colorate, come il personaggio della Lampostyl". E Ninetto ascolta beato, "col fiocco rosso dello scolaro diligente e menefreghista", sotto un grande, caldo, sognato sole mediterraneo.
Da Il Sole 24 Ore, 19 Giugno 1988
Morte di Totò. Sebbene improvvisa (improvvisa la morte e la notizia della morte) sentiamo che ci eravamo preparati: e preparati non da questi ultimi anni, non dall'anzianità di Totò, ma preparati da sempre.
L'arte di Totò, come del resto tutta l'arte napoletana, ha un persistente còte funebre. La stessa suprema qualità comica di Totò, si affidava alla rigidità della mimica e delle mosse: il suo corpo, più che un burattino, diventava un cadavere elettrizzato. E la sua intima esuberanza e vitalità diventavano poetiche proprio per questo suggerimento, questo beffardo presagio di morte. Totò danzava e recitava come se dicesse di continuo, in sottofondo: «Mi agito tanto e anche voi vi agitate tanto: ma fa lo stesso: siamo già scheletri dentro di noi, e finiremo, tutti stecchiti». Un po' come quell'umanità che descrive Achille Campanile all'inizio di uno stupendo e assurdamente dimenticato romanzo della sua giovinezza.
Esilarante danza macabra: così può essere definita l'arte di Totò. Non per nulla l'ultimo suo film che raggiunga, dal punto di vista dell'interpretazione, l'altezza delle migliori cose precedenti, è, da cima a fondo, un capolavoro del macabro: Che fine ha fatto Totò baby.
E non per nulla il suo volume di versi (ed. Fausto Fiorentino, Napoli, 1964) è intitolato 'A livella, dal titolo della più famosa delle poesie che contiene. 'A livella' (cioè «la morte livellatrice») era anche la poesia che Totò recitava più volentieri, e che sempre sceglieva quando, in un salotto, in una serata, o al ristorante, dopo cena, gli amici gli chiedevano di dire qualche cosa.
Ogn'anno, il due novembre, c'è l'usanza per i defunti andare al Cimitero. Ognuno ll'ha dda fa' chesta crianza; ognuno ha dda tene chistu penziero…
Certo, in questi ultimi anni, nella vita o sullo schermo, non potevo rivedere Totò senza ricordare la fine degli anni trenta, la passerella del Quattro Fontane al suono della fanfara dei bersaglieri, il finalissimo dei «fuochi artificiali immaginar!» che Totò creava dirigendo l'orchestra, Vera Worth e Matthea Mary Field. Nell'estremismo dell'antifrasi, che, chiamando Totò «baby», alludeva alla sua inevitabilmente incipiente vecchiezza, m'era, dunque, parso di avvertire un sarcasmo che sfiorava, per Totò e per spettatori non troppo più giovani di lui, la disperazione. Ma la fanfara dei bersaglieri usata in passerella aveva, in fondo, già allora, e cioè venticinque anni prima di Totò baby, un sapore freneticamente mortuario e iconoclasta, con i lazzi di Totò e le cosce delle girls, che sembravano distruggere definitivamente i miti risorgimentali e patriottici, per sostituirvi l'unico mito superstite negli anni trenta, e purtroppo, di nuovo, oggi: l'erotismo.
Non c'è nessun dubbio, tuttavia, che, nella seconda, o piuttosto terza fase della sua carriera, e cioè nel cinema, Totò abbia migliorato, raffinato la propria arte.
Quella smaccata e dilatata mimica, che richiedeva la partecipazione acrobatica di tutto il corpo, e che forse era effetto della giovinezza, a poco a poco era stata trasformata, da Totò, in un'arte più riflessiva, in una recitazione più paziente e più precisa, più musicale e più raffinata: in un gioco da fermo: come i grandi foot-ballers sul finire della loro carriera, Cevenini III, Cesarini o Cren, quando facevano miracoli nello spazio di un metro quadrato: ma più efficacemente di loro e con la prospettiva di una durata molto più lunga, dato che il football non può esimersi da una certa violenza fisica e, a un certo momento, dall'energia muscolare necessaria a un breve shoot, mentre a quello shoot degli attori cinematografici che è il primo piano basta un silenzio, un'immobilità, la scelta di un tempo, un timido abbassare delle palpebre, una lieve contrazione della pelle tra naso e labbro superiore.
