David Fincher filma la dura lotta tra industria e ideologia. Disponibile su Netflix.
di Sara Gelao, Vincitrice del Premio Scrivere di Cinema
Mank, l’ultimo film firmato David Fincher e targato Netflix, è la smentita di una credenza dura a morire: che nel cinema il regista sia l’unico “autore” possibile. “L’autore è un personaggio moderno prodotto dalla nostra società” assicurava lapidario il critico-semiologo Roland Barthes negli anni ‘80. E poi c’è il regista, che è sicuramente un artista, ma molto più spesso un mito costruito dal pubblico, incetta di aspettative e affezioni, garanzia di generi e qualità. Ed ecco che la sua definizione non ci sembra poi così lontana da quella precedente di autore. Non è un caso che con la parola inglese auteur si intenda regista, soprattutto il tipo assorbito da se stesso e dalla sua arte, quello protagonista assoluto del processo creativo che porta alla realizzazione di un film.
Mank si profila dunque come la storia intellettualizzata di Herman J. Mankiewicz, sceneggiatore – e forse vero autore – dell’intramontabile Citizen Kane (conosciuto in Italia con il titolo di Quarto potere), il cui regista Orson Welles non riconosciamo più come brillante mente ideatrice, ma piuttosto solo come abile impresario o correttore di bozze, l’illegittimo padre di un’opera. Mankiewicz non ha mai ricevuto il giusto credito e riconoscimento per, probabilmente, la sceneggiatura migliore che avesse mai scritto e così il suo nome è stato presto dimenticato, caduto in un oblio immeritato.
Ma più che solo un film ad honorem, Mank è soprattutto il ritratto disilluso della Hollywood degli anni ‘30, le cui pennellate tratteggiano le storture e le ipocrisie di un commercio cinematografico ben lungi dall’essere un romantico cantiere artistico. La macchina cinematografica è una crudele partita tra industria e ideologia. La combinazione, poi, di un controllo visuale tipico alla Fincher e un audio che quasi suona rarefatto, danno vita ad un film in bianco e nero che sembra direttamente recuperato da un archivio degli anni 40, un effetto voluto in principio rivelatosi essere un sottile espediente di icasticità.
È in tal modo che non possiamo negare l’impressione di realtà che ci investe, nello specifico, una realtà a due binari e a flashback battenti: quella di un concepimento artistico torturato (come tante volte è) e quella di un contorno sociale e politico che non solo inquadra epoca e trama ma che ispira lo stesso Mankiewicz nella stesura di questo film da sceneggiare in tempi record.
Ne esce fuori un cinema impregnato di politica, che sottolinea il pericolo di questa operazione – quella di scrivere un film – anche quando autonomia creativa e libertà autoriale sono concesse. Non solo allora un cinema politico ma forse un cinema che è politica, all’ora come, a ben vedere, potenzialmente tutt’oggi.