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di Paola Casella
Mai come in Notturno Gianfranco Rosi ha lavorato su quella tensione che caratterizza tutto il suo cinema: una tensione fra il valore sociale e politico di ciò che il regista racconta e la cura formale di tutto quello che viene inquadrato. Notturno è un collage di storie individuali che si svolgono in quella terra di nessuno che sono diventati Siria, Libano, Kurdistan e Iraq, cartine di tornasole di una situazione geopolitica estrema e impossibile da ricondurre alla normalità, ma che invece costituisce la quotidianità di migliaia di uomini, donne, ragazzi, anziani e bambini costretti a farci quei conti destinati a non tornare mai.
Dunque Rosi ci mostra una madre che piange suo figlio nella prigione dove è stato torturato, una maestra che fa disegnare ai suoi giovanissimi alunni gli orrori della guerra; un teatro che invita un gruppetto di pazienti psichiatrici a mettere in scena il dolore; soldati e guerrigliere, braccianti e cacciatori, una giovane coppia e una famiglia numerosa.
Per quattro anni il regista ha osservato e resocontato una realtà inaccettabile, eppure in qualche modo accettata da chi è costretto a viverla in prima persona. Ma il suo sguardo non si è limitato semplicemente a documentare: c’è un’attenzione alla resa estetica del racconto, una cura affinché ogni dettaglio venga evidenziato all’interno dell’inquadratura scelta, anche quella con estrema cura, affinché diventi quadro e non rimanga solo fotografia del reale.
A distanza ravvicinata, stretta sui volti di persone che raccontano la loro sofferenza nelle pieghe del viso più ancora che nelle parole o nelle espressioni, o da lontano, ad abbracciare uno spazio immenso in cui la figura umana è messa in minoranza (o letteralmente all’angolo), la cinepresa digitale di Rosi non si limita a cogliere l’attimo e il campo di indagine, ma lo struttura, affinché la sua testimonianza sia più potente, e più eminentemente cinematografica.
Anche lo schema di colori non è mai casuale ed è registicamente manipolabile ai fini di una migliore resa compositiva.
Le persone diventano forme, e poi però reclamano la loro individualità; i luoghi si mostrano come metafisici e subito dopo ritornano alla loro specificità etnica, geografica e politica. È un continuo rimbalzo fra minimo e massimo, primo piano e visione di insieme, distanza emotiva siderale e coinvolgimento diretto viscerale. E il suono e la luce restano sotto il ferreo controllo del regista, ma ciò che si muove entro quel suono ora vicino e ora lontanissimo, o in quella luce utilizzata nella sua valenza strategica, occasionalmente sfugge e sorprende: perché non puoi comandare la natura o la gente, e troveranno sempre il modo di spiazzarti – per fortuna.