Ai film di Totò, si rideva. Si rideva con soddisfazione: con la convinzione di «ridere giusto». E da che cosa derivasse quella convinzione, quale verità morale fosse alla base della comicità di Totò, specialmente di questa sua ultima comicità ferma e perfetta, non saprei dire: bisognerebbe pensarci a lungo: è probabile, però, che la molla più potente di questa comicità fosse un assoluto non conformismo. Appena vedevamo il volto di Totò, sentivamo subito che lui aveva fatto piazza pulita di tutte le balle della nostra società e della nostra cultura, di tutte le cose e le persone noiose, di tutte quelle idee, enormi o minute, che Croce definiva «pseudoconcetti». Insomma, come Molière e come tutti i comici veri, Totò smascherava le ipocrisie e denunciava spietatamente la vanità della società contemporanea.
Per questo, nonostante si riallacci direttamente alla tradizione napoletana e sviluppi la maschera di Pulcinella, Totò fu un innovatore. Fin dal principio della sua carriera, Totò allargò il linguaggio napoletano, adottando parole, espressioni, intonazioni prese da tutti i dialetti d'Italia. Tutti ricordiamo l'«ostrega» e il «neh» di Totò. Totò era il napoletano che incominciava finalmente ad accettare l'Italia: ed ecco perché, in questa sua accettazione, era facile distinguere come una sfumatura di incredulità, come un'asperità di derisione, che erano le radici segrete e vivaci di quelle sfottenti citazioni da dialetti stranieri al napoletano.
La Magnani, l'altra sera, nella sua commossa commemorazione televisiva, si domandò tristemente come mai nessun regista italiano «di lusso» abbia pensato a fare un film con Totò, e come mai nessun produttore italiano «di forza» abbia pensato che valesse la pena di lanciare sul mercato internazionale un attore che nel mercato nazionale era una sicurezza finanziaria e che, inoltre, aveva la leva del proprio successo nella mimica, ossia in un linguaggio internazionale.
Fu questa, lo sappiamo, un'amarezza che avvelenò gli ultimi anni della vita del nostro caro, affettuoso amico, così umile, così sincero, così generoso con tutti. Come avrebbe voluto, povero Totò, girare un film con Fellini, con Antonioni, con Visconti! Avrebbe, come si dice, fatto carte false per riuscirci!
Non posso non concordare con il rammarico della Magnani: ed ebbi, del resto, a esprimere cotesto stesso rammarico, scrivendo, tre o quattro anni or sono, su un settimanale, un articolo che mi valse l'amicizia di Totò. Tuttavia, già allora, insinuai un dubbio, che per Totò avrebbe dovuto essere consolatore. La Magnani deve prendere atto della mia buona fede, e deve concedermi di insinuare lo stesso dubbio anche oggi, che Totò non è più con noi, o piuttosto che non siamo più con lui. Ecco il dubbio: forse, diretto da un regista di lusso, Totò non avrebbe dato niente di più. Forse, addirittura, avrebbe dato meno: sarebbe stato come «congelato» dal talento altrui. Non gli capitò proprio questo, nei suoi rapporti con Pasolini?
Aveva ragione Blasetti, anche lui nella commemorazione televisiva dell'altra sera, quando, con uno dei suoi caratteristici scatti di intelligenza, disse che Totò era, sempre, l'irresistibile, indomito regista di se medesimo, e tanto più quanto meno se ne accorgeva: a differenza di Petrolini, precisò Blasetti: ma anche con una particolare differenza da Chaplin, preciso io.
Perché Totò ebbe la grandezza degli umili, degli istintivi, dei delusi e degli sconfitti: come Keaton. E non è possibile negare che questo tipo di grandezza abbia un palpito tutto particolare, che manca alla grandezza dei superbi, dei consapevoli, dei soddisfatti e dei vittoriosi: come Chaplin.
Se analizziamo più attentamente ancora l'arte di Totò, ci accorgiamo che egli tendeva a smascherare non soltanto i conformismi e le ipocrisie contemporanee; ma che, più in profondo, tendeva a deridere ogni illusione sul significato ultimo che, in ogni epoca, viene attribuito alla vita: tendeva a ricordare la fatale fine comune, la vanità di tutte le vanità, la fondamentale amarezza del nostro destino. Ecco, dopo «'A livella», un'altra poesia di Totò, che esprime con disarmante semplicità anche questa amarezza:
Felicità!
Vurria sapé ched'è chesta parola,
vurria sapé che vvo' significa.
Sarrà 'gnuranza 'a mia, mancanza 'e scola,
ma chi IPha ntisa maje annummenà?
17 aprile 1967
Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006